La Cassazione con la sentenza n. 6918 del 20 marzo 2013 ha espresso tre principi di diritto ed ha manifestato l’intenzione di bissare il suo orientamento.
Gli Ermellini ribadiscono in merito alle eccezioni fatte in appello che “va osservato, infatti, che il divieto di nuove eccezioni in appello, sancito dall’art. 57 d.lgs. 546/92, si riferisce esclusivamente alle eccezioni in senso stretto o proprio, rappresentate da quelle ragioni delle parti sulle quali il giudice non può esprimersi se ne manchi l’allegazione ad opera delle stesse, con la richiesta di pronunciarsi al riguardo. Detto divieto non può riguardare, pertanto, i fatti e le argomentazioni posti dalle parti medesime a fondamento della domanda e che, come tali, ben possono essere ampliati in appello (Cass. 18519/05, 14020/07), sempre che attengano al tema di indagine così come delineato in primo grado, dovendo il giudice del gravame comunque procedere – sia pure nei limiti del devolutum – a ad un nuovo giudizio sui fatti costitutivi della domanda avanzata in prime cure”.
Secondo l’Agenzia delle Entrate la Commissione Tributaria Regionale anche se avesse ritenuto fondate le censure dei contribuenti in relazione ai criteri di determinazione del maggior reddito adoperati dall’Ufficio, non avrebbe, di certo, dovuto limitarsi ad annullare gli atti impositivi, ma avrebbe dovuto, decidendo nel merito, provvedere alla quantificazione dei ricavi dei contribuenti, anche in misura diversa e minore di quella determinata dall’Ufficio.
In merito alle insufficienti e contraddizioni motivazioni della sentenza dei giudici di merito la Suprema Corte rileva che “il giudice di appello non avrebbe, pertanto, tenuto in alcun conto – nella motivazione dell’impugnata sentenza -degli altri elementi documentali acquisiti agli atti, sui quali gli atti impositivi erano stati fondati, e rispetto ai quali la perizia suddetta costitutiva solo uno degli elementi valutati dall’Ufficio. A detti elementi – vertendosi in ipotesi di accertamento induttivo, ai sensi degli artt. 39 d.P.R. 600/73 e 54 d.P.R. 633/72 – andava, peraltro, aggiunto anche l’ulteriore dato di riscontro presuntivo ed indiziario costituito dalla circostanza che l’attività della società contribuente aveva un andamento apparentemente negativo ed antieconomico, avendo la stessa contabilizzato ricavi in perdita negli anni di riferimento, a fronte di consistenti ricavi accertati, invece, dai verbalizzanti.”
Gli Ermellini, pertanto, cassano la sentenza dei Giudici di appello in quanto, come soprascritto, non hanno fornito un’adeguata motivazione che snaturebbe la natura del contenzioso tributario che nasce come processo di “impugnazione-merito” e non “impugnazione-annullamento”. Secondo questo primo principio, i giudici di merito, appunto, devono e possono, sempre nei limiti della domanda delle parti, pronunciarsi anche sul merito della questione stabilendo eventualmente una nuova rideterminazione della base imponibile, non limitandosi al solo annullamento dell’atto. Non solo, si evince che il giudice può trarre spunto, sempre dopo una sua autonoma valutazione delle prove, da eventuali perizie , documenti, fatti o sentenze della giurisdizione ordinaria penale, dalla quale ne deriverebbero presunzioni gravi, precise e concordanti che invertirebbero l’onere della prova nel caso l’accertamento sia fondato sull’antieconomicità. E’ bene dunque affermare che , se l’Ufficio Finanziario ben motiva un accertamento induttivo antieconomico, fondato su più dati di fatto, l’onere della prova ricade al contribuente.
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