AGENZIA DELLE ENTRATE – Risposta 27 aprile 2021, n. 295
Articolo 11, comma 1, lettera a), legge 27 luglio 2000, n. 212 – Regime fiscale delle somme liquidate a titolo di lucro cessante da mancata percezione di redditi nelle pronunce di equa riparazione per ingiusta detenzione e di riparazione dell’errore giudiziario – Articolo 6 del Tuir
Con l’istanza di interpello specificata in oggetto, è stato esposto il seguente
Quesito
L’Istante detiene la competenza in ordine ai pagamenti in esecuzione di pronunce di riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione e per errore giudiziario.
In relazione a tale competenza, l’Istante riferisce che di recente sono sorte alcune difficoltà ermeneutiche in merito alla qualificazione delle somme di denaro liquidate dal giudice e alla conseguente rilevanza fiscale delle stesse.
In particolare, nelle pronunce giudiziarie pervenute all’Istante nell’ultimo anno, si registra una crescente tendenza dei giudici penali a indicare partitamente le diverse voci di danno considerate ai fini della riparazione ex articoli 314 e 315 o ex articoli 643 e seguenti del codice di procedura penale.
In svariate pronunce, delle quali alcune allegate all’istanza di interpello, i giudici individuano, fra i parametri cui “commisurare” le somme dovute, anche i danni patrimoniali e quelli non patrimoniali, provati in giudizio o, quantomeno, non contestati.
Nelle particolari ipotesi in cui la pronuncia faccia espresso riferimento ai mancati guadagni conseguenti all’applicazione della custodia cautelare (nel caso della riparazione per ingiusta detenzione) o all’applicazione della pena (nel caso della riparazione per errore giudiziario), si è posta la questione circa la possibilità che l’Istante assoggetti a tassazione, in base all’articolo 6, comma 2, del Testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir), la quota parte della riparazione eventualmente qualificata come lucro cessante.
In particolare, l’Istante ha chiesto di conoscere:
– la qualificazione e il conseguente regime fiscale applicabile alle somme liquidate a titolo di riparazione per ingiusta detenzione e di riparazione per errore giudiziario, per la parte ed entro i limiti in cui le stesse siano state commisurate al lucro cessante, sempre che ne sia agevole e certa l’individuazione;
– nelle ipotesi in cui il giudice, nell’ambito della liquidazione equitativa, abbia espressamente richiamato la perdita di redditi fra i parametri di commisurazione della riparazione, se, in assenza di puntuale indicazione nel provvedimento degli importi liquidati, sia possibile considerare a fini impositivi le determinazioni prospettate dalle parti in causa, qualora il giudice vi abbia fatto rinvio;
– nell’ipotesi in cui le somme in questione siano riconducibili, sia pure pro quota, ai “proventi conseguiti in sostituzione di redditi” ex articolo 6, comma 2, del Tuir, se le stesse debbano essere assoggettate a tassazione ordinaria ovvero a tassazione separata.
L’Istante rappresenta, infine, che una rapida soluzione ai predetti quesiti non può non avere riflessi immediati sull’Erario, in ragione del numero sempre più rilevante di provvedimenti nei quali si prospetta la possibile soggezione a imposizione fiscale di quota parte delle somme liquidate, nonché dell’entità considerevole degli importi oggetto di riparazione.
Soluzione interpretativa prospettata dal contribuente
L’Istante ritiene preferibile la soluzione secondo cui le somme liquidate in esecuzione delle pronunce di riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione e per errore giudiziario non siano fiscalmente rilevanti e che, conseguentemente, non debba applicarsi alcuna ritenuta fiscale, per le ragioni di seguito rappresentate.
In primo luogo, pone in evidenza la natura non risarcitoria delle somme corrisposte a titolo di “riparazione” ai sensi degli articoli 314 e seguenti e 643 e seguenti del codice di procedura penale.
In entrambe le fattispecie, la “riparazione”, diversamente dal risarcimento, risponde a una precipua funzione di giustizia sociale e non persegue invece lo scopo di rimettere il beneficiario nella condizione in cui questi si sarebbe trovato ove la custodia cautelare o la pena non fosse stata applicata. Il pregiudizio oggetto di “riparazione” non si origina in conseguenza di un fatto illecito, bensì per effetto di un’attività repressiva dello Stato legittima e doverosa.
In tal senso si esprime anche la giurisprudenza di legittimità, secondo cui “la riparazione per l’errore giudiziario, come quella per l’ingiusta detenzione, non ha natura di risarcimento del danno ma di semplice indennità o indennizzo in base a principi di solidarietà sociale per chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale o ingiustamente condannato” (Cassazione Penale, sez. IV, n. 10878/2012; cfr. anche Cassazione Penale, sez. IV, n. 49784/2019).
In secondo luogo, rileva che, per entrambe le tipologie di riparazione, di regola il giudice procede alla liquidazione del quantum debeatur secondo equità.
A tale proposito, precisa che se in materia di ingiusta detenzione la determinazione equitativa è imposta dalla lettera dell’articolo 314 c.p.p. (ove questo si riferisce all'”equa” riparazione), la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che anche in sede di riparazione dell’errore giudiziario è comunque “ineliminabile l’uso di criteri equitativi per determinare in concreto, con la successiva traduzione in termini monetari, le conseguenze dell’ingiusta condanna” (così Cassazione Penale, sez. IV, n. 10878/2012 cit.).
La descritta determinazione secondo equità rappresenta un diretto riflesso della funzione giustiziale dei provvedimenti di riparazione e trova la propria ratio nell’assunto che non sia possibile (od opportuno) quantificare esattamente le voci che compongono la somma liquidata; ne consegue che, in linea di principio, l’importo della “riparazione” dovrebbe essere sempre oggetto di considerazione unitaria e complessiva, anche ai fini del relativo trattamento fiscale.
Del resto, come si riscontra puntualmente nella prassi giudiziaria, il giudice penale, anche nei casi in cui prenda in considerazione eventuali voci di danno da lucro cessante (per le quali ritenga raggiunta la prova), provvede poi sempre a ponderare tali voci alla luce di fattori diversi e ulteriori (di “giustizia”) rilevanti nel caso concreto, riducendo (usualmente) l’importo complessivo risultante dalla somma delle diverse componenti di danno eventualmente provate.
In siffatte ipotesi, da un lato, proprio per le caratteristiche intrinseche della pronuncia secondo equità, è controversa la stessa possibilità di qualificare una parte delle somme così liquidate come “proventi conseguiti in sostituzione di redditi”, dall’altro lato non è agevole (e, talora, finanche possibile) individuare la quota parte di riparazione da sottoporre a eventuale imposizione fiscale come lucro cessante. Oltretutto, spesse volte il giudice, lungi dall’indicare espressamente nel provvedimento la misura dei danni patrimoniali accertati, si limita a fare rinvio alle voci di danno come richieste dal ricorrente e non contestate. In tali circostanze, poiché, in linea di principio, la qualificazione di una somma come lucro cessante a fini fiscali dovrebbe spettare esclusivamente al legislatore o all’autorità giudiziaria, è possibile dubitare che la pronuncia di riparazione sia idonea a generare materia imponibile con riferimento ai mancati guadagni eventualmente rappresentati nelle perizie di parte.
Le superiori argomentazioni, tuttavia, potrebbero non essere dirimenti soprattutto con riferimento alle ordinanze di riparazione per errore giudiziario.
Da un lato, in tali ordinanze alla funzione giustiziale della riparazione si affianca, pur in modo né esclusivo né prevalente, anche una funzione risarcitoria, come si evince dal tenore letterale dell’articolo 643 c.p.p., secondo il quale la “riparazione” è “commisurata” sia al danno evento (ravvisabile nella limitazione dei diritti di libertà connessa all’esecuzione della pena protratta nel tempo), che al danno conseguenza (ravvisabile nelle “conseguenze personali e familiari”, comprensive degli interessi ulteriori meritevoli di tutela facenti capo al soggetto ingiustamente condannato).
Dall’altro lato, sempre con riferimento alle ordinanze ex articoli 643 e seguenti c.p.p., la giurisprudenza di legittimità ammette che il criterio equitativo (che non è imposto ex lege come nel caso delle ordinanze ex artt. 314 e 315 c.p.p.) sia affiancato anche da quello propriamente “risarcitorio”, quanto meno in relazione alle voci di danno esattamente quantificabili (cfr. Cass. Pen., sez. IV, n. 25886/2018; conformi Cass. Pen., sez. IV, n. 10878/2012, cit., Cass. Pen., sez. IV, n. 22688/2009, Cass. Pen., sez. IV, n. 2050/2003, dep. 2004).
Ne consegue che, in tali casi, nell’ambito delle somme complessivamente liquidate, quelle puntualmente determinate potrebbero essere suscettibili di una autonoma considerazione, anche a fini fiscali.
Parere dell’Agenzia delle entrate
Gli istituti della riparazione per ingiusta detenzione e della riparazione per errore giudiziario sono rispettivamente disciplinati dagli articoli 314 e seguenti e dagli articoli 643 e seguenti del codice di procedura penale (c.p.p.).
Ai fini che interessano in questa sede, relativamente alla riparazione per ingiusta detenzione, l’articolo 314 del c.p.p. prevede, ai commi 1, 2 e 3, che:
«1. Chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave.
2. Lo stesso diritto spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280.
3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, alle medesime condizioni, a favore delle persone nei cui confronti sia pronunciato provvedimento di archiviazione ovvero sentenza di non luogo a procedere».
Il successivo articolo 315 del c.p.p. prevede, ai commi 2 e 3, che: «2. L’entità della riparazione non può comunque eccedere euro 516.456,90.
3. Si applicano, in quanto compatibili, le norme sulla riparazione dell’errore giudiziario».
Relativamente alla riparazione per errore giudiziario, l’articolo 643 del c.p.p. prevede, ai commi 1 e 2, che:
«1. Chi è stato prosciolto in sede di revisione, se non ha dato causa per dolo o colpa grave all’errore giudiziario, ha diritto a una riparazione commisurata alla durata dell’eventuale espiazione della pena o internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna.
2. La riparazione si attua mediante pagamento di una somma di denaro ovvero, tenuto conto delle condizioni dell’avente diritto e della natura del danno, mediante la costituzione di una rendita vitalizia. L’avente diritto, su sua domanda, può essere accolto in un istituto, a spese dello Stato».
In base alle riportate disposizioni e, in particolare, in forza del rinvio contenuto nell’articolo 315, comma 3, del c.p.p., che, nell’ambito della disciplina relativa alla riparazione per ingiusta detenzione, richiama, in quanto compatibili, le norme sulla riparazione dell’errore giudiziario, gli ambiti di applicazione dei due istituti risultano collegati sia sul piano sostanziale che procedurale.
Infatti, per costante giurisprudenza (cfr., fra l’altro, Cassazione Penale, Sez. IV, 20 marzo 2012, n. 10878, Cassazione Penale, Sez. IV, 27 maggio 2015, n. 22444, Cassazione Penale, Sez. IV, 25 febbraio 2016, n. 7787), entrambi gli istituti non hanno natura di risarcimento del danno, ma di semplice indennità o indennizzo in base a principi di solidarietà sociale per chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale o ingiustamente condannato.
Secondo la citata giurisprudenza, il criterio seguito dalla legge e diretto a escludere una tutela di tipo risarcitorio risponde alla precisa finalità (fondata su una precisa previsione della nostra Costituzione – articolo 24, comma 4 – e, altresì, sugli articoli 5, comma 5, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e 9, n. 5, del Patto internazionale dei diritti civili e politici) di garantire un adeguato ristoro alle persone che siano state ingiustamente condannate o private della libertà personale, senza costringerle a defatiganti controversie sull’esistenza dell’elemento soggettivo e sulla determinazione dei danni.
Se il legislatore avesse voluto attribuire natura risarcitoria agli istituti in esame avrebbe dovuto richiedere, per coerenza sistematica, che il danneggiato fosse tenuto a dimostrare non solo l’esistenza dell’elemento soggettivo, fondante la responsabilità per colpa o per dolo, nelle persone che hanno agito, ma anche l’entità dei danni subiti. Ciò si sarebbe peraltro posto in conflitto con la ricordata esigenza di assicurare alla vittima un’equa riparazione per l’ingiusta condanna o privazione della libertà personale, senza sottoporla, come evidenziato, a faticose dimostrazioni sull’esistenza dell’elemento soggettivo e sulla determinazione dei danni.
Nella medesima direzione è stato affermato che se, da una parte, l’obbligo risarcitorio deriva da un inadempimento contrattuale o da un fatto illecito e postula la rigorosa prova del danno e del suo preciso ammontare, l’obbligo riparatorio ha un’altra origine, nascendo dall’esercizio di un’attività lecita, qual è la funzione giurisdizionale.
Non avendo natura risarcitoria e avendo per oggetto un equo indennizzo riconosciuto dallo Stato per ragioni di solidarietà civile, non necessita di rigorose prove del danno, che è quantificato in via equitativa.
La necessità di utilizzare criteri equitativi – espressamente contemplata, nella disciplina della riparazione per ingiusta detenzione, dal riportato articolo 314, comma 1, del c.p.p. («Chi è stato prosciolto (…), ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita») – non è esclusa, nel caso della riparazione dell’errore giudiziario, dall’eliminazione dell’aggettivo “equa” che qualificava in origine la riparazione e che non compare più nell’articolo 643 del c.p.p., comma 1, a differenza di quanto previsto dall’articolo 571 dell’abrogato codice di rito.
Nelle citate sentenze è, infatti, affermato che, per dottrina e giurisprudenza concordi, il mancato espresso richiamo all’equità è privo di concreta rilevanza – come confermato anche dalla relazione al progetto preliminare del codice – essendo ineliminabile l’uso di criteri equitativi per determinare in concreto, con la successiva traduzione in termini monetari, le conseguenze dell’ingiusta condanna.
Tuttavia, al fine di limitare il margine di discrezionalità, connaturale alla liquidazione equitativa, il giudice può soltanto utilizzare parametri non previsti normativamente che valgano a rendere razionali, trasparenti e non casuali i criteri utilizzati.
Nella suddetta ottica di contenimento dell’ampia discrezionalità correlata alla liquidazione equitativa deve essere valutata la tendenza, andatasi affermando nei più recenti pronunciamenti giurisprudenziali, a riconoscere, soprattutto nelle procedure per la riparazione dell’errore giudiziario, la possibilità per il giudice di utilizzare nella liquidazione dell’indennizzo anche criteri normativi previsti per la liquidazione del danno, come, ad esempio, quello risarcitorio.
Se, infatti, l’utilizzo di criteri risarcitori sarebbe difficilmente compatibile con l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, sia per il dato letterale del comma 1 dell’articolo 314 del c.p.p. che utilizza l’aggettivo “equa”, sia per la previsione di un tetto (pari a euro 516.456,90) all’entità dell’indennizzo, nel caso della riparazione per errore giudiziario, il mancato riferimento all’equità nella relativa disciplina potrebbe consentire al giudice l’adozione di siffatti criteri per restringere i margini di discrezionalità inevitabilmente esistenti nella liquidazione di tipo esclusivamente equitativo.
In ogni caso, anche laddove il giudice ritenga di adottare criteri risarcitori, tale circostanza non muterebbe la ratio della riparazione che continuerebbe a conservare natura indennitaria e a rappresentare, per chi sia stato ingiustamente condannato o privato della libertà personale, il diritto a un adeguato ristoro di carattere patrimoniale, il cui contenuto non è costituito dalla somma aritmetica delle diverse voci di danno ma dalla corresponsione di una somma compensativa che tenga conto non solo di componenti patrimoniali, più facilmente ma non necessariamente quantificabili nel loro esatto ammontare con criteri risarcitori, ma altresì di componenti non patrimoniali, più difficilmente quantificabili con il ricorso a criteri di tipo risarcitorio.
Del resto, la possibilità di utilizzare anche criteri di tipo risarcitorio nella quantificazione della riparazione non esclude la possibilità che il giudice utilizzi nella liquidazione dell’indennizzo un criterio esclusivamente equitativo, basato su parametri logici, razionali e trasparenti.
Tali considerazioni portano a ritenere che sia l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione che l’istituto della riparazione per errore giudiziario non siano riconducibili all’ambito applicativo dell’articolo 6, comma 2, del Testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir), secondo cui i proventi conseguiti in sostituzione di redditi e le indennità conseguite a titolo di risarcimenti di danni consistenti nella perdita di redditi costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti.
Si ritiene, in proposito, condivisibile il parere dell’Avvocatura Generale dello Stato del 28 novembre 2005, n. 158901, in cui, con particolare riferimento all’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, è stato affermato che l’equa riparazione di cui all’articolo 314 del c.p.p. costituisce concetto del tutto divaricato dal risarcimento del danno, in quanto non mira alla refusione dei danni materiali intesi come diminuzione patrimoniale o lucro cessante, bensì, con il limite massimo normativamente previsto, alla corresponsione di una somma che, tenuto conto della durata della custodia cautelare, compensi l’interessato delle conseguenze penali, di natura morale, patrimoniale, fisica e psichica dalla stessa custodia provocate.
Rappresentando sostanzialmente “il prezzo della libertà”, la misura di tale riparazione muove necessariamente dall’apprezzamento della durata dell’ingiusta detenzione ma il dato aritmetico derivante dalla correlazione tra la durata della privazione della libertà e la somma erogabile può subire aggiustamenti, in più o in meno, in relazione alla valutazione di circostanze accessorie sia di carattere obiettivo che soggettive, purché inerenti a valori effettivamente e socialmente apprezzabili.
L’Avvocatura generale dello Stato ha quindi concluso che tale indennizzo non può essere ricondotto all’ambito applicativo dell’articolo 6 del Tuir, posto che non ha alcuna funzione risarcitoria, di possibile correlazione ad eventuali vicende reddituali, condizioni queste che soltanto comportano l’operatività della ripresa fiscale, a nulla rilevando la circostanza che il giudicante nella concessione della provvidenza abbia ritenuto di dover tener conto anche del pregiudizio subito dall’interessato per la mancata retribuzione dell’attività lavorativa.
Le medesime conclusioni si applicano anche all’istituto della riparazione dell’errore giudiziario, posto che, come ampiamente riferito, il relativo ristoro, nonostante la possibilità che il giudice faccia ricorso anche a criteri risarcitori per la sua quantificazione, mantiene la connotazione complessiva di indennità.
Peraltro, una difforme interpretazione comporterebbe un’ingiustificata disparità di trattamento, ai fini fiscali, fra le ipotesi in cui l’autorità giudiziaria, anche utilizzando criteri risarcitori, riesca a quantificare esattamente l’eventuale danno da lucro cessante e quelle in cui l’autorità giudiziaria, utilizzando criteri esclusivamente equitativi, non giunga a una puntuale quantificazione del danno da lucro cessante, nonché quelle, prese in considerazione dalla disciplina della riparazione per l’errore giudiziario (articolo 643, comma 2, del c.p.p.), in cui l’interessato abbia ottenuto, in alternativa alla somma di denaro, la costituzione di una rendita vitalizia ovvero il ricovero in un istituto a spese dello Stato, ipotesi nelle quali parimenti risulterebbe estremamente difficoltoso “isolare” la parte corrispondente all’eventuale danno da lucro cessante.
Conclusivamente, è possibile affermare che le somme erogate dall’Istante in esecuzione di pronunce di riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione e per errore giudiziario non siano fiscalmente rilevanti.