Il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ha statuito la responsabilità di società ed enti e quindi alla possibilità di essere direttamente chiamati a rispondere dei reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio da amministratori, dirigenti, procuratori dipendenti, collaboratori esterni, consulenti e da tutti coloro che operano in nome e per conto della società. Tale responsabilità, esclusivamente a carico della società anche se quest’ultima non ha commesso alcuna condotta, si aggiunge a quella della persona fisica che ha realizzato materialmente il fatto.
Elemento soggettivo
La società è soggetta al rischio di rispondere con il proprio patrimonio e con la propria attività per i reati commessi dai soggetti ad essa legati. Risultano destinatari della disciplina i seguenti soggetti:
– società di persone e di capitali, le società cooperative;
– associazioni con o senza personalità giuridica;
– enti appartenenti al cd. terzo settore (es. fondazioni);
– società partecipate da enti pubblici;
– imprese individuali;
– studi professionali in forma societaria;
– banche;
– gruppi di imprese.
Sono esclusi dall’ambito applicativo del decreto e quindi dalla responsabilità amministrativa lo Stato, gli Enti pubblici territoriali, gli Enti pubblici non economici e gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale (es. sindacati).
Atti criminosi
Il legislatore ha predisposto un ventaglio molto ampio sia delle fattispecie criminose idonee a costituire una responsabilità per la società, sia dei soggetti ad essa legati che fanno scattare tale responsabilità. Possono essere fonte di responsabilità per l’ente i seguenti reati, quando questi siano commessi a suo vantaggio:
– art. 24 (Indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello Stato o di un ente pubblico o per il conseguimento di erogazioni pubbliche e frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico);
– art. 24-bis (Delitti informatici e trattamento illecito di dati);
– art. 24-ter (Delitti di criminalità organizzata);
– art. 25 (Concussione e corruzione);
– art. 25-bis (Falsità in monete, in carte di pubblico credito, in valori di bollo e in strumenti o segni di riconoscimento);
– art. 25-bis.1 (Delitti contro l’industria e il commercio);
– art. 25-ter (Reati societari);
– art. 25-quater (Delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico);
– art. 25-quater.1 (Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili);
– art. 25-quinquies (Delitti contro la personalità individuale);
– art. 25-sexies (Abusi di mercato);
– art. 25-septies (Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro);
– art. 25-octies (Ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita);
– art. 25-novies (Delitti in materia di violazione del diritto d’autore);
– art. 25-decies (Induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria);
– art. 25-undecies (Reati ambientali);
– art. 25-duodecies (Impiego di cittadini di Paesi
terzi il cui soggiorno è irregolare).
Adozione del modello di gestione, organizzazione e controllo
Il legislatore ha, quindi, introdotto una specifica causa di non punibilità a favore dell’ente, costituita dalla corretta ed idonea adozione e attuazione di un modello di organizzazione, gestione e controllo. Tale documento, che assume la forma di un atto interno dell’ente approvato con delibera dell’organo amministrativo deve racchiudere una serie di norme operative ed organizzative in grado di prevenire la commissione di reati da parte dei soggetti sopra indicati. In tal modo, dunque, l’ente si può proteggere dalle condotte illecite dei propri collaboratori o dipendenti, e sfuggire alle sanzioni pecuniarie che, in base ad un peculiare calcolo per quote, variano da un minimo di circa € 25.000 ad un massimo di € 1.549.000.
Va osservato, tuttavia, che non basta aver adottato il modello organizzativo da «231» per mettere al riparo l’azienda dalla responsabilità per i reati commessi dai vertici e dagli addetti. Per evitare le sanzioni, ’impresa dovrà anche provare di aver attuato il modello organizzativo in modo efficace, con misure di gestione e controllo idonee a prevenire gli illeciti. A prevederlo sono le direttive impartite dalla Guardia di finanza (con la Circ. n. 83607/2012) sui controlli alle imprese in caso di reati commessi dai vertici aziendali in base al D.Lgs. n. 231/2001. Secondo recenti sentenze inoltre, la mancata adozione del succitato «modello 231», attribuisce responsabilità dirette all’organo amministrativo, ai sensi dell’art. 2392 c.c., per culpa in vigilando.
Formazione
Rientra nel modello organizzativo la pianificazione di un programma formativo rivolto al personale delle aree a rischio. La formazione deve essere differenziata in relazione alle funzioni lavorative dei destinatari e deve illustrare le ragioni di opportunità e le ragioni giuridiche ed evidenziare la loro portata concreta. Il fine della formazione è quello di assicurare un’adeguata conoscenza, comprensione ed applicazione del decreto da parte dei dipendenti e dei dirigenti. La formazione obbligatoria deve essere disposta già al momento dell’ingresso in servizio dei neoassunti ed in particolar modo dei dipendenti che operano in specifiche aree di rischio, all’Organo di vigilanza ed ai preposti al controllo interno o in occasione di cambio di mansioni.
LINEE DI INTERVENTO DEL COMMERCIALISTA
La valutazione del rischio e la costruzione del modello
Il commercialista nell’approccio professionale al D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 può porsi nei confronti del cliente come un consulente, dotato di competenze nelle materie economiche-aziendali, che conosce la realtà aziendale ed è pertanto in grado di stimolarlo verso un processo di sensibilizzazione, di approfondimento ed eventuale sviluppo per via «esterna» del modello o anche proporsi come consulente che partecipa attivamente alla costruzione e sviluppo del sistema di gestione, organizzazione e controllo ai sensi del citato
decreto. Attività preliminari alla redazione del modello sono le seguenti:
– check up aziendale;
– valutazione Sistema di Controllo Interno (SCI);
– identificazione attività e processi aziendali.
In questa fase, per così dire propedeutica, le procedure di controllo interno esistenti vanno modificate ed adeguate ai nuovi strumenti di compliance proposti dall’adozione del D.Lgs. n. 231/2001.
Successivamente occorre eseguire una attenta attività di analisi, cosiddetta risk assessment, che il D.Lgs. n. 231/2001 interpreta come individuazione delle aree o dei settori di attività nel cui ambito possono verificarsi gli illeciti, nonché delle concrete modalità di attuazione delle fattispecie criminose. Trattasi quindi di:
– individuazione fattori di rischio;
– mappatura aree a rischio reato e processi «sensibili»;
– valutazione del rischio reato.
La fase di analisi della struttura aziendale esistente, la valutazione del rischio, l’individuazione dei protocolli e la revisione delle procedure possono richiedere, tuttavia, una grande mole di lavoro e un lungo periodo di tempo Considerato che in futuro la documentazione dello svolgimento di tale lavoro potrà costituire per il magistrato penale un’importante prova dell’adeguatezza del modello, la Nota informativa suggerisce che il commercialista, coadiuvato da personale interno all’azienda, lasci traccia scritta dello svolgimento delle proprie attività redigendo i verbali delle riunioni.
Vigilanza sull’osservanza del modello (componente dell’Organo di vigilanza o componente Collegio sindacale)
Contestualmente all’adozione del modello organizzativo, l’organo amministrativo dell’ente deve nominare un organo che, ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. b) del D.Lgs. n. 231/2001, vigili sul funzionamento e l’osservanza del modello stesso e ne curi l’aggiornamento. Anche in questa fase il commercialista può svolgere un ruolo di primaria importanza, rientrando senz’altro tra quei professionisti in possesso dei requisiti e delle competenze necessarie per svolgere le funzioni di vigilanza in modo corretto.
Si osserva, tra l’altro, come il nuovo comma 4-bis dell’art. 6, D.Lgs. n. 231, inserito dall’art. 14, L. 12 novembre 2011, n. 183 pone fine all’annosa questione relativa alla possibilità per il collegio sindacale di svolgere le funzioni dell’organo di vigilanza. Tra i compiti dell’Organo di vigilanza rientrano le seguenti attività:
– verificare l’applicazione e il rispetto del codice di comportamento e del modello nel suo complesso;
– monitorare le iniziative per la diffusione della conoscenza del codice di comportamento e del modello all’interno e all’esterno della società;
– promuovere l’emanazione di linee guida e procedure operative;
– diffondere i principi e i doveri contenuti nel codice di comportamento e nel modello nel suo complesso;
– valutare i piani di comunicazione e formazione etica;
– attivare le procedure di controllo, fermo restando che la responsabilità principale sul controllo e sulle aree di rischio permane in capo al management;
– attivare e mantenere un adeguato flusso di reporting con le analoghe strutture della società;
– ricevere e analizzare le segnalazioni di violazione del codice di comportamento e del modello, promuovendo le verifiche ritenute opportune;
– comunicare al C.d.A. i risultati delle verifiche rilevanti per l’adozione di eventuali provvedimenti sanzionatori o comunque di misure di contrasto alla violazione del codice di comportamento e del modello;
– fissare criteri e procedure per la riduzione del rischio di violazione del codice di comportamento e del modello;
– proporre al C.d.A. le modifiche e le integrazioni da apportare al codice di comportamento e al modello;
– proporre al C.d.A. le iniziative utili per la maggiore diffusione e per l’aggiornamento del codice e del modello.
Dette attività devono essere idoneamente attestate solo l’esercizio effettivo della vigilanza vale, infatti, ad escludere l’Organo di vigilanza dall’applicazione di eventuali sanzioni. A tal fine, il CNDCEC ritiene preferibile documentare accuratamente l’attività svolta, in modo da consentirne la verifica anche a distanza di anni. Delle riunioni periodiche deve essere redatto verbale al quale devono essere apposte le firme dei componenti dell’Organo di vigilanza.
Circa, infine, la responsabilità derivante dall’omesso o insufficiente esercizio, da parte dell’Organo di vigilanza, delle funzioni di controllo ed applicazione del modello organizzativo, secondo lo studio potrebbe configurarsi una responsabilità penale dei singoli componenti ove gli stessi abbiano preso parte direttamente, attraverso l’omissione delle proprie funzioni di vigilanza, ad un illecito compiuto da altri.
Consulenza tecnica in ambito processuale sulla idoneità del modello
Il commercialista può essere sollecitato ad esprimere valutazioni in ordine all’idoneità dei modelli organizzativi adottati dalle imprese. Ciò può avvenire, ad esempio, nell’ambito di procedimenti attinenti all’applicazione da parte della magistratura del D.Lgs. n. 231/2001, ovvero relativamente ad incarichi professionali come componente di Organismi di vigilanza istituiti dalle aziende sempre in applicazione del medesimo decreto legislativo. Riguardo alla prima fattispecie (applicazione da parte della magistratura del D.Lgs. n. 231/2001) il commercialista potrebbe essere chiamato quale consulente del giudice o quale consulente di parte (impresa o PM) in conseguenza di procedimenti penali eventualmente avviati per la presunta commissione di reati previsti dal decreto. Circa la seconda fattispecie (componente di Organo di vigilanza), sarà chiamato nel corso delle proprie verifiche ad esprimere costantemente valutazioni di idoneità e corretto funzionamento del modello adottato dall’ente.
Incarico di commissario giudiziale
Il commissariamento dell’ente/società è un provvedimento sanzionatorio che può essere inteso quale alternativo alla sanzione vera e propria. Stabilisce, infatti, l’art. 15 del D.Lgs. n. 231/2001 (che non si applica alle banche, alle SIM, SGR e SICAV e alle imprese di assicurazione e riassicurazione) che «se sussistono i presupposti per l’applicazione di una sanzione interdittiva che determina l’interruzione dell’attività dell’ente, il giudice, in luogo dell’applicazione della sanzione, dispone la prosecuzione dell’attività dell’ente da parte di un commissario per un periodo pari alla durata della pena interdittiva che sarebbe stata applicata,…».
Nell’ambito di detti compiti e poteri, il commissario è tenuto a curare l’adozione e l’efficace attuazione dei modelli di organizzazione e di controllo idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
COMPENSO PER IL COMMERCIALISTA
Come abbiamo già espresso il commercialista, nell’ambito del D.Lgs. n. 231/2001, può essere chiamato a ricoprire diversi ruoli:
– professionista incaricato della valutazione del rischio per l’adozione e della costruzione del modello organizzativo;
– componente dell’Organismo di vigilanza (anche se assume incarico di componente di Collegio sindacale)
– consulente tecnico d’ufficio in merito alla valutazione di idoneità del modello;
– commissario giudiziale.
Per l’incarico di valutazione del rischio o di costruzione del modello lo studio ritiene equo un compenso commisurato al tempo impiegato dal professionista e dai suoi collaboratori per lo svolgimento della pratica, per l’incarico di componente dell’Organismo di vigilanza o di componente del Collegio sindacale che svolge funzioni di Organismo di vigilanza, l’ammontare del compenso non può assolutamente prescindere dalla valutazione iniziale del rischio e dalla validità del modello adottato.
Nell’ambito processuale, per lo svolgimento dell’attività di consulenza tecnica sulla valutazione di idoneità del modello ovvero dell’attività di commissario giudiziale, la determinazione del compenso per il commercialista verrà effettuata da parte del Tribunale.
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