Mobbing: valutazione della condotta lesiva ed onere della prova - Cassazione sentenza n. 19814 del 2013La Corte di Cassazione sez. lavoro con la sentenza n. 19814 depositata il 28 agosto 2013 intervenendo in tema di mobbing chiarendo che è inteso comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti:

a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra la condotta del datare o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;

d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

Nei casi esaminati dalla giurisprudenza, capita spesso che il datore di lavoro rilevi una particolare fragilità psicologica emotiva del lavoratore che si assume vittima di mobbing, oppure rilevi la presenza di altre cause che abbiano concorso a provocare il danno. Una parte della giurisprudenza ha escluso che questi fattori possano esimere il datore di lavoro dalla responsabilità per i danni patiti. (In tal senso Cassazione Civile, sentenze del 29 agosto del 2007 n. 18262 e dell’ 8 giugno 2007 n. 13400).

Per altra parte della giurisprudenza con un  recente orientamento, il mobbing, proprio perché non può prescindere da un supporto probatorio oggettivo, non può essere imputato in via esclusiva o prevalente al vissuto interiore del soggetto, ovvero, all’amplificazione da parte del lavoratore delle normali difficoltà che caratterizzano la vita lavorativa di ciascuno. Secondo tale indirizzo, “possono essere stigmatizzate come condotte di mobbing soltanto le fattispecie più gravi e non i meri episodi di inurbanità, scortesia o addirittura maleducazione”,(…) “con la conseguenza che non tutte le condotte del datore debbono essere considerate illecite per il solo fatto che sono avvertite come lesive dal solo lavoratore a causa della sua fragilità soggettiva nei rapporti personali, non potendo l’ambiente di lavoro, divenire una sorta di “Casa di Cura” per lavoratori delicati e fragili come cristalli”. (vedasi le sentenze del Tribunale di Trieste sez lavoro del 14-01-2011e del Tar Campania Napoli sez VII dell’11 marzo 2011 n. 1444)

Nel caso di specie i giudici di legittimità aderendo a tale ultimo orientamento e confermando la decisione dei giudici di merito, ha affermato l’esclusione del risarcimento del Mobbing nel caso di vittima sofferente di manie di persecuzione. Per cui alla luce di quanto sopra scritto, gli Ermellini, hanno ritenuto che la lavoratrice  per soggettività caratteriale tendeva ad interpretare quelle che possono essere normali vicende lavorative come offese; un atteggiamento, protendendo a personalizzare come ostile ogni avvenimento come elemento di turbativa dell’ambiente di lavoro.
La consulenza medico-legale, nella fattispecie,  d’ufficio aveva evidenziato un danno biologico di lieve entità rientrante nel concetto di sofferenza endogena, verosimilmente ascrivibile alla personalità che condizionavano la percezione che la ricorrente aveva delle proprie vicende lavorative.
Per questi motivi è stato escluso il mobbing, e per converso evidenziata la tendenza della ricorrente all’eccessiva personalizzazione, alla ‘vis’ polemica, alla continua censura dell’operato della direttrice e anche delle colleghe.
Per cui, per la Corte Suprema,  il giudice di merito per considerare come illecita quella particolare condotta del datore è necessario che il danneggiato provi la finalità illecità della condotta medesima (analogamente a quanto previsto nell’art, 15 Statuto lavoratori e art. 1345 cod. civ.); tuttavia si ritiene che tale finalità illecita non vada ricercata nell’intento persecutorio personale del mobber, né guardando all’aspetto soggettivo della condotta (dolo o colpa), ma la finalità illecita deve essere apprezzata dal giudice in relazione all’idoneità lesiva dei beni della persona ed all’intrinseca ratio discriminatoria, che può essere accertata con le circostanze di fatto e le caratteristiche oggettive della condotta (monodirezionalità, connotazione emulativa o abusiva, pretestuosità), oltre alla permanenza nel tempo della condotta.