La Corte di Cassazione, sezione penale, con la sentenza n. 47110 depositata il 27 novembre 2013 intervenendo in tema di rati fiscali ha affermato che l’equiparazione degli amministratori di fatto a quelli formalmente investiti è stata affermata sia nella materia civile che in quella penale e tributaria. Pertanto per i giudici della Corte anche il prestanome della società che non ha versato le imposte rischia una condanna per evasione fiscale e dichiarazione infedele.
La vicenda ha avuto inizio con un controllo fiscale durante il quale emergevano irregolarità inerenti al reato di dichiarazione infedele ed emissione di fatture per operazioni inesistenti. Il Tribunale assolveva, per non aver commesso il fatto, P. D. dai reati di cui agli articoli 110 c.p. e 4 del D.Lgs. 74/2000 (dichiarazione infedele ed emissione di fatture per operazioni inesistenti) in concorso con altro imputato separatamente giudicato. I giudici traevano il loro convincimento dalla circostanza che pur avendo rivestito formalmente la carica di amministratore della società, in realtà era solamente un prestanome dell’altro imputato nel processo, vero gestore di fatto che, essendo stato dichiarato fallito in precedenza, non poteva assumere incarichi.
Il PG ricorreva “per saltum” alla Corte Suprema impugnando la decisione del giudice di merito lamentando che l’amministratore di diritto, quale legale rappresentante della società è obbligato alla presentazione delle dichiarazioni IVA e IRES ed è formalmente titolare di una posizione di garanzia.
Gli Ermellini ritengono le motivazioni fondate ed accolgono il ricorso del PG. In particolare viene richiamato il principio secondo cui il vero soggetto qualificato non è il prestanome ma colui il quale effettivamente gestisce la società perché solo lui è in condizione di compiere l’azione dovuta mentre l’estraneo è il prestanome. Al contempo è stato anche affermato che per il prestanome vi è una corresponsabilità che può essere imputata solo in base alla posizione di garanzia di cui all’art. 2392 cod. civ., in forza della quale l’amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi.
Sulla base degli assunti di cui sopra l’amministratore di diritto se disinteressandosi dei compiti che gli sono imposti dalla Legge consente che altri realizzino condotte delittuose, risponde a titolo di responsabilità omissiva in ordine alle violazioni della legge tributaria.
Il principio dell’equiparazione dell’amministratore di fatto a quello di diritto è stato recepito dal legislatore in occasione della riforma del diritto societario. Dispone l’art. 2639 c.c. introdotto con il D.Lgs. n. 6 del 2003, che per i reati societari previsti dal titolo quindicesimo del libro quinto del codice civile al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge è equiparato chi esercita in materia continuativa i poteri previsti dalle legge. La norma, ancorché riferita esplicitamente ai reati societari previsti dal codice civile, contiene la codificazione di un principio generale applicabile ad altri settori penali dell’ordinamento e per la sua natura interpretativa è applicabile anche ai fatti pregressi (sull’applicabilità ai fatti pregressi cfr. in motivazione Cass. n. 7203 del 2008). Tale principio incide non solo sulla configurabilità del concorso dell’amministratore di fatto nei reati commissivi, ma anche in quelli omissivi propri, nel senso che autore principale del reato è proprio l’amministratore di fatto salva la partecipazione di estranei all’amministrazione secondo le regole del concorso di persone nel reato (cfr. cass. Sez. 3, Sentenza n. 23425/2011 cit).
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