La Corte costituzionale con la sentenza n. 64 depositata il 19 aprile 2024, intervenendo in tema di legittimità costituzionale dell’art. 133 del d.lgs. n. 113 del 2022 trasfuso anche nell’art. 133 del d.lgs. n. 115 del 2002, ha statuito che “…
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 133, comma 1, del decreto legislativo 30 maggio 2002, n. 113, recante «Testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia. (Testo B)», trasfuso nell’art. 133, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. (Testo A)», sollevata, in riferimento all’art. 23 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Cagliari, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 133, comma 1, del d.lgs. n. 113 del 2002, trasfuso nell’art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 53, 76 e 111, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Cagliari, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe. …”
La Consulta ha basato tale decisione, prevalentemente, sulla considerazione che la “… regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile attiene alla regola generale victus victori stabilita dall’art. 91, primo comma, cod. proc. civ., secondo cui «[i]l giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa» (sentenza n. 77 del 2018). L’istituto risponde quindi alla logica per cui l’alea del processo «grava sulla parte soccombente perché è quella che ha dato causa alla lite non riconoscendo, o contrastando, il diritto della parte vittoriosa ovvero azionando una pretesa rivelatasi insussistente» (ancora sentenza n. 77 del 2018); le spese di lite, dunque, devono essere sopportate da chi ha reso necessaria l’attività del giudice.
Nel caso particolare in cui la parte vittoriosa è stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, la regolamentazione delle spese di lite attiene quindi a un «rapport[o] distinto[o] e autonom[o]» (sentenza n. 109 del 2022) da quello che sorge per effetto dell’ammissione stessa; quest’ultimo, a cui le parti del giudizio rimangono totalmente estranee, si instaura direttamente tra il difensore del beneficiario del patrocinio e lo Stato, mentre il primo si instaura inter partes, tra soccombente e vincitore, con il giudice che applica gli ordinari criteri di liquidazione delle spese, senza che il medesimo soccombente subisca, a differenza di quanto sostiene il rimettente, alcuna ulteriore effettiva decurtazione.
L’istituto della rifusione delle spese è, pertanto, concettualmente estraneo alla logica propria dell’obbligazione tributaria, che implica, invece, una «effettiva decurtazione patrimoniale» attraverso un «prelievo coattivo, finalizzato al concorso alle pubbliche spese e posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva» (ex plurimus, sentenza n. 128 del 2022). …”
I giudici della Corte Costituzionale nel ritenere la tesi del giudice remittente erronea in quanto fondata su una errata prospettiva hanno evidenziato che essa “… condurrebbe a garantire un ingiustificato vantaggio patrimoniale alla parte soccombente solo perché la controparte rientra fra gli indigenti e lo Stato si fa carico, anche attraverso la fiscalità generale, dell’onere del loro patrocinio, attuando così gli artt. 3, secondo comma, e 24, terzo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 10 del 2022 e n. 157 del 2021), secondo un criterio di sostenibilità (sentenza n. 35 del 2019) che prevede, al fine di contenere la spesa pubblica, un abbattimento dei compensi per le relative prestazioni professionali.
Infine, va anche considerato che questa Corte ha già escluso, anche con riguardo al rapporto che lo Stato instaura con il difensore, che le «manovre legislative» che prevedono l’abbattimento del compenso professionale abbiano attinenza con gli obblighi tributari, trattandosi più semplicemente di una modalità, parzialmente diversa, di determinazione dei compensi medesimi, in funzione di prestazioni di facere (sentenza n. 192 del 2015).
Sicché, a seguire la indebita commistione dei rapporti che vengono in rilievo, insita nella prospettazione del rimettente, si giungerebbe al paradosso che, mentre l’abbattimento della metà del compenso prevista dall’art. 130, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002 non costituisce un prelievo tributario nei confronti del difensore della parte non abbiente che la subisce, diverrebbe invece tale per la controparte soccombente che viene, invece, condannata secondo gli ordinari criteri di liquidazione delle spese e non subisce alcuna reale decurtazione. …”
Aspetto saliente della sentenza è il concetto secondo cui si perverrebbe, paradossalmente, al risultato di «garantire un ingiustificato vantaggio patrimoniale alla parte soccombente solo perché la controparte rientra fra gli indigenti e lo Stato si fa carico, anche attraverso la fiscalità generale, dell’onere del loro patrocinio».
Si fa, sommessamente, notare che la parte soccombente è tenuta alla refusione delle spese processuali, ai sensi dell’art. 91 c.p.c. che recita: “Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa”.
Il suddetto articolo prevede che il giudice liquidi le spese processuali e determini l’onorario del difensore ma tale norma deve essere interpretato alla luce del principio della soccombenza, secondo cui la parte soccombente è tenuta a sopportare in via definitiva le spese da essa anticipate ed a rimborsare le spese sostenute dalla controparte vittoriosa. Pertanto si ritiene che le spese da rimborsare siano quelle effettivamente sostenute.
E’ pur vero, nelle ipotesi di gratuito patrocinio, che:
- l’articolo 133 del d.lgs. n. 113/2002 ed anche d.lgs. 115/2002 prevede che “Il provvedimento che pone a carico della parte soccombente non ammessa al patrocinio la rifusione delle spese processuali a favore della parte ammessa dispone che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato.”
- l’articolo 130 del d.lgs. n. 113/2002 ed anche d.lgs. 115/2002 recita che “Gli importi spettanti al difensore, all’ausiliario del magistrato e al consulente tecnico di parte sono ridotti della metà.”
Ma anche nelle ipotesi di gratuito patrocinio deve essere applicato il principio di soccombenza nella sua totalità, per cui alla luce dell’obbligo di rimborsare le spese processuali (compresi gli onorari del difensore) effettivamente sostenute. Per cui, risulterebbe priva di giustificazione, l’eccezione di ritenere che allo Stato debba essere rimborsato l’onorario del difensore sulla base delle tariffe (tra l’altro abolite), anche se lo stesso liquida tale onorario ridotto del 50% e non rivestendo la qualifica di parte nel processo.
Risulterebbe non convincente l’affermazione della Corte Costituzionale secondo cui la tesi del giudice rimettente porterebbe al paradosso che, mentre l’abbattimento della metà del compenso prevista dall’art. 130, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002 non costituisce un prelievo tributario nei confronti del difensore della parte non abbiente che la subisce, diverrebbe invece tale per la controparte soccombente che viene, invece, condannata secondo gli ordinari criteri di liquidazione delle spese e non subisce alcuna reale decurtazione.
Infatti tale asserzione non tiene conto che per il difensore della parte non abbiente la riduzione del 50% del proprio onorario art. 130, è una libera scelta, conseguente alla richiesta del difensore di essere iscritto nell’apposito elenco di cui all’art. 81 del d.lgs. n. 115/2002, diversamente la posizione della parte soccombente che subisce e non sceglie di versare la liquidazione dell’onorario del difensore del gratuito patrocinio allo stato prescindendo dalla effettiva erogazione a favore del difensore.
Nemmeno convince la tesi affermatasi nella giurisprudenza civile di legittimità secondo cui l’interpretazione volta a escludere la necessaria coincidenza tra i due importi che vengono in rilievo (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 16 novembre 2023, n. 31928, e sezione lavoro, sentenze 20 dicembre 2019, n. 34190, e n. 8387 del 2019; sezione prima civile, ordinanza 2 gennaio 2024, n. 64; sezione seconda civile, ordinanza 5 maggio 2023, n. 11804; sezione sesta civile, sottosezione seconda, ordinanza 14 novembre 2019, n. 29688, e sottosezione lavoro, n. 11590 del 2019).
Anche tale interpretazione contratta con il principio di soccombenza che prevede di tenere indenne la parte vincitrice dalle spese effettivamente sostenute. La Suprema Corte precisa che “… il giudice civile non è tenuto a quantificare in misura uguale le somme dovute dal soccombente allo Stato e quelle dovute dallo Stato al difensore del non abbiente: “in tal modo si evita che la parte soccombente verso quella non abbiente sia avvantaggiata rispetto agli altri soccombenti e si consente allo Stato, tramite l’eventuale incasso di somme maggiori rispetto a quelle liquidate al singolo difensore, di compensare le situazioni di mancato recupero di quanto corrisposto e di contribuire al funzionamento del sistema nella sua globalità” (Cass. 22017/2018; Cass. sentenza n. 31928 del 2023). …”
Infatti tale orientamento non tiene in debita considerazione il principio dell’ordinamento giuridico che prevede a carico della parte soccombente delle spese effettivamente sostenute dalla parte vincitrice. Principio supportato anche dal principio c.d. “del compenso unico” che è un corollario dell’art. 92, comma primo (primo inciso), c.p.c., ed ha lo scopo di evitare che il soccombente possa essere costretto a rifondere alla parte vittoriosa spese inutilmente sostenute, od addirittura superiori a quelle da essa effettivamente sostenute (Sez. 2, Sentenza n. 18624 del 12/08/2010).
Inoltre, la giustificazione che la differenza tra quanto pagato dallo Stato al difensore della parte non abbiente e quanto incassato dalla parte soccombente è quella di compensare le situazioni di mancato recupero di quanto corrisposto e di contribuire al funzionamento del sistema non fa altro che confermare che si è in presenza di un tributo. Infatti nella sentenza n. 128 del 2022 I giudici delle leggi hanno precisato che si trova di fronte ad un obbligazione tributaria quando “… indipendentemente dalla qualificazione offerta dal legislatore, laddove si riscontrino più requisiti:
- la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo;
- la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico;
- le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese
(sentenze n. 27 del 2022; n. 236 del 2017; n. 96 del 2016; n. 178 e n. 70 del 2015; n. 154 del 2014; n. 310 e n. 304 del 2013 e n. 223 del 2012).
«Si deve comunque trattare di un prelievo coattivo, finalizzato al concorso alle pubbliche spese e posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva. Tale indice, inoltre, deve esprimere l’idoneità di ciascun soggetto all’obbligazione tributaria (sentenze n. 263 del 2020, n. 240 del 2019, n. 89 del 2018, n. 269 e n. 236 del 2017, n. 70 del 2015, n. 219 del 2014, n. 154 del 2014, n. 102 del 2008, n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965 e n. 45 del 1964)» (sentenza n. 27 del 2022). ….”
Inoltre, con la sentenza n. 60 depositata il 18 aprile 2024, la Corte costituzionale ha ribadito che “… «ogni prelievo tributario deve avere una causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza (ex plurimis, sentenze n. 156 del 2001, n. 111 del 1997, n. 21 del 1996, n. 143 del 1995, n. 179 del 1985 e n. 200 del 1976)» (sentenza n. 10 del 2023) …”
Ebbene, per la parte soccombente, la differenza tra l’importo delle spese processuali disposte dal giudice e l’importo che lo stato versa al difensore della parte non abbiente ha tutti i requisiti individuati dalla Corte Costituzionale per definire una fattispecie avente natura tributaria.
Nessun rilievo può essere assunto dalla qualità di distrattaria di cui all’art. 93 c.p.c che anzi conferma che il principio di soccombenza concerne le spese effettivamente sostenute. il quale recita che “Il difensore con procura può chiedere che il giudice, nella stessa sentenza in cui condanna alle spese, distragga in favore suo e degli altri difensori gli onorari non riscossi e le spese che dichiara di avere anticipate .
Finché il difensore non abbia conseguito il rimborso che gli è stato attribuito, la parte può chiedere al giudice, con le forme stabilite per la correzione delle sentenze, la revoca del provvedimento, qualora dimostri di aver soddisfatto il credito del difensore per gli onorari e le spese.”
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