La Corte Costituzionale con la sentenza n. 129 depositata il 16 luglio 2024 ha “…
1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 21, 24, 35, 36, 40, 41 e 76 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata, in riferimento all’art. 39 Cost., dal Tribunale ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe. …”
Per cui, secondo i giudici delle leggi, la tutela reintegratoria attenuata trova applicazione in tutti i casi di licenziamento disciplinare che sia stato irrogato per condotte che in base alla contrattazione collettiva sono punite con sanzioni conservative.
La vicenda ha riguardato un dipendente che ricopriva la carica di rappresentante sindacale aziendale a cui venivano contestati tre fatti, collocabili nell’ambito di una vicenda unitaria, consistenti nel ritardo di due giorni nel giustificare l’assenza per malattia, nell’omessa comunicazione preventiva della prosecuzione dello stato di malattia e nell’essersi presentato sul luogo di lavoro in costanza di malattia per espletare degli incombenti relativi al suo ruolo di rappresentante sindacale. A conclusione del procedimento disciplinare veniva applicata la sanzione del licenziamento. Il dipendente impugnava il provvedimento di espulsione. Nel corso del giudizio, era emerso che, dei tre fatti in contestazione, solo due apparivano assumere un rilievo disciplinare e che tali due addebiti risultavano punibili, ai sensi del CCNL applicato dalle parti, con sanzioni di tipo conservativo. Il giudice a quo formula, pertanto, plurime censure di illegittimità costituzionale, ritenendole non manifestamente infondate sul comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 nella parte in cui, accordando la reintegra nell’unico caso dell’insussistenza del fatto (materiale o giuridico) contestato, non ricomprende le ipotesi in cui il fatto, pur disciplinarmente rilevante, è punibile, in ragione della contrattazione collettiva di riferimento applicata dal datore di lavoro, con una sanzione conservativa, anche di modesta entità, e per le quali, sebbene non risulti compromesso il rapporto di fiducia, potrà operare la sola tutela economica con conseguente estinzione del rapporto.
I giudici costituzionali hanno evidenziato che “… La natura “ontologica” del licenziamento disciplinare costituisce ormai ius receptum: il licenziamento motivato da una condotta colposa o comunque manchevole del lavoratore, indipendentemente dalla sua inclusione, o meno, tra le misure disciplinari previste dallo specifico regime del rapporto, deve essere considerato di natura disciplinare, con conseguente assoggettamento alle garanzie dettate in favore del lavoratore dall’art. 7, secondo e terzo comma, statuto lavoratori, circa la contestazione dell’addebito e il diritto di difesa, nonché, per il caso in cui le parti si siano avvalse legittimamente della facoltà di prestabilire quali fatti e comportamenti integrino l’indicata condotta giustificativa del recesso, anche di quella della preventiva pubblicità di siffatte previsioni prescritta dal primo comma.
(…)
Ai sensi del comma 2 dello stesso art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria che non può essere superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, oltre che al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
L’ambito di applicazione della tutela reale è riservata all’ipotesi dell’insussistenza del fatto materiale contestato, con espressa esclusione dei casi in cui l’illegittimità del licenziamento risieda esclusivamente nel difetto di proporzionalità della misura espulsiva adottata dal datore di lavoro rispetto all’effettiva gravità della condotta posta in essere dal dipendente; all’area di operatività della tutela indennitaria sono invece ricondotte anche le ipotesi in cui l’inadeguatezza del licenziamento discende dall’esistenza di una previsione contrattuale che, per quel tipo di addebiti, esclude il potere del datore di lavoro di recedere dal rapporto. …”
I giudici della consulta hanno precisato, in ordine alla nozione di “… «fatto contestato», dopo qualche iniziale incertezza, la giurisprudenza di legittimità si è progressivamente consolidata su una nozione che, valorizzando il richiamo alla contestazione, e, quindi, alla rilevanza disciplinare della condotta, attrae nella tutela reintegratoria tutte le ipotesi in cui sia da escludere in radice un inadempimento, anche sotto il profilo soggettivo, perché la condotta non è accompagnata dalla necessaria coscienza e volontà oppure è stata tenuta in un contesto in relazione al quale nessun addebito può essere mosso al lavoratore.
L’insussistenza del «fatto contestato» comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare, quanto al profilo oggettivo ovvero a quello soggettivo della imputabilità della condotta al dipendente, e dunque il fatto, pur sussistente, sia privo del carattere di illiceità o rilevanza giuridica e quindi sia sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 10 maggio 2018, n. 11322 e 26 maggio 2017, n. 13383, ordinanza 7 febbraio 2019, n. 3655).
(…) A partire da Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 11 aprile 2022, n. 11665, si è infatti affermato che in caso di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dal novellato art. 18, quarto e quinto comma, statuto lavoratori, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l’illecito con sanzione conservativa, senza che detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmodi nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità, come recepito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo (successivamente, ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 3 gennaio 2024, n. 107; 28 giugno 2022, n. 20780 e 26 aprile 2022, n. 13063). …”
Inoltre per la Corte Costituzionale “… la natura “disciplinare” del recesso datoriale comporta l’applicabilità del canone generale della proporzionalità, secondo cui l’inadempimento del lavoratore deve essere caratterizzato da una gravità tale da compromettere definitivamente la fiducia necessaria ai fini della conservazione del rapporto. Il licenziamento è sempre una “extrema ratio”, sicché è giustificato, e quindi legittimo, solo se proporzionato alla gravità dell’addebito contestato e accertato in giudizio. Il principio di proporzionalità con riferimento al licenziamento del lavoratore costituisce ormai un acquis del diritto vivente, più non messo in discussione (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 11665 del 2022; analogamente, sentenze di questa Corte n. 123 del 2020 e n. 194 del 2018). …”
In conclusione per i giudici della Consulta “… la disposizione censurata può – e deve – essere letta nel senso che il riferimento alla proporzionalità del licenziamento, il cui difetto è attratto all’ambito della tutela solo indennitaria del licenziamento illegittimo, ha sì una portata ampia, tale da comprendere anche le ipotesi in cui la contrattazione collettiva vi faccia riferimento, come clausola generale ed elastica, non diversamente dalla legge, allorché questa richiede che il licenziamento si fondi su una giusta causa o un giustificato motivo e ne definisce la nozione. Essa non concerne, però, anche le particolari ipotesi di regolamentazione pattizia alla stregua delle quali specifiche e nominate inadempienze del lavoratore sono passibili solo di sanzioni conservative. In tali ipotesi, il fatto contestato è in radice inidoneo, per espressa pattuizione, a giustificare il licenziamento. Non vi è un ‟fatto materiale” che possa essere posto a fondamento del licenziamento, il quale, se intimato, risulta essere in violazione della prescrizione della contrattazione collettiva, sì che la fattispecie va equiparata a quella, prevista dalla disposizione censurata, dell’«insussistenza del fatto materiale», con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria attenuata.
(…) La mancata previsione della reintegra nelle ipotesi in cui il fatto contestato sia punito con una sanzione conservativa dalle previsioni della contrattazione collettiva andrebbe ad incrinare il tradizionale ruolo delle parti sociali nella disciplina del rapporto e segnatamente nella predeterminazione dei canoni di gravità di specifiche condotte disciplinarmente rilevanti.
Le previsioni della contrattazione collettiva sono espressione dell’autonomia negoziale di entrambe le parti, sì che la predeterminazione della sanzione conservativa consente al datore di lavoro di conoscere in anticipo la gravità di specifiche inadempienze del lavoratore e quindi di adeguare ex ante il provvedimento disciplinare senza correre il rischio di dover subire l’alea di un successivo giudizio di proporzionalità; se la ratio del ridimensionamento della rilevanza del sindacato di proporzionalità, recato dal d.lgs. n. 23 del 2015, è anche quella di garantire maggiore certezza, tale finalità risulta ampiamente soddisfatta dalla puntuale tipizzazione operata della contrattazione collettiva. …”