La Corte di Cassazione sez. lavoro con la sentenza n- 18093 del 25 luglio 2013 ha affermato che integra la nozione di mobbing la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, ed, eventualmente, anche leciti) diretti alla persecuzione od all’emarginazione del dipendente, di cui viene lesa – in violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 cod. civ. – la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica); né la circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro – su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 cod. civ. – ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo, dovendosi escludere la sufficienza di un mero (e tardivo) intervento pacificatore, non seguito da concrete misure e da vigilanza (Cass. n. 22858/2008).
Pertanto alla luce di quanto sopra i giudici di legittimità hanno anche statuito che il licenziamento quale massima sanzione disciplinare deve considerarsi sproporzionato se conseguente a comportamenti del lavoratore di reazione ad una serie di vessazioni poste in essere nei suoi confronti.
La vicenda ha riguardato un lavoratore che ha seguito di aggressione al proprio superiore veniva, dopo aver esperito la procedura disciplinare, licenziato. Il dipendente impugnava il provvedimento di licenziamento inanzi al Tribunale in veste di giudice del lavoro. Il giudice adito rigettava il ricorso proposto dal dipendente nei confronti del datore di lavoro con cui aveva chiesto di dichiarare illegittimo e ingiustificato il licenziamento intimatogli con lettera raccomandata e di condannare la società convenuta al risarcimento dei danni patiti ed alla sua reintegrazione, ovvero alla corresponsione dell’indennità sostitutiva della reintegra ex art. 18 L. 300/1970.
Avverso tale decisione, il dipendente, proponeva appello insistendo nell’accoglimento delle pretese avanzate con il ricorso introduttivo.
L’adita Corte d’appello di Torino, in parziale accoglimento del gravame, annullava il licenziamento intimato all’appellante con lettere del 18.6.2004 e del 30.6.2004 e, conseguentemente, ordinava all’appellata di reintegrare il P. nel posto di lavoro e condannava la stessa società a pagare all’appellante, a titolo di risarcimento del danno, le retribuzioni maturate dal licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, pari ad euro 1.351,78 lordi mensili, detratto l’aliunde perceptum, oltre rivalutazione ed interessi, nonché a versare i contributi dì assistenza e previdenza per lo stesso periodo; condannava l’appellata a pagare all’appellante, a titolo dì risarcimento del danno morale, l’importo di euro 5.000,00, oltre rivalutazione ed interessi. A sostegno del decisum osservava che il fatto contestato, consistente nell’avere il P., armato di barra metallica, aggredito fisicamente il suo superiore sig. B.S., rivolgendogli anche pesanti insulti e minacce, oltre a risolversi in una mera minaccia, andava ampiamente ridimensionato per effetto del “capillare comportamento vessatorio” da tempo realizzato dal B., idoneo a ledere la capacità di autocontrollo del dipendente.
La sussistenza di un tale contesto vessatorio emergeva inconfutabilmente dagli atti acquisiti nel giudizio penale svoltosi a carico del B. per il reato ex art. 572 c.p.c., (maltrattamenti) nei confronti del P., sfociato nelle condanna del primo in entrambi i gradi di giudizio; ciò che rendeva del tutto sproporzionata l’irrogata sanzione del licenziamento e che giustificava un risarcimento,a carico del datore di lavoro, responsabile ex art. 2087 c.c.
Dalle retribuzioni spettanti al lavoratore a titolo di risarcimento, a seguito dell’illegittimità del licenziamento, deve essere detratto l’aliunde perceptum, che il giudice deve, anche d’ufficio.
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