L’onere della prova nel processo tributario, a seguito della legge 31 agosto 2022, n. 130
Abstract
La legge 31 agosto 2022, n. 130, intitolata “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari”, oltre ad aver istituito le Corti di Giustizia Tributarie di Primo e di Secondo Grado unitamente alla magistratura tributaria professionale per concorso, ha introdotto rilevanti novità anche nel decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546, recante la disciplina del processo tributario.
Nel presente documento verrà analizzato il contenuto dell’articolo 7, comma 5-bis, d.lgs. n. 546/1992, intitolato “Poteri delle corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado”, il quale ha introdotto una disciplina specifica dell’onere della prova all’interno del processo tributario.
Sommario
- Il nuovo comma 5-BIS dell’articolo 7 lgs. 546/92 in materia di onere della prova
- L’onere della prova in materia tributaria
- La collocazione sistematica: il precetto sull’onere probatorio rientra tra i poteri del GIUDICE TRIBUTARIO
- L’onere della prova “diventa” per legge a carico del fisco: quale rapporto con l’istruttoria pre-accertativa?
- La natura della norma e la sua efficacia temporale
- Il rapporto con la normativa sostanziale
- “Nuovo” onere della prova e “ristretta base” societaria
- “Nuovo” onere della prova e fatture per operazioni inesistenti
- Uno specifico onere della prova ai fini sanzionatori
- L’onere della prova nelle liti da rimborso: nulla di nuovo
1. Il nuovo comma 5-bis dell’articolo 7 d.lgs. 546/92 in materia di onere della prova
L’articolo 6 della legge di riforma 31 agosto 2022, n. 1301 ha introdotto all’interno dell’articolo 7 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, riguardante i poteri delle corti di giustizia tributarie, il comma 5-bis, in materia di onere della prova.
La nuova norma prevede testualmente che:
“L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”.
Trattandosi di una disposizione di natura processuale (come si dirà meglio appresso), essa è entrata in vigore il 16 settembre 2022 unitamente all’intero testo della legge di riforma, al di fuori delle previsioni per le quali è stata fissata, espressamente, una decorrenza diversa2. Del resto, il fatto stesso che, in altri casi, è stata fissata una decorrenza diversa, conferma che la modifica riguardante l’onere probatorio è entrata in vigore fin da subito.
Oggetto del presente documento di ricerca sono la portata della novella normativa sui giudizi tributari, sia in corso che introdotti a decorrere dal 16 settembre, il rapporto con la modalità di formazione della prova all’interno dell’istruttoria procedimentale pre-accertativa e quello con le norme già esistenti in materia di riparto dell’onere probatorio.
Completa il presente lavoro la disamina dell’onere probatorio nelle liti da rimborso, che rimane, per espressa previsione di legge, a carico del contribuente.
2. L’onere della prova in materia tributaria
La disamina della novità normativa deve, necessariamente, prendere le mosse dai principi generali in materia di riparto dell’onere probatorio in materia civile.
L’articolo 2697 del codice civile, intitolato “Onere della prova”, al primo comma prevede testualmente che:
“Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.”
Applicata alla materia dei tributi, tradizionalmente questa norma è stata interpretata nel senso di attribuire, da un lato, all’amministrazione finanziaria l’onere di provare i fatti “costitutivi” della pretesa fiscale, dall’altro, al contribuente l’onere di provare i fatti “impeditivi”, “modificativi” o “estintivi” di quella medesima pretesa3.
Dal canto suo, la Corte di Cassazione ha, da sempre, attribuito all’amministrazione finanziaria il ruolo di “attore in senso sostanziale” della pretesa; ciò significa che, al di fuori delle ipotesi in cui le norme dispongano diversamente, è pacifico come debba essere il fisco a provarne la fondatezza, fin dall’emissione dell’avviso di accertamento4.
Pertanto, l’Agenzia, che vanti un credito nei confronti del contribuente, è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa; per contro, grava sul contribuente l’onere di provare i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi di quella stessa pretesa. In altri termini, secondo questa impostazione “tradizionale”, spetterebbe al fisco l’onere di provare l’esistenza di maggiori ricavi sottratti “a tassazione” e, per contro, al contribuente quello di provare l’esistenza di maggiori costi5.
Va, tuttavia, segnalata una significativa inversione di rotta che, auspicabilmente, potrà trovare seguito nella giurisprudenza, prima di merito e poi della stessa Cassazione: la Corte di giustizia tributaria di primo grado di Siracusa (sezione 5), con sentenza 23 novembre 2022 n. 3856, nel valorizzare il concetto di reddito d’impresa ed il criterio di determinazione ad esso sottostante, ha, infatti, sovvertito la concezione secondo la quale spetterebbe al contribuente l’onere di provare l’esistenza dei costi.
In particolare, i giudici siracusani hanno evidenziato come quella della dicotomia costi-ricavi, ai fini dell’incombenza dell’onere probatorio, rappresenti, di fatto, un equivoco in cui è incorsa la giurisprudenza di legittimità, atteso che costi e ricavi, pur se con segno opposto, concorrono entrambi alla quantificazione del reddito d’impresa, quale “valore netto”. All’indomani dell’entrata in vigore del comma 5-bis, l’equivoco – prosegue la sentenza – non ha più ragione di esistere, atteso che incombe sempre e comunque sull’Ufficio l’onere di provare i presupposti della pretesa.
Sul punto, anche autorevole dottrina ha, di recente, confermato – per la stessa ragione – non doversi “gravare” il contribuente dell’onere probatorio in materia di costi: “Sennonchè, e sempre alla stregua dell’analisi della struttura della norma sostanziale, la suddetta imposta ha come presupposto non i ricavi, bensì il reddito, che è per l’appunto un dato differenziale fra ricavi e costi; talchè sia l’esistenza degli uni che l’inesistenza degli altri devono formare oggetto di adeguata dimostrazione da parte dell’ente impositore.” Ciò in quanto il ricorso al criterio della vicinanza della prova non ha valenza sostitutiva di quello oggetto dell’articolo 2697 c.c. ed è meramente sussidiario, potendo essere invocato soltanto per la qualificazione di un elemento di fatto “per la qualificazione di un elemento di fatto come costitutivo o come impeditivo, ai fini dell’imputazione dell’onere probatorio alla stregua dell’articolo 2697 cit., a carico dell’una o dell’altra parte del processo.” 6
Dal punto di vista “formale”, come precisato sempre dalla Cassazione quello della prova costituisce un requisito che non va “confuso” con la motivazione, stanti i diversi piani sui quali si pongono: processuale il primo, amministrativo il secondo7. L’onere della prova,
dunque, “sorgerebbe” solo all’interno del giudizio e una volta che questo sia stato avviato (con l’impugnazione dell’atto impositivo), mentre la motivazione costituisce un requisito di legittimità dell’accertamento, che deve obbligatoriamente accompagnarlo fin dalla data della sua emissione, tanto da non poter essere integrata, successivamente, in sede contenziosa8.
È pur vero, tuttavia, che in materia tributaria – e, più specificamente, nella fase di formazione della pretesa tributaria – motivazione e prova spesso si “confondono”, o, per meglio dire, si “intrecciano”, atteso che il contenuto dell’accertamento mette il contribuente a conoscenza delle ragioni logico-giuridiche sottostanti e, al tempo stesso, fornisce quella che, a detta del fisco, rappresenta – o rappresenterà in giudizio – la prova della fondatezza della pretesa.
Tale “intreccio” appare quantomai evidente nell’ipotesi, di cui all’articolo 5-ter l. 212/20009, degli accertamenti emessi in conseguenza dell’esito negativo del contraddittorio preventivo, i quali devono contenere la c.d. “motivazione rafforzata” che obbliga gli uffici, di fatto, a provare l’infondatezza delle ragioni addotte dal contribuente nella fase endo- procedimentale. Si tratta, dunque, di una fattispecie – per certi versi – emblematica, che rivela la stretta contiguità tra motivazione e prova, tanto da farne – in estrema sintesi – un tutt’uno, sotto i profili amministrativo e processuale allo stesso tempo. La stessa Agenzia delle Entrate, del resto, con circolare n. 17/2020 ha precisato che l’esito del contraddittorio costituisce parte della motivazione dell’accertamento, per cui gli uffici non possono limitarsi a valutare gli elementi forniti dal contribuente, ma dovranno essere argomentate in motivazione le ragioni del relativo mancato accoglimento; descrivendo, in particolare, le giustificazioni dallo stesso offerte e argomentando sulla relativa fondatezza, in modo da rendere intellegibile l’iter seguito per addivenire alla determinazione della pretesa tributaria10.
La precisazione, dunque, è quantomai rilevante proprio alla luce di quanto si dirà nel prosieguo, in merito alla novità normativa contenuta nella legge di riforma n. 130: infatti, l’avere stabilito ex lege che le corti debbano accertare in giudizio l’esistenza della prova da parte del fisco, non significa che l’onere probatorio si “trasferisca” tout court dalla fase istruttoria a quella processuale, a tal punto da “esonerare” gli uffici dal “preoccuparsene” fin dalla fase accertativa vera e propria.
In altri termini, l’introduzione del principio contenuto nella legge di riforma non si pone in contrasto con la natura del fisco di “attore in senso sostanziale” della pretesa, che non verrà meno in quanto “figlia” della modalità di formazione della prova in fase istruttoria che è e resta a carico dell’amministrazione procedente11. Come precisato, peraltro, dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione all’indomani dell’entrata in vigore della novella, “la norma mira, con ogni evidenza, a cristallizzare e rendere indiscussa una regola che poteva ritenersi già assodata nella materia, posto che attore di fatto è sempre l’ente impositore”12.
Logica conseguenza – come si dirà meglio nel prosieguo – è che, nonostante il mutato scenario normativo, resta a carico del contribuente, per il tramite del suo difensore, l’onere di formulare uno specifico motivo di impugnazione concernente la violazione, da parte dell’ufficio, dell’onere della prova comunque a suo carico, evidentemente non assolto già prima dell’introduzione del giudizio. Va ricordato, infatti, che, a mente dell’articolo 18 d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, il ricorso deve contenere l’indicazione dei motivi di impugnazione e che tale indicazione è tassativa e imprescindibile, restando preclusa la facoltà di integrare i motivi successivamente in giudizio (al di fuori dell’ipotesi eccezionale prevista dall’articolo 24 del medesimo decreto).
Anche per questo, dunque, l’introduzione della nuova disposizione in materia di onere della prova non farà venir meno l’onere di formulazione dello specifico motivo di impugnazione, in capo al contribuente – rectius, al suo difensore – che proponga ricorso.
Non va dimenticato, per altro verso, che in alcuni casi è stato il legislatore tributario ad aver posto l’onere probatorio in capo al contribuente: è l’ipotesi, ad esempio, dell’articolo 38 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 (su cui si tornerà nel prosieguo) in materia di accertamento sintetico.
In quel caso, infatti, una volta che il fisco si sia – comunque e previamente – fatto carico di provare la capacità di spesa ovvero l’esistenza di indici rivelatori della capacità contributiva, spetta al contribuente provarne l’irrilevanza ai fini reddituali, in mancanza risultando legittima la presunzione di un maggiore imponibile sottratto all’imposizione13.
Un discorso a parte va fatto in relazione all’articolo 32 dello stesso d.P.R.
In questa ipotesi, nonostante la Cassazione abbia, da tempo, affermato la natura di presunzione legale relativa ai prelevamenti (per i soli titolari di reddito d’impresa) e ai versamenti ingiustificati14, il fisco, in ogni caso, non è esonerato della dimostrazione circa l’imponibilità delle somme “rinvenute” sui conti, tanto che, proprio per questo, sono gli stessi uffici, il più delle volte, ad espungere le movimentazioni manifestamente prive di rilevanza reddituale, come nel caso dei giroconti.
Vi è, poi, la fattispecie – di cui si è detto poc’anzi – dell’articolo 5-ter d.lgs. n. 218/1997, nella quale il legislatore pone espressamente a carico del contribuente, che ritenga di essere stato ingiustamente pretermesso dall’attivazione del contraddittorio preventivo (e che non si trovi in una delle ipotesi di urgenza previste dalla norma), l’onere di fornire la c.d. “prova di resistenza” (mutuata dai precedenti delle Sezioni Unite sul tema15); dimostrando, all’atto dell’impugnazione dell’accertamento, quali ragioni avrebbe potuto far valere, in quella sede, ove ritualmente convocato16.
In questi casi, dunque, la novella normativa non dovrebbe mutare il quadro attuale, lasciando a carico del contribuente l’onere probatorio contrario, ove espressamente previsto.
3. La collocazione sistematica: il precetto sull’onere probatorio rientra tra i poteri del giudice tributario
Si è già detto che il legislatore ha ritenuto di inserire la norma all’interno del decreto sul processo, in tal modo fissando espressamente, anche all’interno del giudizio, il principio che vede l’Amministrazione finanziaria onerata dell’onere probatorio quale attore “in senso sostanziale” fin dalla fase di formazione della pretesa.
La collocazione, si è detto, è all’interno dell’articolo 7 dedicato ai poteri del giudice tributario, il quale elenca le fattispecie nelle quali le corti di giustizia possono esercitare le facoltà istruttorie a loro concesse17.
C’è in primo luogo da chiedersi, dunque, in quale rapporto si ponga il nuovo comma 5-bis con i commi precedenti, preesistenti rispetto alla novella normativa.
Innanzitutto, va ricordato che si tratta di facoltà che il giudice tributario può esercitare nel rispetto del thema decidendum delimitato dalle parti e, dunque, su impulso di esse, come stabilito dall’inciso “nei limiti dei fatti dedotti dalle parti” contenuto nel primo comma18.
Si tratta, dunque, di poteri sempre e comunque rimessi alla discrezione del giudice, a condizione che ne sia stato espressamente investito.
Il nuovo comma 5-bis e, con esso, il precetto concernente l’onere probatorio, si inserisce, pertanto, in questo contesto; va colta, però, una distinzione, non soltanto lessicale, ma anche di contenuti.
In questo caso, infatti, non si tratta di una mera facoltà, ma – piuttosto – di un “obbligo” cui il giudice tributario non può sottrarsi, a fronte, naturalmente, dello specifico motivo di impugnazione formulato nel ricorso.
Conducono a questa conclusione non soltanto il lessico che è stato scelto (di qui l’aspetto formale), avendo il legislatore della riforma utilizzato verbi declinati all’indicativo presente (“L’amministrazione prova in giudizio (…). Il giudice fonda la decisione (…)”), che differisce sia nella forma che nella sostanza dal verbo “potere” presente nei commi precedenti (come il “possono” del secondo comma); ma, anche, il fatto che il primo periodo della norma (“L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”) ha natura – come detto – precettiva, che, in quanto tale, ne sottrae la “disponibilità” da parte del giudice, affermando un obbligo tout court a carico del fisco.
Il giudice tributario, nell’ambito del thema decidendum delimitato dalle parti e, segnatamente, dal contribuente19, deve verificare pertanto che il fisco abbia adempiuto all’onere probatorio posto a suo carico; eccezione, questa, che, all’indomani della riforma, sembrerebbe – di fatto – l’unica a formare oggetto di una norma processuale ad hoc.
4. L’onere della prova “diventa” per legge a carico del fisco: quale rapporto con l’istruttoria pre-accertativa?
Si è già detto che l’introduzione, ad opera della legge n. 130, del comma 5-bis non muta l’assetto procedimentale che vede il fisco gravato dell’onere probatorio durante la fase istruttoria.
Ma entriamo più nel dettaglio.
La nuova disposizione esordisce stabilendo che l’amministrazione finanziaria prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato.
Trattasi di norma, come detto, precettiva, che pone ex lege l’onere della prova a carico del fisco.
La precisazione “in giudizio” rivela la natura processuale della norma, il che potrebbe apparire pleonastico ove si consideri che, come si è detto, il contesto all’interno del quale nasce e si attua l’onere probatorio è proprio il processo.
Tuttavia, nella materia tributaria il fisco è gravato dell’onere probatorio prima ancora che il giudizio venga formalmente introdotto dal contribuente mediante ricorso, precisamente già all’atto di emettere l’avviso di accertamento20; la formazione della prova, più in dettaglio, avviene durante l’istruttoria pre-accertativa e l’atto impositivo – in sé per sé – non fa altro che “contenerne” l’esito21.
Per questo, la prova della fondatezza della pretesa precede l’instaurazione del giudizio, dal che – come si è detto – deriva la natura di “attore in senso sostanziale” del fisco, più e più volte ricordata dalla Cassazione.
Stando così le cose, la novella normativa, stabilendo che il fisco debba provare in giudizio la propria pretesa, non costituisce una duplicazione dello status quo ante.
Il rischio, però, è che, nel porre all’interno del processo l’onere della prova a carico del fisco, la novella possa tradursi in una “seconda chance” per gli uffici, che potrebbero sentirsi “autorizzati” a fornire solo allora quella prova che, invece, su di essi incombe fin da prima.
Anzi, a ben guardare, il problema è ancora più grande, atteso che potrebbe intendersi che l’onere della prova si “sposti” da prima a durante il processo; difatti, lo status di “attore in senso sostanziale” potrebbe effettivamente “cedere il passo” alla norma ad hoc (che prima non esisteva), la quale istituisce per legge l’onere probatorio a carico del fisco.
Peraltro, nell’ottica difensiva, potrebbe, per assurdo, ritenersi che, mentre prima della novella vi era sicuramente motivo per impugnare l’accertamento sotto il profilo della violazione dell’onere probatorio (che si fosse ritenuto non assolto prima dell’emissione dell’accertamento), dopo la riforma questo motivo potrebbe non avere più ragione di esistere, atteso che l’onere probatorio nascerebbe proprio e solo all’interno del giudizio e, dunque, dopo che l’impugnazione sia stata proposta.
In realtà, il dubbio viene meno alla luce di quanto poc’anzi osservato, in merito alla collocazione sistematica della novella.
Infatti, se è vero che il nuovo comma 5-bis contiene, in apertura, la disposizione precettiva che pone sempre a carico del fisco l’onere probatorio in giudizio, è pur vero che la stessa si colloca all’interno dei poteri del giudice, che, in quanto tali, possono essere esercitati solo su iniziativa di parte.
Tanto porta a escludere che, anche dopo il 16 settembre 2022 (data di entrata in vigore della legge di riforma), in sede di ricorso possa farsi a meno di formulare uno specifico motivo di impugnazione ad hoc; se così non fosse, infatti, nonostante il primo periodo della norma, il precetto normativo finirebbe con il rimanere, di fatto, inattuato e inattuabile, mancando la specifica deduzione di parte che ne impedirebbe l’applicazione da parte del giudice, con buona pace della “nuova opportunità” concessa dal legislatore della riforma.
5. La natura della norma e la sua efficacia temporale
Si è già detto che la novella normativa, contenuta nel comma 5-bis, ha natura processuale.
Tale natura discende, in primo luogo, dalla stessa lettera della norma, la quale fa espresso riferimento alla prova in giudizio (“L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”).
Inoltre, la predetta natura è rivelata dalla collocazione sistematica della norma nel decreto legislativo n. 546/92, che disciplina appunto il processo tributario, e in particolare nell’articolo 7, tra le disposizioni relative ai poteri del giudice, dunque dell’organo giudicante all’interno del processo.
Quanto alla decorrenza, non essendo stata prevista una decorrenza ad hoc22, la norma non può che applicarsi a partire dal 16 settembre 2022 (data di entrata in vigore della legge di riforma n. 130 del 31 agosto) e, pertanto, non soltanto ai giudizi instaurati successivamente, ma anche a quelli già in essere a quella data.
Del resto, è da escludersi che la norma si applichi limitatamente agli avvisi di accertamento e agli atti impositivi emessi a decorrere dal 16 settembre 2022, conclusione cui potrebbe, per un attimo, indurre a pensare proprio l’iter di formazione della prova nella fase istruttoria e pre-accertativa, di cui si è detto poc’anzi; invero, la circostanza che il fisco – quale “attore in senso sostanziale” – sia onerato di provare fin da subito i presupposti giuridici e fattuali posti a base della propria pretesa (dunque già all’atto di emettere l’accertamento e prima dell’introduzione formale del giudizio da parte del contribuente), potrebbe far ritenere che solo per gli atti accertativi emessi a decorrere dal 16 settembre 2022 il fisco sia gravato dell’onere probatorio introdotto dal comma 5-bis.
In realtà, l’onere probatorio a carico del fisco (al di fuori delle eccezioni già ricordate e sulle quali si tornerà nel prosieguo) non nasce certo con la novella normativa contenuta nel comma 5-bis, ma è un principio declinato nelle norme procedimentali sull’accertamento tributario e, ancor prima, nel codice civile. Pertanto, limitare l’applicazione del nuovo precetto ai soli atti successivi al 16 settembre si porrebbe in evidente contrasto con lo status quo ante ed è, per questo, da escludere.
Per queste ragioni, quella dell’applicazione ai processi già in essere al 16 settembre, data di entrata in vigore della norma, appare la conclusione più in linea con il contenuto e la ratio della novella normativa, che ha introdotto espressamente un principio ad hoc il quale non può che essere applicato fin da subito, dunque anche all’interno dei processi già in corso.
6. Il rapporto con la normativa sostanziale
Uno dei profili di maggiore interesse della novella è rappresentato dal rapporto con la normativa tributaria sostanziale.
L’attenzione, tuttavia, va non soltanto alle disposizioni “positive” che contengono già, al proprio interno, una previsione espressa in materia di onere probatorio, ma anche alle cosiddette “presunzioni di natura giurisprudenziale” che non si fondano su alcuna norma “positiva”, ma che si sono consolidate nella giurisprudenza della Corte di Cassazione e che rappresentano oramai una costante a favore del fisco (queste ultime formeranno oggetto del successivo paragrafo).
Iniziamo, dunque, con le norme sostanziali, contenenti, come detto, una disciplina ad hoc dell’onere della prova.
In primis, l’attenzione va al già menzionato articolo 38 del d.P.R. n. 600/1973 in materia di accertamento sintetico, il quale, nei limiti e con le precisazioni già evidenziati, pone a carico del contribuente (persona fisica) l’onere di dimostrare la non imponibilità delle somme oggetto di controllo (“salva la prova che il relativo finanziamento è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo d’imposta, o con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile.”).
Altrettanto dicasi avuto riguardo all’articolo 10-bis legge 27 luglio 2000 n. 21223, il quale, una volta che l’amministrazione finanziaria (comma 9) si sia fatta carico di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, pone a carico del contribuente l’onere di dimostrare l’esistenza di valide ragioni extra-fiscali.
Secondo, poi, la tesi sostenuta dalla Cassazione (e di cui si è detto in precedenza), anche l’articolo 32 dello stesso decreto porrebbe a carico del contribuente una inversione legale dell’onere della prova rispetto alla provenienza, ovvero all’impiego, delle somme risultanti dai rapporti finanziari24, in mancanza della quale il fisco sarebbe legittimato ad accertare un maggiore imponibile.
In tutti questi casi, dunque, occorre chiedersi se il nuovo comma 5-bis, che – come già evidenziato – ha natura precettiva e processuale allo stesso tempo, sia tale da prevalere sulle norme positive suddette; in altri termini, la domanda è se, all’indomani dell’entrata in vigore della nuova norma, quelle presunzioni legali relative possano ritenersi “superate” dal “nuovo” onere della prova che nel processo incombe, sempre e comunque, sull’ufficio.
La risposta alla domanda è contenuta nell’inciso “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale”, il quale sembra fare salve proprio le ipotesi in cui l’onere probatorio non è posto a carico del fisco e che, per questo, di fatto derogano al precetto contenuto nella nuova disposizione.
A tanto fa pensare, in primis, l’uso dell’avverbio “comunque”, che lascia intendere come la
novella debba in ogni caso rispettare le norme sostanziali esistenti.
Alla stessa conclusione conduce anche il termine “coerenza”, che esclude possa sorgere un contrasto con lo status quo ante; il legislatore della riforma, dunque, ha voluto – naturalmente – salvaguardare la normativa esistente, laddove riguardante, come nei casi già ricordati, proprio il riparto dell’onere probatorio.
Infine e non ultima, lo stesso riferimento alla natura “sostanziale” della normativa rivela come le norme, con le quali deve coordinarsi il nuovo comma 5-bis, siano, appunto, quelle positive non processuali, pertanto proprio quelle contenute all’interno dell’ordinamento tributario, riguardanti, tra le altre, il procedimento amministrativo tributario.
Alla luce di ciò, dunque, il nuovo precetto normativo, riguardante l’onere della prova, incontra il limite rappresentato da quelle norme sostanziali, preesistenti, che invertono (da sempre) l’onere della prova sul contribuente. In questi casi, dunque, il giudice tributario dovrà verificare che sia stato il contribuente ad adempiere all’onere probatorio posto a suo carico, “derogando” di fatto al precetto posto dal comma 5-bis cui quelle norme fanno eccezione.
Ciò significa, ad esempio, che nei giudizi aventi per oggetto l’impugnazione di avvisi di accertamento emessi ai sensi dell’articolo 38 d.P.R. n. 600/1973 sarà il contribuente – il quale, a parere dell’ufficio, non sia stato in grado, in contraddittorio, di dimostrare l’esistenza di redditi esenti o non imponibili – a dover reiterare le proprie giustificazioni anche in giudizio, con la speranza di ottenere – questa volta – il favore della Corte.
7. “Nuovo” onere della prova e “ristretta base” societaria
Un discorso a parte, come si è detto, meritano le cosiddette “presunzioni di natura giurisprudenziale”, in primis la cosiddetta “ristretta base societaria” e la relativa presunzione di distribuzione degli utili, che (è appena il caso di ricordare) non trova – e non ha mai trovato – alcun fondamento normativo “sostanziale”.
Essa, infatti, è frutto della costante giurisprudenza di legittimità, la quale, da sempre, è concorde nel ritenere che, anche in questi casi, sia legittima la presunzione di distribuzione e di percezione, da parte dei soci, del maggior reddito accertato in capo alla società.
Si tratta, in dettaglio, della presunzione in base alla quale il fisco, a fronte di un accertamento emesso nei confronti di una società di capitali – in genere in forma di s.r.l. – composta da un numero esiguo di soci legati da rapporti di tipo personale, in genere familiari, presume che il maggior reddito accertato in capo alla società sia stato distribuito ai soci, gravando – di fatto – questi ultimi della probatio “diabolica” circa la mancata percezione del maggior reddito.
In definitiva, il fisco applica anche alle società di capitali, aventi quelle caratteristiche, il medesimo criterio “di trasparenza” previsto per le società di persone dall’articolo 5, primo comma, del Tuir.
Ebbene, nel corso degli anni la Cassazione, con indirizzo pressoché costante, ha esteso tale “meccanismo” anche alle società di capitali “a ristretta base”, valorizzando proprio l’esiguità del numero dei soci e la loro “complicità” quali elementi giustificativi, a suo dire, della presunzione di distribuzione, da parte della società e di incasso, da parte dei soci25.
È anche in questo contesto, dunque, che si inserisce la novità normativa, la quale, come detto, prevede quale unica “deroga” alla regola dell’imputazione dell’onere probatorio in capo al fisco quella del rispetto della normativa tributaria sostanziale, fatta, dunque, salva dal legislatore della riforma.
Stante quest’unica deroga, non sembra che la presunzione “giurisprudenziale” della “ristretta base” possa prevalere rispetto al nuovo precetto, atteso che in questo caso, a differenza delle fattispecie di cui si è detto in precedenza (a cominciare dall’accertamento sintetico ex articolo 38 d.P.R. n. 600/1973), non esiste alcuna disposizione “sostanziale” da salvaguardare.
È chiaro, infatti, che il “nuovo” obbligo posto a carico del fisco fa sì che solo nelle ipotesi di inversione legale dell’onere probatorio, al di fuori e già prima del processo (come appunto nei casi citati al paragrafo precedente), l’amministrazione finanziaria possa esimersi dal fornire la prova in giudizio, a pena di annullamento dell’atto da parte del giudice (“Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.”)
Fermo restando, naturalmente, che anche in caso di presunzione legale il fisco deve comunque provare in giudizio il fatto noto da cui dipende quella presunzione.
Diversamente opinando, l’inciso “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale” e, con esso, la deroga rispetto al precetto generale introdotto dalla legge di riforma, resterebbe privo di significato; il che, evidentemente, non può essere.
Pertanto, all’indomani della riforma, nell’ipotesi di giudizi vertenti su accertamenti da
“ristretta base” l’ufficio sarà onerato della prova:
- in primis, dell’avvenuta distribuzione, da parte della società, dei maggiori utili accertati (e a loro volta presunti);
- quindi, dell’avvenuta percezione, da parte dei soci, di quei maggiori
fornendo, sostanzialmente, quella dimostrazione che, in passato, la giurisprudenza di legittimità (e anche di merito) poneva sempre a carico dei contribuenti.
Ciò significa che il fisco, onerato di quella dimostrazione, dovrà attivare strumenti quali le indagini di natura finanziaria o patrimoniale, dalle quali emerga l’esistenza di un imponibile potenzialmente sottratto a imposizione (si pensi a versamenti non giustificati), che possa giustificare, rectius provare, la percezione della quota parte del maggior utile accertato in capo alla società “a ristretta base” partecipativa.
Va da sé, pertanto, che la “probatio diabolica”, tradizionalmente posta a carico dei contribuenti, dopo la riforma non potrà che incombere sugli uffici.
Pertanto, il giudice, che sarà tenuto a fondare la propria decisione sugli elementi di prova emersi in giudizio, potrà confermare gli accertamenti personali notificati ai soci delle società “a ristretta base”, così come quelli frutto dell’ipotesi di inesistenza oggettiva o soggettiva, nel solo caso in cui, in giudizio, l’amministrazione finanziaria abbia offerto la prova dell’ipotesi “accusatoria” che ne è stata posta a base.
Le medesime conclusioni a maggior ragione dovrebbero valere nell’ipotesi in cui l’accertamento di maggior reddito in capo alla società “a ristretta base” derivi non già dalla presunzione di maggiori ricavi, bensì da quella di minori costi, ritenuti indeducibili.
Si tratta, com’è noto, di un indirizzo giurisprudenziale di legittimità che, muovendo dal “recupero a tassazione” di costi la cui deduzione venga ritenuta in contrasto con le regole di determinazione del reddito d’impresa e segnatamente del principio di inerenza, di fatto pone sullo stesso piano i maggiori ricavi e i minori costi, accomunati dal fatto che entrambi – pur se con segni opposti – concorrono alla formazione del reddito d’impresa, quale unico “risultato” rilevante26.
Per quel che qui interessa, anche in questi casi di recupero di costi ritenuti indeducibili in capo alle società “a ristretta base”, il fisco presume la distribuzione ai soci del maggior reddito accertato in capo alla società, esattamente come nel caso in cui l’accertamento societario sia la conseguenza della presunzione di maggiori ricavi “occulti”.
In sostanza, anche in queste ipotesi per il fisco si tratterebbe di una distribuzione indiretta di utili ai soci “a ristretta base”, i quali finirebbero con il percepire il maggior reddito teorico, risultante dalla rettifica in diminuzione dei costi deducibili.
Ebbene, anche in questi casi l’introduzione della novella normativa contenuta nel comma 5- bis dovrebbe impedire che l’automatismo maggior reddito societario – maggiori utili distribuiti ai soci, operante a livello accertativo, possa replicarsi anche in sede processuale, atteso che, come già evidenziato, non sussiste alcuna norma sostanziale che possa giustificare, all’interno del processo, la presunzione di distribuzione dei maggiori utili societari imputati “per trasparenza” in capo ai soci delle società “a ristretta base” e dovendosi ritenere mancanti, in special modo per i costi ritenuti indeducibili, i requisiti di gravità, precisione e concordanza necessari per poter fondare la prova di detta distribuzione con presunzioni semplici.
Anzi, per certi versi, in questi casi la valenza della norma potrebbe rivelarsi – per così dire – “rafforzata”, atteso che, non soltanto, in linea generale (sia che si tratti di maggiori ricavi, che di minori costi), nel caso di società di capitali “a ristretta base” non opera il principio di “trasparenza” previsto dall’articolo 5, primo comma, del Tuir, ma, per di più, il fisco dovrebbe provare che un minor costo si sia effettivamente tradotto in una distribuzione indiretta di utili.
È, dunque, soprattutto con riferimento a questi profili che la riforma va salutata con maggior favore, fornendo alle nuove Corti di Giustizia tributarie gli strumenti in grado di riequilibrare il rapporto tra fisco e contribuenti.
8. “Nuovo” onere della prova e fatture per operazioni inesistenti
Il nuovo regime dell’onere probatorio sembra destinato a riflettersi anche sui giudizi relativi ad operazioni inesistenti.
Si tratta, com’è noto, delle ipotesi in cui il fisco, al termine dell’attività istruttoria, ritiene che determinate operazioni, formalmente regolari e documentate, in realtà non siano mai avvenute (inesistenza sotto il profilo oggettivo), ovvero si siano svolte ma con soggetti diversi da quelli indicati in fattura (inesistenza sotto il profilo soggettivo); ne deriva il recupero dei relativi costi, contabilizzati e dichiarati, ai fini – rispettivamente – delle imposte dirette e dell’iva (nel caso di inesistenza oggettiva), ovvero come acquisti ai soli fini iva (nel caso di inesistenza soggettiva).
Quanto al metodo, molto spesso viene emesso un accertamento di tipo analitico-induttivo, ai sensi dell’articolo 39, primo comma, lettera d), d.P.R. n. 600/1973.
Dal punto di vista probatorio, in queste ipotesi il fisco è legittimato ad emettere l’atto accertativo basandosi su presunzioni semplici, dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
La Corte di Cassazione, sotto il profilo del riparto dell’onere probatorio, ha distinto l’ipotesi della inesistenza oggettiva da quella dell’inesistenza soggettiva.
Nel primo caso, la Corte ha riconosciuto sufficienti anche taluni elementi relativi alla società emittente (c.d. “cartiera”), quali la mancanza di sede o di dipendenti, ponendo in capo al contribuente l’onere di dimostrare che l’operazione sia stata effettivamente posta in essere, escludendo che la regolarità formale dell’operazione possa ritenersi sufficiente allo scopo.27
Quanto, invece, all’inesistenza soggettiva, la Cassazione ha, in definitiva, ripartito l’onere probatorio tra fisco e contribuente, ponendo a carico del primo la dimostrazione della fittizietà del cedente e la consapevolezza del cessionario, mentre in capo al secondo la dimostrazione circa l’utilizzo dell’ordinaria diligenza nel rapporto commerciale28.
Recentemente, su quest’ultima fattispecie si è pronunciata la Corte di Cassazione, con le ordinanze “gemelle” 27 ottobre 2022, n. 31878 e 31880 della Cassazione, già menzionate.
In particolare, nell’enunciazione dei motivi di ricorso (di entrambe le ordinanze), la Corte ha rappresentato come l’Agenzia ricorrente avesse sostenuto che l’allora C.t.r., “nell’affermare che l’ufficio non aveva assolto al proprio onere probatorio in merito all’effettiva partecipazione della società alla frode fiscale, aveva violato i principi in tema di onere probatorio e prova presuntiva, valorizzando mere affermazioni della contribuente e, viceversa, trascurando l’intero quadro indiziario fornito dall’ufficio. Rileva la ricorrente che, in materia di Iva, nelle ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti di tipo triangolare, assimilabili per certi aspetti alla fattispecie in esame, l’onere della prova dell’amministrazione può esaurirsi nella dimostrazione che il soggetto interposto è privo delle dotazioni necessarie all’esecuzione della prestazione, mentre il contribuente deve provare che non sapeva, o non avrebbe potuto sapere, con l’ordinaria diligenza, dell’evasione o della frode posta in essere dal cedente.”
In entrambe le ordinanze la Cassazione – seppur incidentalmente – a proposito del nuovo comma 5-bis, ha affermato che: “la nuova formulazione legislativa, nel prevedere che <<L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni>>, non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale.”.
Come anticipato, si tratta soltanto di una pronuncia di tipo incidentale, che si auspica possa essere seguita da altre pronunce che individuino con maggior dettaglio la portata applicativa delle nuove disposizioni.
Resta il fatto che, il giudice dovrà verificare che quegli elementi, ritenuti sufficienti dall’Ufficio per fondare una prova per presunzione semplice, una volta introdotti in giudizio integrino gli estremi di quelle ragioni – oggettive, circostanziate e puntuali – che la norma richiede ai fini dell’adempimento, da parte del fisco, dell’onere probatorio (“o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”).
In altri termini, per effetto del nuovo comma 5-bis, il legislatore sembra abbia voluto declinare con maggior dettaglio i criteri in base ai quali, nel processo tributario, il giudice è tenuto a valutare i requisiti di gravità, precisione e concordanza necessari per fondare una prova per presunzione semplice che, pur sempre, può legittimare un accertamento analitico- induttivo ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 600/1973.
Sotto questo profilo, pertanto, in sede di ricorso sarà oltremodo necessario sollevare il difetto di prova da parte dell’ufficio, cui pertanto spetterà fornire nel merito la dimostrazione dell’effettività delle operazioni.
9. Uno specifico onere della prova ai fini sanzionatori
Il nuovo comma 5-bis introduce un “nuovo” onere della prova ad hoc con riferimento all’irrogazione delle sanzioni, stante l’inciso “e l’irrogazione delle sanzioni” (e, allo stesso tempo, il verbo “si fondano” utilizzato al plurale) che conclude il nuovo testo di legge.
La precisazione è rilevante con particolare riferimento ai giudizi aventi per oggetto l’impugnazione degli avvisi di accertamento, i quali, a mente dell’articolo 17, primo comma, d.lgs. n. 472/1997, contengono non soltanto un recupero ai fini impositivi (e dei relativi interessi), ma anche l’irrogazione immediata delle sanzioni29. Infatti, gli atti a contenuto esclusivamente sanzionatorio (e, dunque, gli atti di contestazione e i conseguenti avvisi di irrogazione sanzioni) “vivono di vita propria”, pertanto necessitano di una motivazione e, per quel che qui interessa, di una prova a sé stanti.
Nel caso, dunque, di avvisi di accertamento e dei relativi giudizi, la novella normativa pone a carico del fisco l’onere di provare, con le modalità già descritte, non soltanto il presupposto della pretesa impositiva, ma anche quello posto a base dell’irrogazione delle sanzioni.
Trattandosi di un adempimento a sé stante per le ragioni suddette, non può essere assolto contestualmente al primo: il giudice tributario, dunque, avrà il compito di verificare che l’ufficio vi abbia adempiuto e che, dunque, abbia dimostrato, in modo circostanziato e puntuale, le ragioni oggettive che rappresentano il presupposto su cui si fonda anche l’atto di irrogazione delle sanzioni.
C’è da attendersi che, in giudizio, gli uffici faranno della dimostrazione circa la fondatezza della pretesa, ai fini impositivi, anche il supporto probatorio necessario alla prova del presupposto dell’irrogazione delle sanzioni; cionondimeno, sarà cura del difensore l’onere di sollevare ritualmente tale eccezione mediante un apposito motivo di impugnazione.
10. L’onere della prova nelle liti da rimborso: nulla di nuovo
L’ultimo periodo del comma 5-bis contiene la disciplina dell’onere probatorio nei giudizi aventi per oggetto una richiesta di rimborso, cui il fisco si sia opposto con un diniego espresso o tacito.
È appena il caso di ricordare che la fattispecie del diniego di rimborso rientra, espressamente, nell’elenco (ancorchè non tassativo, come precisato dalla giurisprudenza di legittimità) di cui all’articolo 19, primo comma, d.lgs. n. 546/9230.
La nuova norma prevede, espressamente, che spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati.
Il legislatore della riforma, dunque, ha inteso “positivizzare” la disciplina delle liti da rimborso, tuttavia già consolidatasi, negli stessi termini, nella giurisprudenza di legittimità; la Cassazione, infatti, ha da sempre – e correttamente – posto a carico del contribuente l’onere di provare i presupposti della richiesta di rimborso, adempimento necessario agli stessi fini della formazione dell’eventuale silenzio-rifiuto31.
La nuova norma, dunque, prevede che spetta comunque al contribuente l’onere di fornire le ragioni della richiesta di rimborso, in tal modo “cristallizzando” il principio già immanente nel sistema.
La precisazione “quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati” appare, in realtà, pleonastica, riguardando, sostanzialmente, l’ipotesi in cui in capo al contribuente, che abbia proposto ricorso avverso l’accertamento ottenendone l’accoglimento, sorga il diritto al rimborso, il quale non necessita – appunto – di istanza di parte ma avviene d’ufficio, ai sensi dell’articolo 68, comma 2, d.lgs. n. 546/1992.
NOTE
1 Pubblicata in Gazzetta Ufficiale – Serie Generale n. 204 del 1° settembre 2022.
2 Così, ad esempio, l’articolo 4-bis (“Competenza del giudice monocratico”) si applicherà ai ricorsi notificati dal 1° gennaio 2023, mentre il nuovo testo dell’articolo 16, comma 4, d.l. 23 ottobre 2018, n. 119 (in materia di udienza da remoto) si applicherà a decorrere dal 1° settembre 2023.
3 “(…) i primi sono quelli che fanno sorgere il preteso diritto; i secondi sono quei fatti che impediscono il sorgere del preteso diritto oppure ne modificano la consistenza o ne determinano l’estinzione”, Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, “Seminario di aggiornamento professionale per i magistrati delle Commissioni Tributarie della Regione Sicilia”, “Questioni attuali di diritto tributario sostanziale e processuale”, 2016, Università degli Studi di Catania, Facoltà di Economia – Dipartimento Economia e Impresa, pag. 2.
4 Sul punto, Cass. 6 aprile 2022, n. 11101: “Ebbene, quanto alla prima questione, deve innanzitutto premettersi come la natura impugnatoria del processo tributario, siccome rivolto a sollecitare il sindacato giurisdizionale sulla legittimità del provvedimento impositivo, faccia sì che sia l’Ufficio ad essere attore in senso sostanziale e che la pretesa impositiva debba risultare dall’atto impugnato sia sul piano del petitum che su quello della causa petendi (Cass., Sez. 5, 27/6/2019, n. 17231), tanto è vero che è proprio la necessità di delimitare le contestazioni proponibili dall’Ufficio nel successivo giudizio di merito e correlativamente di garantire il diritto di difesa del contribuente, mettendolo in grado di conoscere l’an e il quantum della pretesa tributaria, a costituire lo scopo dell’obbligo di motivazione dell’avviso di accertamento o di rettifica gravante sull’Amministrazione finanziaria, presidiato dall’art. 7 della legge 27 luglio 2002, n. 212 (Cass., Sez. 5, 7/5/2014, n. 9810), motivazione che non può non contemplare anche le ragioni che consentono di indirizzare la pretesa dell’Amministrazione finanziaria verso un particolare soggetto, in quanto incluse nel «fondamento giustificativo» della stessa”.
5 In questi termini, Cass. 14 aprile 2022, n. 12127: “Venendo al merito, deve osservarsi come, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, opera il principio secondo cui, se è vero che spetta all’amministrazione finanziaria – nel quadro dei generali principi che governano l’onere della prova – dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi della (maggiore) pretesa tributaria azionata, fornendo quindi la prova di elementi e circostanze a suo avviso rivelatori dell’esistenza di un maggiore imponibile, è altrettanto vero che il contribuente, il quale intenda contestare la capacità dimostrativa di quei fatti, oppure sostenere l’esistenza di circostanze modificative o estintive dei medesimi, deve a sua volta dimostrare gli elementi sui quali le sue eccezioni si fondano, sicché, a proposito del reddito d’impresa, spetta all’ufficio finanziario provare le componenti attive del maggior imponibile determinato e al contribuente – il quale intenda contestare tale determinazione sostenendo, ad esempio, l’esistenza di costi maggiori di quelli considerati – documentare che essi esistono e sono inerenti all’esercizio cui l’accertamento si riferisce (…). La corretta applicazione del principio concernente la distribuzione dell’onere della prova dettato dall’art. 2697 cod. civ. impone quindi al giudice di merito di accertare, in primo luogo, se la pretesa tributaria dedotta in giudizio derivi dall’attribuzione al contribuente di maggiori entrate oppure dal disconoscimento di costi o oneri deducibili esposti dallo stesso, perché solo l’esatta individuazione della parte tenuta per legge a dare la prova afferente consente al giudice di porre a carico di essa le conseguenze giuridiche derivanti dall’accertata inosservanza di detto onere”. 6 Pasquale Russo, “Editoriale – Problemi in tema di prova nel processo tributario dopo la riforma della giustizia tributaria”, Rivista di Diritto Tributario, supplemento online, 7 dicembre 2022.
7 In questi termini, ex multis, Cass. 30 dicembre 2020, n. 29878: “In proposito, la giurisprudenza di questa Corte è univoca nel distinguere l’adeguatezza della motivazione dell’atto impositivo dalla prova dei fatti posti a fondamento dello stesso: l’esistenza di una adeguata motivazione del primo non implica anche la prova dei fatti sui quali la pretesa si regge, «diverse ed entrambe essenziali essendo le funzioni che l’una (motivazione dell’atto) e l’altra (prova dei fatti che ne sono posti a fondamento) sono dirette ad assolvere. Mentre infatti la motivazione dell’avviso di accertamento o di rettifica, presidiata dall’art. 7 della legge 27 luglio 2002, n. 212, ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’Ufficio nel successivo giudizio di merito e di mettere il contribuente in grado di conoscere l’an ed il quantum della pretesa tributaria al fine di approntare una idonea difesa, sicché il corrispondente obbligo deve ritenersi assolto con l’enunciazione dei presupposti adottati e delle relative risultanze; la prova attiene al diverso piano del fondamento sostanziale della pretesa tributaria ed al suo accertamento in giudizio in presenza di specifiche contestazioni dello stesso, sicché in definitiva tra l’una e l’altra corre la stessa differenza concettuale che vi è tra allegazione di un fatto costituivo della pretesa fatta valere in giudizio e prova del fatto medesimo … In mancanza del p.v.c. più volte richiamato – secondo quanto viene pacificamente riferito – dall’avviso di accertamento e indicato come indispensabile nella sentenza di primo grado, non si poteva ritenere raggiunta la prova dei fatti costitutivi» (Cass. 955/2016)”.
8 Così, Cass. 7 aprile 2022, n. 11284: “La Corte è ferma nel ritenere che l’obbligo di idonea e completa motivazione dell’atto impositivo, previsto dall’art. 7 della I. n. 212 del 2000, sia volto ad assicurare al contribuente il pieno esercizio del diritto di difesa nel giudizio di impugnazione e che l’Ufficio non possa integrare il contenuto di detta motivazione in corso di causa bensì possa solo illustrare fatti e questioni oggetto di causa, nell’ambito di una paritaria dialettica processuale, per incidere sul convincimento del giudice (Cass. n. 2382/2018, n. 12400/2018, n. 3762/2019, vedi anche Cass. n. 28560/2021, sul “principio di leale collaborazione tra privato e p.a.”, che non segna discontinuità rispetto all’insegnamento tradizionale della Corte in quanto la decisione fa comunque salvo “il diritto di difesa dell’interessato”)”.
9 Art. 5-ter, terzo comma, d.lgs. 218/97: “In caso di mancata adesione, l’avviso di accertamento è specificamente motivato in relazione ai chiarimenti forniti e ai documenti prodotti dal contribuente nel corso del contraddittorio.”
10 Circ. 22 giugno 2020, n. 17/E, par. 4 “Obbligo di “motivazione rafforzata”: “Nel caso di mancata adesione, l’avviso di accertamento emesso dall’ufficio deve essere specificatamente motivato con riferimento «ai chiarimenti forniti e ai documenti prodotti dal contribuente». L’esito del contraddittorio con il contribuente, quindi, costituisce parte della motivazione dell’accertamento: non è sufficiente che gli uffici si limitino a valutare gli elementi forniti dal contribuente, ma dovranno essere argomentate in motivazione le ragioni del relativo mancato accoglimento. Pertanto, gli uffici devono assolvere all’onere motivazionale anche in relazione ai chiarimenti forniti dal contribuente, descrivendo le giustificazioni dallo stesso offerte e argomentando sulla relativa fondatezza, in modo da rendere intellegibile l’iter seguito per addivenire alla determinazione della pretesa tributaria. Considerata la ratio della norma, finalizzata alla corretta individuazione della pretesa tributaria tramite il potenziamento del confronto preventivo con il contribuente, gli uffici sono invitati a dare specifico conto in motivazione della fondatezza o meno di quanto chiarito e prodotto dal contribuente in sede di contraddittorio anche nelle ipotesi di invito attivato facoltativamente ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218.”
11 In questo senso, si collocano anche le ordinanze 27 ottobre 2022, n. 31878 e 31880 della Cassazione (vedi, infra, al paragrafo 8).
12 “Rassegna delle pronunce della Corte di cassazione in materia tributaria”, Anno 2021.
13 In questi termini, Cass. 12 novembre 2019, n. 29189: “3.2. In tale prospettiva, va rimarcato che lo stesso contribuente ha la facoltà (e, ovviamente, anche l’onere) di dimostrare che la spesa per incremento patrimoniale in realtà sia stata sostenuta per intero con redditi esenti ovvero già tassati conseguiti nell’anno stesso in cui essa risulta effettuata ovvero in uno solo di quelli precedenti ovvero ancora, più in generale, «che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore» (cfr. Sez. 5, n. 20588 del 24/10/2005, Rv. 584507 – 01; Sez. 5, n. 21142 del 19/10/2016, Rv. 641453 – 01). In tal senso mette conto sottolineare che «la prova contraria non è limitata a quella prevista dal quinto comma dell’art. 38 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 (e cioè che il maggior reddito accertato è costituito da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta), ma è consentito dimostrare che il reddito presunto sulla base del coefficiente non esiste o esiste in misura inferiore». (cfr. Sez. 5, n. 11300 del 29/08/2000, Rv. 539847 – 01). Tale prova contraria, ovviamente, è idonea ad escludere l’attribuzione “spalmata” del maggior reddito presunto, pro quota, in ciascuno degli anni compresi nell’arco temporale di cinque anni considerati dalla norma, suscettibili di accertamento (cfr. anche Sez. 5, n. 14509 del 15/07/2016, in motivazione). Essa, in altri termini, vale a privare di fondamento la presunzione di maggior reddito fondata su quella spesa non soltanto per l’anno oggetto dell’accertamento impugnato ma anche per gli altri anni cui la presunzione si estende ai sensi del citato art. 38, comma 5, posto che non potrebbe più ritenersi che le risorse necessarie a sostenere la spesa sono state rappresentate da «redditi conseguiti, in quote costanti, nell’anno in cui è stata effettuata e nei quattro precedenti». Il contribuente ha, peraltro, anche la facoltà di provare, nel giudizio relativo all’accertamento sintetico relativo ad uno dei cinque anni coperti dalla presunzione in parola, di aver percepito redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta per un ammontare idoneo a giustificare solo la quota di maggior reddito presunta per quell’anno: anche tale prova è idonea, evidentemente, a superare la presunzione di maggior reddito limitatamente a quel dato anno, pur senza poter impedire che la presunzione valga per ciascuno degli altri anni, precedenti o successivi, ai quali si estende. 3.3. In siffatto quadro ricostruttivo, ove il contribuente deduca che la spesa effettuata deriva dalla percezione di ulteriori redditi, ai sensi dell’art. 38, comma 6, del d.P.R. n. 600 del 1973 egli è onerato della prova contraria in ordine sia alla disponibilità di detti redditi che all’entità degli stessi ed alla durata del possesso, «sicché, sebbene non debba dimostrarne l’utilizzo per sostenere le spese contestate, è tenuto a produrre documenti dai quali emergano elementi sintomatici del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere» (Sez. 5, n. 1510 del 20/01/2017, Rv. 646904 – 01). In tal senso va, invero, letto lo specifico riferimento alla prova, risultante da «idonea documentazione», della «entità» di tali eventuali ulteriori redditi e della «durata» del relativo possesso, che costituiscono circostanze sintomatiche del fatto che la spesa contestata sia stata sostenuta proprio con detti redditi; previsione che ha, dunque, la finalità di ancorare a fatti oggettivi, di ordine quantitativo e temporale, la disponibilità di tali ulteriori redditi per consentire di riportare la maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico proprio a questi ultimi, escludendo quindi che i medesimi siano stati utilizzati per finalità diverse e non considerate ai fini dell’accertamento sintetico: ipotesi, questa, in cui tali ulteriori redditi non varrebbero a giustificare le spese o il tenore di vita accertati, da riferirsi, quindi, a redditi non dichiarati”.
14 Da ultimo, Cass. 5 agosto 2022, n. 24402: “la sentenza impugnata ha seguito l’indirizzo ormai consolidato di questa Corte, secondo il quale, qualora l’accertamento effettuato dall’Amministrazione finanziaria si fondi, come nella specie, su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo l’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova non generica ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili e sono prive di rilevanza fiscale (Cass. nn. 22179/2008, 18081/2010, 15857/2016, 4829/2015); ciò vale anche in tema di IVA, al fine di superare la presunzione di imponibilità delle operazioni confluite nelle movimentazioni bancarie posta a carico del contribuente dall’art. 51, secondo comma, numero 2, del d.P.R. n. 633/1972 (Cass. n. 21303/2013)”.
15 Così, si è espressa la celebre sentenza 9 dicembre 2015, n. 24823: “Alla stregua delle considerazioni che precedono, può affermarsi il seguente principio di diritto: “Differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”.” 16 Art. 5-ter, quarto comma, d.lgs. 218/97: “Fuori dei casi di cui al comma 4, il mancato avvio del contraddittorio mediante l’invito di cui al comma 1 comporta l’invalidità dell’avviso di accertamento qualora, a seguito di impugnazione, il contribuente dimostri in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato attivato.”
17 “Art. 7. Poteri delle corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado.
- Le corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all’ente locale da ciascuna legge d’imposta.
- Le corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado, quando occorre acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità, possono richiedere apposite relazioni ad organi tecnici dell’amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il Corpo della Guardia di finanza, ovvero disporre consulenza tecnica. I compensi spettanti ai consulenti tecnici non possono eccedere quelli previsti dalla legge 8 luglio 1980, n. 319, e successive modificazioni e integrazioni.
- (Comma abrogato).
- Non è ammesso il giuramento. La corte di giustizia tributaria, ove lo ritenga necessario ai fini della decisione e anche senza l’accordo delle parti, può ammettere la prova testimoniale, assunta con le forme di cui all’articolo 257-bis del codice di procedura civile. Nei casi in cui la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso, la prova è ammessa soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale.
- Le corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, salva l’eventuale impugnazione nella diversa sede competente.
5-bis. L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati.”
18 “Il processo tributario è un “processo di parti”, ed il potere di indicare i fatti rilevanti per il giudizio appartiene in via esclusiva alle parti. Il giudice, pertanto, non può indagare su fatti che non siano stati indicati dalle parti, come precisa l’art. 7, che circoscrive i poteri istruttori del giudice “nei limiti dei fatti dedotti dalle parti”; inoltre, i poteri probatori del giudice sono esercitati a fini istruttori, e non a fini decisori”, F.Tesauro, “Istituzioni di diritto tributario”, Utet Giuridica, 2014, Wolters Kluwer Italia s.r.l., pagg. 369-370.
19 Sul punto, Cass. 2 dicembre 2021, n. 38016: “Giova rammentare che nel processo tributario, caratterizzato dalla introduzione della domanda nella forma dell’impugnazione dell’atto fiscale, il thema decidendum è limitato alle censure specificamente dedotte dal contribuente nel ricorso introduttivo di primo grado, per essere ammissibile la presentazione di motivi aggiunti unicamente in caso di «deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della Commissione» (art. 24 del d.lgs. n. 546 del 1992)”.
20 “Prima che nel processo, il problema della prova (e del relativo onere) si pone nel procedimento amministrativo, ove l’Amministrazione ha l’onere di acquisire la prova dei fatti, sui quali si basa il provvedimento.”, F. Tesauro, op.cit., pag. 377
21 “L’istruttoria probatoria nel processo tributario segue all’istruzione svolta dall’amministrazione finanziaria. Istruttoria amministrativa (c.d. primaria) e istruttoria processuale (c.d. secondaria) sono collegate tra loro, nel senso che l’amministrazione riversa nel giudizio tributario gli elementi di prova raccolti nell’istruttoria amministrativa”, Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, “Seminario di aggiornamento professionale per i magistrati delle Commissioni Tributarie della Regione Sicilia”, “Questioni attuali di diritto tributario sostanziale e processuale”, cit., pag. 9.
22 Come in altri casi: si pensi, ad esempio, alla disposizione contenuta nell’articolo 4, comma 1, lettera 8 in materia di giudice monocratico, per la quale l’articolo 8, comma 4 prevede espressamente l’applicazione limitata ai ricorsi notificati a decorrere dal 1° gennaio 2023.
23 “Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente”.
24 Nei limiti e con le precisazioni previste per legge, a seconda che si tratti di reddito d’impresa o professionale e artistico.
25 In termini, Cass. 11 agosto 2022 n. 24732: “È infatti ius receptum che l’accertamento del maggior reddito nei confronti di società di capitali a ristretta base partecipativa legittima la presunzione di distribuzione degli utili tra i soci, in quanto la stessa ha origine nella partecipazione e pertanto prescinde dalle modalità di accertamento, ferma restando la possibilità per i soci di fornire prova contraria rispetto alla pretesa dell’Amministrazione finanziaria dimostrando che i maggiori ricavi dell’ente sono stati accantonati o reinvestiti (ex plurimis, Cass. 20/12/2018, n. 32959, Cass. 07/12/2017, n. 29412)”.
26 In termini, Cass. 2 febbraio 2021 n. 2224: “3.4. Più di recente, questa Corte ha descritto compiutamente il riparto dell’onere della prova in materia di inerenza ed il contenuto della stessa, condividendo il nuovo orientamento aperto dalla sentenza 450/2018, ma con alcune precisazioni (Cass., sez. 5, 17 luglio 2018, n. 18904). Pertanto, si è sottolineato che l’inerenza integra un giudizio sulla riferibilità del costo all’attività d’impresa, quindi con natura qualitativa. Spetta, però, al contribuente l’onere della prova “originario”, che quindi si articola ancora prima dell’esigenza di contrastare la maggiore pretesa erariale, dovendo egli provare e documentare l’imponibile maturato e, quindi, l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto di impresa perchè in correlazione con l’attività di impresa. 3.5. Solo quando l’Amministrazione ritenga gli elementi dedotti dal contribuente mancanti, insufficienti od inadeguati oppure riscontri ulteriori circostanze di fatto tali da inficiare gli elementi allegati, può contestare l’inerenza con due modalità. Da un lato, può contestare la carenza degli elementi di fatto portati dal contribuente e quindi la loro insufficienza a dimostrare l’inerenza, mentre dall’altro può addurre l’esistenza di ulteriori elementi tali da far ritenere che il costo non è correlato all’impresa.”
27 Si veda, sul punto, Cass. 13 ottobre 2022 n. 30175: “Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di operazioni oggettivamente inesistenti, l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare che l’operazione non è mai stata posta in essere, indicandone i relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva (Cass., Sez. V, 18 ottobre 2021, n. 28628), ricorrendo alla prova che l’emittente è una «cartiera» o una «società fantasma», ciò essendo gravemente indiziario della oggettiva inesistenza delle operazioni, spettando poi al contribuente provare l’effettiva esistenza delle operazioni sottostanti; né tale onere può ritenersi assolto con l’esibizione della fattura, ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass., Sez. V, 5 luglio 2018, n. 17619; Cass., Sez. V, 30 ottobre 2018, n. 27554; Cass., Sez. V, 27 novembre 2019, n. 30937; Cass., Sez. V, 15 febbraio 2022, n. 4826; Cass., Sez. VI, 22 marzo 2022, n. 9304; Cass., Sez. V, 12 aprile 2022, n. 11737)”.
28 Così, Cass., 19 maggio 2022 n. 16092: “Tanto premesso, quanto all’esame del contenuto della doglianza, va reiterato che, ove l’Amministrazione finanziaria, contesti «che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi». (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9851 del 20/04/2018; conforme Sez. 5, Ordinanza n. 27555 del 30/10/2018)”.
29 “In deroga alle previsioni dell’articolo 16, le sanzioni collegate al tributo cui si riferiscono sono irrogate, senza previa contestazione e con l’osservanza, in quanto compatibili, delle disposizioni che regolano il procedimento di accertamento del tributo medesimo, con atto contestuale all’avviso di accertamento o di rettifica, motivato a pena di nullità.”
30 “Il ricorso può essere proposto avverso: (…) g) il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non dovuti”
31 Cass. 10 ottobre 2022 n. 29489: “Per il consolidato indirizzo della Corte (ex multis Cass. 24/10/2019, n. 27377) «Le domande di rimborso, prive delle indicazioni inerenti gli estremi di versamento e gli importi relativi all’ammontare delle ritenute Irpef, nonché della indicazione degli importi chiesti in restituzione, non possono considerarsi giuridicamente valide e non sono, dunque, idonee alla formazione del silenzio-rifiuto impugnabile, in quanto non consentono di valutare la fondatezza o meno della richiesta; né tale vizio è sanabile con il successivo deposito di documenti, atti a colmare le lacune predette, deposito che è comunque tardivo, in quanto intervenuto nel corso di un procedimento che non avrebbe dovuto neppure essere iniziato»; (in senso conforme, ex multis, Cass. 22/02/2021, 4716; Cass. 30/09/2020, n. 20719; Cass. 13/12/2018, n. 32263; Cass. 30/11/2012, n. 21400; Cass. 20/03/2000, n. 3250)”.
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