La Cassazione con la sentenza n. 7714 del 27 marzo 2013 ha statuito due importanti principi quello che risulta più interessante e relativo all’ammissione della “testimonianza scritta” e sulla natura e validità della relata di notifica
La Suprema Corte in una vicenda inerente la notifica ha ritenuto che sia valida la notifica degli atti impositivi presso la residenza della matrigna, indipendentemente dal fatto che conviva con il contribuente. Poichè il vincolo di parentela o di affinità, indipendentemente dal requisito della stabile convivenza, giustifica la presunzione che la persona di famiglia consegnerà l’atto al destinatario dello stesso.
È quanto emerge dalla sentenza della Corte di cassazione n. 7714 del 27 marzo 2013.
La vicenda
Il contribuente aveva presentato ricorso a seguito della notifica delle cartelle di pagamento emesse dall’Agenzia delle Entrate ai fini Irpef per gli anni d’imposta 1998 e 1999.
I giudici di secondo grado avevano ritenuto non valida la notifica degli avvisi di accertamento, poichè consegnati presso la residenza della matrigna, che non conviveva con il contribuente. Tale circostanza emergeva soltanto nel giudizio di appello da una dichiarazione del messo notificatore prodotta dal ricorrente.
Pertanto venivano dichiarate nulle, ai sensi dell’articolo 19, comma 3, del Dlgs 546/1992, le relative cartelle di pagamento.
Il ricorso
L’Agenzia delle Entrate ricorreva, avverso la sentenza dei giudici della Commissione Tributaria Regionale, alla Cassazione, denunciando le seguenti violazioni:
- dell’articolo 24, comma 2, del Dlgs 546/1992. Per l’Amministrazione finanziaria, infatti, la Commissione tributaria regionale avrebbe erroneamente ammesso, nel giudizio di appello, la produzione di un documento nuovo, ovverosia la dichiarazione scritta resa dal messo comunale che aveva provveduto a notificare gli avvisi di accertamento prodromici alle cartelle di pagamento impugnate dal contribuente, che ben avrebbe potuto essere prodotto nel giudizio di prime cure
- dell’articolo 7, comma 4, del Dlgs 546/1992. Infatti, dando ingresso nel giudizio di appello alla dichiarazione del messo notificatore, il quale attestava di avere notificato gli avvisi di accertamento alla madre del contribuente, la Commissione tributaria regionale avrebbe illegittimamente ammesso una prova testimoniale
- dell’articolo 2700 del codice civile. I giudici di appello avrebbero errato nel ritenere nulla, sulla base della successiva dichiarazione del messo comunale, la notifica degli avvisi di accertamento effettuata alla matrigna del destinatario.
La pronuncia
Gli Ermellini hanno ritenuto non fondato il primo motivo di doglianza proposto dall’Agenzia delle Entrate, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, in materia di produzione documentale in grado di appello nel processo tributario, alla luce del principio di specialità, non trova applicazione la preclusione contenuta nell’articolo 345, comma 3, del codice di procedura civile, bensì l’articolo 58, comma 2, del Dlgs 546/1992, che consente alle parti di produrre liberamente documenti anche in sede di gravame, sebbene preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado (cfr Cassazione 18907/2011), a nulla rilevando neppure l’eventuale irritualità della loro produzione in prime cure (cfr Cassazione 23616/2011, 2019/2012).
La Corte di cassazione ha respinto anche il secondo motivo di ricorso, evidenziando, al riguardo, che la norma contenuta nell’articolo 7, comma 4, del Dlgs 546/1992, vieta in un’ottica di semplificazione e accelerazione del processo, soltanto la diretta assunzione, da parte del giudice tributario nel contraddittorio delle parti, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo in qualità di testimone. Tale narrazione, infatti, in quanto richiedente la formulazione di specifici capitoli e la prestazione di un giuramento da parte del terzo assunto quale teste, acquista un particolare valore probatorio (Cassazione 903/2002, 20032/2011), ma – al contempo – richiede un maggiore dispendio di tempo e di attività processuali delle parti.
Di contro, è di piena evidenza che siffatto divieto non può considerarsi operativo per la diversa fonte di prova – connotata da una maggiore immediatezza di percezione del contenuto probatorio da parte del giudicante – costituita dal documento che racchiude le dichiarazioni del terzo.
La Corte di cassazione ha, invece, accolto il terzo e ultimo motivo di ricorso proposto dall’Amministrazione finanziaria.
Innanzitutto, hanno fatto notare i giudici di legittimità, la relata di notifica degli avvisi di accertamento, che fa piena prova fino a querela di falso ai sensi dell’articolo 2700 del codice civile, indica chiaramente che gli atti impositivi sono stati notificati “presso il domicilio del destinatario a mani della madre”. Sicché, il fatto che la successiva dichiarazione del messo comunale indichi un luogo diverso della notifica, corrispondente alla residenza della matrigna del contribuente, non può in alcun modo ritenersi idoneo a superare le risultanze della precedente relata.
Né giova al contribuente dedurre che la consegnataria del plico, ancorché sua familiare, non fosse con lui convivente al momento della notifica degli atti impositivi.
Infatti, l’espressione “persona di famiglia” adoperata dall’articolo 139 del codice di procedura civile (applicabile alla notifica degli avvisi di accertamento) va intesa nel senso più ampio, considerato che la stessa norma annovera tra coloro che possono essere destinatari della notifica perfino il portiere e il vicino di casa che accetti di riceverla (cfr Cassazione 615/95). “Tale espressione ricomprende, dunque, qualsiasi familiare (anche la matrigna) la cui presenza in casa non abbia carattere del tutto occasionale, essendo determinata da ragioni di, sia pure temporanea, convivenza con il destinatario della notifica. Situazione, questa, che può essere presunta sulla base dello stesso fatto che il familiare si sia trovato nell’abitazione del destinatario e abbia preso in consegna l’atto da notificare (cfr Cassazione 24852/2006).
Deve considerarsi, invero, che è proprio, e soltanto, il vincolo di parentela o di affinità – a prescindere dall’ulteriore requisito della stabile convivenza, peraltro neppure menzionato espressamente nella norma dell’articolo 139 del codice di procedura civile – a giustificare la presunzione che la “persona di famiglia” consegnerà l’atto al destinatario di esso.
Di conseguenza, mentre la menzionata disposizione dell’articolo 139 del codice di procedura civile non impone affatto all’ufficiale giudiziario procedente di svolgere ricerche in ordine al rapporto di convivenza indicato dalla persona che riceva l’atto (Cassazione 6953/2006, 322/2007, 8306/2011), resta a carico di colui che assume di non avere ricevuto l’atto l’onere di provare in concreto la mera occasionalità della presenza, nella propria residenza o domicilio, di detta persona, non essendo sufficiente, a tal fine, la produzione di un certificato anagrafico attestante che il familiare abbia altrove la propria residenza (cfr Cassazione 23368/2006, 6953/2006, 21362/2010). È di tutta evidenza, infatti, che le risultanze anagrafiche rivestono un valore meramente presuntivo in ordine all’effettiva residenza di una persona nel luogo da esse indicato, come tale destinato a cedere di fronte alla prova – fornita sulla base di elementi gravi, precisi e concordanti – che la residenza effettiva del destinatario dell’atto sia in un altro luogo (Cassazione 26985/2006, 21362/2010).
Per tali motivi, la Corte di cassazione ha cassato la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e confermato la validità della notifica degli atti impositivi.
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