La Corte di Cassazione sez. Tributaria con la sentenza n. 17968 del 24 luglio 2013 intervenendo in tema di accertamento ha affermato che in caso di omessa esibizione dei documenti sulla gestione dell’attività, l’Ufficio può procedere alla rideterminazione del reddito d’impresa con metodo analitico – induttivo.
La vicenda ha riguardato un contribuente soggetto ad un controllo fiscale in cui era emerso che la società aveva esposto un volume di acquisti maggiore del volume d’affari, dando luogo a crediti d’imposta. Per questa ragione era stata invitata a fornire dati relativi alla gestione dell’attività e a esibire la documentazione dettagliata; documentazione che non è stata però presentata nel termine previsto (15 giorni dalla richiesta). Di qui la determinazione di maggiori ricavi operata dall’Ufficio. Il contribuente avverso l’atto impositivo aveva proposto ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale che accoglieva le doglianze della società contribuente, provvedendo all’annullamento dell’avviso di accertamento. Avverso la decisione dei giudici di prime cure l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso alla Commissione Tributaria Regionale che rigettava l’appello delle Entrate, confermando l’annullamento dell’avviso di accertamento con cui, contestando ricavi non dichiarati, veniva aumentato il reddito d’impresa della contribuente, con conseguente determinazione di maggiori IRPEF e ILOR.
L’Amministrazione Finanziaria avverso la decisione dei giudici di appello ricorreva alla Corte Suprema per la cassazione della sentenza di secondo grado. Gli Ermellini hanno ritenuto fondato le motivazioni dell’Amministrazione evidenziando che nell’accertamento delle imposte sui redditi il comportamento del contribuente, che ometta di rispondere ai questionari previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973 e non ottemperi alla richiesta di esibizione di documenti e libri contabili relativi all’impresa esercitata, impedendo in tal modo, o comunque ostacolando, la verifica dei redditi prodotti da parte dell’Ufficio, vale di per sé solo a ingenerare un sospetto sull’attendibilità di dette scritture, rendendo “grave” la presunzione di attività non dichiarate desumibile dal raffronto tra le percentuali di ricarico applicate e quelle medie del settore, e, conseguentemente, legittimo l’accertamento analitico – induttivo emesso su quella base dall’Amministrazione finanziaria. Per cui secondi i giudici di legittimità risulta errata l’affermazione del giudice del merito secondo cui l’avviso di rettifica, oggetto del ricorso, non forniva elementi probatori tali da giustificare l’accertamento, “ove debba essere intesa nel senso che l’ufficio non era legittimato a procedere con metodo induttivo. Ma è del pari erronea ove la si voglia intendere nel senso che le presunzioni, alimentate dalla ravvisata antieconomicità dei caratteri dell’attività oggetto dell’accertamento, per l’incongruità dei ricavi in relazione al costo sostenuto per l’acquisto della merce venduta, non possano di per sé essere sufficienti – salva la verifica del giudice di merito in ordine alla idoneità – a fornire la prova dell’esistenza di ricavi non dichiarati”. La Corte suprema ha quindi cassato la sentenza rinviando ad altra sezione l’esame della controversia.
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