Fa esercizio abusivo della professione il titolare di studio che si avvale di collaboratori non abilitati. Concorso morale nel reato di lesioni personali al paziente a carico del dentista che fa lavorare chi è privo di competenze e di abilitazione
È quanto stabilito con la sentenza 17 maggio 2013, n. 21220, della Corte di Cassazione – Sesta Sezione Penale. Gli Ermellini nel respingere il ricorso del dott. X, medico odontoiatra, e nel confermare la condanna inflitta dai giudici di merito per aver consentito a Y, collaboratore dello studio sprovvisto della prescritta abilitazione, di effettuare un impianto endoosseo su un paziente, che successivamente aveva sporto denuncia per le lesioni patite. Gli Ermellini hanno richiamato il consolidato (e condiviso) orientamento giurisprudenziale, secondo il quale risponde a titolo di concorso di reato nel delitto de quo chiunque consenta o agevoli lo svolgimento, da parte di persona non autorizzata, di un’attività professionale per cui è richiesta una specifica abilitazione dello Stato (cfr. Cass. n. 42174/2012; n. 17893/2009 e n. 13170 2012).
I Giudici della Corte Suprema, dal punto di vista del concorso morale, con riferimento alla professione medica, hanno affermato il principio secondo cui il responsabile di uno studio medico, per la particolarità della funzione medica posta a tutela di un bene primario dalla ratio dell’articolo 33 della Costituzione, ha l’obbligo di verificare, in via prioritaria e assorbente, non solo i titoli formali dei suoi collaboratori, curando che in relazione ai detti titoli essi svolgano l’attività per cui essi risultano abilitati, ma ha altresì anche l’obbligo concorrente e non meno importante di verificare in concreto che al formale possesso delle abilitazioni di legge corrisponda un accettabile standard di “conoscenze e manualità minimali”, conformi alla disciplina e alla scienza medica in concreto praticate.
Pertanto secondo la Sesta Sezione Penale la Corte d’appello ha correttamente ravvisato sia gli estremi del concorso del dott. X nel reato contestato alla persona non titolata che la responsabilità del professionista, ex articolo 113 c.p. (cooperazione nel delitto colposo), per gli illeciti prevedibili secondo l’id quod prerumque accidit e derivati dalla mancata professionalità del collaboratore la cui competenza formale e sostanziale non è stata “convenientemente verificata”. E quanto fosse semplice l’accertamento del possesso dei titoli abilitanti è emerso dalla narrativa del ricorso, laddove si afferma che è bastato il mero “contatto” con l’ordine dei medici per ricevere conferma di quanto esposto dal querelante, circa la non iscrizione all’albo del collaboratore di studio. In conclusione, al professionista non resta che pagare le spese processuali.
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