La Cassazione con la sentenza n. 13414 del 29 maggio 2013 interviene in merito alla richiesta ri risarcimento per danni non patrimoniali derivanti dalla perdità di elementi qualificanti della professionalità acquisita.
La vicenda ha visto protagonista un dipendente di una Banca che aveva la qualifica di quadro super, dopo avere svolto per alcuni anni il ruolo gestionale di direttore di filiale è stato privato di tale incarico e destinato ad attività di analisi, revisione e controllo di pratiche di affidamento creditizio. Il lavoratore si rivolge al Tribunale sostenendo di avere subito un’illegittima dequalificazione chiedendo la condanna dell’azienda al risarcimento del danno.
Il Tribunale ha rigettato la domanda. La Corte d’Appello riformando in parte la decisione del giudice di primo grado, con sentenza non definitiva, ha dichiarato che “la banca convenuta a partire dal 2003 ha posto in essere nei confronti di Stefano C. una illegittima dequalificazione professionale” ed ha condannato l’azienda ad adibire il lavoratore a mansioni equivalenti a quelle in precedenza svolte e a risarcirgli il danno determinato equitativamente nella misura omnicomprensiva del 30% dell’ultima mensilità percepita nella posizione di direttore d’agenzia moltiplicata per 22 mesi, oltre al danno alla salute. Alla conclusione della consulenza tecnica medico legale, con sentenza definitiva depositata il 28 maggio 2010, la Corte ha quantificato il risarcimento del danno alla salute in euro 11.600,00. La Corte ha motivato la sua decisione riferendo che il lavoratore non solo era stato privato dell’incarico direttivo in precedenza svolto, ma era stato adibito a mansioni che non comportavano autonomia né responsabilità. La Banca ha proposto ricorso per cassazione censurando l’impugnata decisione per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso rilevando che la decisione impugnata è stata correttamente e adeguatamente motivata. Gli Ermellini però concordano con la ricorrente sull’affermazione che la declaratoria del quadro direttivo si articola in più figure, consistenti non esclusivamente in quella di titolare di filiale, bensì anche di preposto a “metodologie professionali complesse, da procedure non standard”.
La Corte territoriale ha motivato un giudizio difforme è che i compiti affidati a dipendente non potevano rientrare neanche in tale declinazione della attività del quadro direttivo, consistendo in concreto in mansioni prive della necessaria autonomia e limitate al compimento dei analisi e valutazioni sottoposte al vaglio altrui. La Corte d’appello non si è limitata a constatare che il dipendente “non dirige e non organizza più né persone, né una struttura”, ma ha aggiunto, e sottolineato: “soprattutto non ha più né autonomia, né responsabilità e si limita ad effettuare delle valutazioni e delle analisi che però debbono essere sottoposte al vaglio di altri”.
Per quanto attiene il risarcimento del danno la Suprema Corte ha ritenuto che l’accertamento sia stato adeguatamente motivato in base a presunzioni. Infatti la domanda relativo al danno alla professionalità, è stata accolta non già ritenendolo sussistente “in re ipsa” per il solo fatto del demansionamento, ma operando una valutazione per presunzioni e sulla base di un giudizio di probabilità, secondo l’id quod plerumque accidit. Tale motivazione è conforme all’insegnamento delle Sezioni Unite e ribadito anche di recente dalla Sezione Lavoro, da ultimo, Cass. 16 febbraio 2012, n. 2257, secondo cui “la perdita di alcuni tratti qualificanti della professionalità di un lavoratore, rilevante sia sul piano dell’autonomia dei suoi compiti, sia del potere coordinamento nel caso di mansioni di secondo livello, può essere valutata come elemento presuntivo al fine del riconoscimento del risarcimento del danno da demansionamento”. Alla stregua di questi principi di diritto – ha concluso la Cassazione – la Corte di Genova ha valutato che l’impoverimento della professionalità prospettato da Stefano C. nel ricorso introduttivo del giudizio, aveva trovato riscontro nel fatto che le nuove mansioni, affidategli dal 4 luglio 2003, riguardavano un limitato settore di attività e comportavano una ridotta prospettiva di avanzamento professionale ed una minore possibilità e necessità di aggiornamento. Il ragionamento presuntivo e sulla base dell’id quod plerumque accidit, appare quindi adeguatamente motivato.
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