La Corte di Cassazione sez. lavoro con la sentenza n. 17718 del 19 luglio 2013 interviene in materia di Licenziamento ha chiarito che qualora il collaboratore svolga la sua prestazione con continuità ma non vi siano specifiche direttive da parte del supposto datore di lavoro, il rapporto non può essere qualificato come lavoro subordinato.
Nello specifico la Suprema Corte ha precisato che l’elemento di discrimine per qualificare un rapporto come subordinato è rappresentato dalla presenza di direttive specifiche da parte del datore di lavoro. In assenza di tale requisito, la sola ripetitività delle mansioni non risulta sufficiente. La Corte con tale statuizione pare andare in contrasto con quanto dalla stessa sancito nella sentenza 16935/2013, ma d’altro canto le decisioni non possono rappresentare un precedente vincolate.
Per la diversa qualificazione di un rapporto di lavoro ( da autonomo a subordinato) diviene essenziale che il lavoratore adempia all’onere della prova, indicando fatti e circostanze che possano far pervenire il giudice all’accoglimento della domanda. Questa in sostanza la posizione assunta dalla Corte di Cassazione nella sentenz in esame.
Nel caso di specie una lavoratrice conveniva innanzi al tribunale una snc (agenzia ippica) per sentirla condannare al pagamento di maggiori somme oltre interessi legali e rivalutazione monetaria; tutto ciò, previo riconoscimento, in difformità della qualificazione come autonoma datane dalle parti, dell’esistenza di una rapporto di lavoro subordinato. Esponeva di avere svolto l’orario di lavoro indicato in ricorso, con una paga oraria di euro 2,50 l’ora.
La società si costituiva contestando la fondatezza della domanda, sostenendo l’inesistenza di un rapporto di lavoro subordinato, in quanto la ricorrente aveva reso nei confronti della società prestazioni solo occasionali di lavoro autonomo, senza alcuna soggezione al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro.
Il Giudice di primo grado, dopo aver escusso i testi e disposta c.t.u. contabile, dichiarava l’esistenza tra le parti del rapporto di lavoro subordinato dedotto in ricorso, e di conseguenza condannava la società resistente al pagamento della somma ivi determinata. La Corte d’appello con successiva sentenza , in riforma della pronuncia gravata, ritenendo non provata la soggezione della ricorrente al potere direttivo datoriale, concludeva per l’insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, rigettando l’originaria domanda. La lavoratrice avverso la sentenza dei giudici di appello presentava ricorso alla Corte Suprema per la cassazione di tale sentenza. La ricorrente lamentava che la sentenza impugnata aveva escluso la subordinazione in contrasto con la giurisprudenza di legittimità in materia di addetti alle agenzie di scommesse ippiche, rilevando invece l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale, con prestazione di sole energie lavorative corrispondenti all’interesse dell’impresa, soprattutto avuto riguardo a mansioni elementari e ripetitive che, per loro natura, non richiedono penetranti direttive che riguardino il concreto esercizio dell’attività lavorativa. Lamentava inoltre che la Corte di merito aveva erroneamente attribuito rilievo al nomen iuris attribuito dalle parti al rapporto lavorativo de quo, in assenza di idonea documentazione in tal senso ed in ogni caso in contrasto col principio di effettività che preclude alle partì una qualificazione vincolante circa la natura del rapporto di lavoro. Tali motivazioni sono state ritenute infondate dalla suprema Corte. Invero non può, in primo luogo, attribuirsi alcun valore decisivo alla circostanza che in controversie di contenuto simile, la giurisprudenza di legittimità abbia talvolta riconosciuto l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Non può infatti sottacersi che elemento essenziale e determinante del lavoro subordinato, costituente elemento discretivo rispetto al lavoro autonomo, è il vincolo della subordinazione – la quale consiste per il lavoratore in un vincolo di assoggettamento gerarchico e per il datore di lavoro nel potere di imporre direttive non soltanto generali, in conformità di esigenze organizzative e funzionali, ma tali da inerire di volta in volta all’intrinseco svolgimento della funzionementre altri elementi, quali le modalità della prestazione, la forma del compenso e l’osservanza di un determinato orario, assumono invece valore sussidiario .Se è pur vero che ove la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare decisivo, occorrendo così far ricorso ai criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore , è altrettanto vero che nella specie la ricorrente non ha dedotto alcunché in ordine a tali ultime circostanze.
Nella specie la Corte di merito ha accertato che dalle prove raccolte era emerso solo che l’attività lavorativa in questione fosse stata svolta con continuità e secondo direttive generali del datore di lavoro, ciò che non risultava sufficiente ai fini del riconoscimento della subordinazione. La ricorrente non ha chiarito né specificato quali fossero in concreto le sue mansioni, né le concrete modalità di svolgimento delle stesse, sicché la Corte non ha ragioni per cassare la sentenza impugnata, anche sotto il profilo dell’accertata volontà negoziale, che la ricorrente contesta senza tuttavia offrire diversi elementi di valutazione, limitandosi invero ad escluderne qualsivoglia rilevanza, in contrasto con la consolidata giurisprudenza di legittimità che, se ne esclude la decisività, non ne esclude il rilievo, anche in base al reciproco affidamento delle parti. Rigettato il ricorso.
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