La Corte di Cassazione, sezione penale, con la sentenza n. 42819 depositata il 22 novembre 2024, intervenendo in tema del reato di fatture per operazioni inesistenti, ha stabilito il principio secondo cui la consapevolezza, nel soggetto emittente fatture per operazioni inesistenti, dell’alta probabilità dell’uso delle stesse da parte di coloro che le ricevono al fine di evadere le imposte, implica, nel medesimo, la consapevolezza e volontà di realizzare di una condotta finalizzata a consentire a questi l’evasione. Invero, chi forma una fattura relativa ad operazioni inesistenti e poi la consegna ad altro soggetto, prevedendone come certo o altamente probabile il successivo utilizzo da parte del medesimo a fine di risparmio delle imposte, “vuole” mettere a disposizione del destinatario un “mezzo” fisiologicamente funzionale ad “abbatterne” il carico fiscale, nella consapevolezza della concreta prospettiva di tale futuro utilizzo, e, quindi, “vuole” emettere il documento mendace (anche) al fine di “permettere” a terzi l’evasione.

La vicenda ha riguardato i legali rappresentanti di alcune società a responsabilità limitata accusati dei reati di cui agli artt. 8 e 10 d.lgs. n. 74 del 2000 (rispettivamente per emissione di fatture per operazioni inesistenti ed occultamento di documentazione contabile). Il Tribunale riconosceva gli imputati per i reati ascritti. La Corte di appello, in parziale riforma della sentenza adottata dal Tribunale, rideterminava le pene nei confronti di due dei quattro accusati e confermava nel resto. Gli imputati proponevano ricorso per cassazione fondato su diversi motivi. Con il ricorso di alcuni imputati contestavano la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, sostenendo che la loro emissione aveva come fine di reperire liquidità al fine di pagare le maestranze assunte in nero, e, quindi, per un fine diverso da quello di evadere le imposte. Si rappresenta che il fine di evadere le imposte, sebbene non sia escluso quando l’agente persegue un fine diverso, deve comunque rientrare nell’intento soggettivo dell’emittente, e che, però, in argomento, nulla espone la sentenza impugnata. 

I giudici di legittimità accolgono parzialmente i ricorsi.

Gli Ermellini precisano che l’evasione d’imposta non è elemento costitutivo del delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, ma caratterizza il dolo specifico normativamente richiesto per la punibilità dell’agente, essendo necessario che l’emittente delle fatture si proponga il fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ma non anche che il terzo realizzi effettivamente l’illecito intento (cfr. Sez. fer., n. 31142 del 11/08/2022, Iacona, Rv. 283708 – 01, e Sez. 3, n. 39359 del 24/09/2008, Biffi, Rv. 241040 – 01).”

Per il Supremo consesso ” per la configurabilità del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti non è necessario, sotto il profilo soggettivo, che il fine di favorire l’evasione fiscale di terzi attraverso l’utilizzo delle fatture emesse sia esclusivo, essendo integrato pure quando la condotta sia commessa per conseguire anche un concorrente profitto personale (vds., tra le tantissime, Sez. 3, n. 39316 del 24/05/2019, Tosi, Rv. 277162 – 01, e Sez. 3, n. 44449 del 17/09/2015, Colloca, Rv. 265442 – 01).

Va poi rilevato che il dolo specifico di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto o di consentire l’evasione fiscale di terzi non si identifica nell’interesse o movente, quale causa diretta che abbia eventualmente spinto l’agente a commettere il reato, ma si riferisce allo scopo della condotta (cfr. Sez. 7, n. 9439 del 06/12/2019, dep. 2020, Zanghi, Rv. 278872 – 01, relativa al reato di occultamento o distruzione di documenti contabili, in fattispecie nella quale la condotta era indicata come finalizzata a commettere reati di truffa).

Va quindi evidenziato che il fine di perseguire un risultato, sotto il profilo psicologico, può essere integrato anche dalla consapevolezza, da parte del soggetto agente, della obiettiva direzione e dalla concreta idoneità della sua condotta a realizzare detto risultato come conseguenza certa o comunque altamente probabile della stessa, e dalla volontà, ciononostante, di porre in essere tale condotta. Invero, come ripetutamente sottolineato anche dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite in materia di delitto tentato, nel caso in cui il soggetto agente consideri l’evento potenzialmente derivante dalla sua condotta come certo o altamente probabile, egli lo accetta, e, quindi, lo vuole, indipendentemente dalla sua mancata verificazione (così, per tutte, Sez. U, n. 3571 del 14/02/1996, Mele, Rv. 204167 – 01, e Sez. U, n. 748 del 12/10/1993, dep. 1994, Cassata, Rv. 195804 – 01).

Va, ancora, rappresentato che il fine di «consentire» l’evasione a terzi, secondo un’accezione linguistica, può essere identificato anche nel fine di “permettere” l’evasione a terzi, e, quindi, nel fine di mettere a disposizione degli stessi uno strumento, le fatture per operazioni inesistenti, utile a realizzare l’evasione.

La Corte di Giustizia UE ed operazioni inesistenti

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ribadito, ai sensi dell’art. 203 Direttiva IVA 2006/112, che “chiunque indichi l’IVA in una fattura o in ogni altro documento che ne fa le veci è debitore di tale imposta. In particolare, tali soggetti sono debitori dell’IVA indicata in una fattura indipendentemente da qualsiasi obbligo di versarla in ragione di un’operazione soggetta ad IVA” (v. C-943/11, p. 33 nonché C-566/07, p. 26).

In tema di detrazione la Corte di Giustizia UE ha statuito che il diritto di detrarre l’IVA fatturata è connesso, come regola generale, all’effettiva realizzazione di un’operazione imponibile e l’esercizio di tale diritto non si estende all’IVA dovuta, ai sensi dell’art. 203 della medesima direttiva, esclusivamente per il fatto di essere indicata nella fattura (v. C-643/11, p. 34, che rich. C-342/87, p. 13 e 19, nonché C-536/03, p. 24 e 25, C-35/05, p. 23, C-138/12, p. 23). Il “rischio di perdita del gettito fiscale” non è, in via di principio, eliminato completamente fintantoché il destinatario di una fattura che indica un’IVA non dovuta possa utilizzarla al fine di siffatto esercizio (v. C-643/11, p. 35 e 36).

 

I giudici unionali nella sentenza relativa alla causa C-566/07 (p. 36-38) hanno precisato che “per garantire la neutralità dell’IVA, spetta agli Stati membri contemplare, nel rispettivo ordinamento giuridico interno, la possibilità di rettificare ogni imposta indebitamente fatturata, purché chi ha emesso la fattura dimostri la propria buona fede …  Tuttavia, quando colui che ha emesso la fattura ha, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdita di gettito fiscale, il principio di neutralità dell’IVA impone che l’IVA indebitamente fatturata possa essere rettificata, senza che gli Stati membri possano subordinare siffatta regolarizzazione alla buona fede del soggetto che ha emesso la fattura. … Tale rettifica, inoltre, non può dipendere dal potere discrezionale dell’amministrazione finanziaria.” ( anche C-454/98, p. 58).

Anche nella causa C-712/17 (riguardante  i giudici unionali hanno ritenuto di consentire di “rettificare il debito d’imposta risultante da tale obbligo qualora l’emittente di detta fattura, che non era in buona fede, abbia, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdite di gettito fiscale, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.