La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 1477 depositata il 24 gennaio 2014 intervenendo in tema di risarcimento danni per violazioni sulle norme sulla sicurezza sui luoghi di lavoro ha statuito che sul datore di lavoro grava l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo.
La vicenda ha riguardato un lavoratore, il quale colpito da fibrosi polmonare progressiva interstiziale conseguente ad inalazione di fibre di amianto, che proponeva domanda al tribunale, in veste di giudice di lavoro, affinché condannasse la società sua datrice di lavoro al risarcimento del danno biologico e morale. Il Tribunale, sulla base di una CTU accoglieva parzialmente la domanda del lavoratore, condannando la società datrice al risarcimento del danno biologico e morale contratta a causa di omissione colposa di misure di sicurezza idonee a prevenire e diminuire le polveri di amianto, presenti sul luogo di lavoro in ragione dell’attività produttiva svolta dalla società convenuta e respingeva invece la domanda relativa al danno da ipoacusia non essendo stato possibile enucleare all’interno del danno complessivo la percentuale attribuibile alla convenuta.
La società datrice impugnava la decisione del giudice di prime cure inanzi alla Corte di Appello ritenendo nell’assunto difensivo la non prevedibilità del danno e l’assenza quindi di una violazione dell’art. 2087 c.c., essendo gli impianti a norma secondo le conoscenze dell’epoca. Per i giudici territoriali, rinnovata la CTU, respingeva l’appello principale ed in accoglimento all’appello incidentale, condannava la società al risarcimento del danno biologico differenziale e morale. inoltre, i giudici distrettuali, hanno ritenuto provata la condotta colposa per omissione di misure di sicurezza sotto il profilo della mancata riduzione della polverosità dell’ambiente di lavoro; nonché dal fatto che la resistente non aveva provato le dedotte circostanze legate all’esistenza di una predisposizione individuale a contrarre la malattia, al fine di una interruzione del nesso causale fra condotta ed evento.
Per la cassazione della sentenza del giudice di seconde cure il datore di lavoro proponeva ricorso, basato su tre motivi di censura, alla Corte Suprema.
Gli Ermellini rigettano il ricorso della società. I giudici di legittimità hanno evidenziato che nel caso in esame trovava applicazione la regola contenuta nell’articolo 41 cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni; invero, principio, secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera diretta e remota, alla produzione dell’evento, salvo la sopravvenienza di quel fattore sufficiente a produrre l’evento. Quindi idoneo a far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni. (In tal senso Cass. Civile n. 17959/2005 e 6722/2003).
I giudici della Corte Suprema, infine, hanno confermato la sentenza impugnata ed hanno ritenuto che qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di aver adottato tutte le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela del tempo di insorgenza della malattia; ne discende che, in mancanza, si ritiene provata la condotta omissiva del datore di lavoro.
In merito alla responsabilità per esposizione da amianto, giova ricordare che i comportamenti omissivi, dai quali può discendere la responsabilità del datore di lavoro, possono consistere nella mancata osservanza di norme specifiche di legge, oppure dettate dalla prudenza e dalla esperienza, in relazione alla particolarità del lavoro ed allo sviluppo tecnologico, sia nella organizzazione del lavoro, sia nelle tecniche di prevenzione, secondo il dettato dell’art. 2087 c.c., che costituisce norma di chiusura del sistema antinfortunistico, estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate dalle norme antinfortunistiche specifiche.
La responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087, cod.civ., quindi non è limitata alla violazione di norme d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma va estesa, invece, nell’attuale sistema italiano, supportato a livello costituzionale, alla cura del lavoratore attraverso l’adozione, da parte del datore di lavoro, nel rispetto del suo diritto di libertà d’impresa, di tutte quelle misure e delle cautele che, in funzione della diffusione e della conoscibilità, pur valutata in concreto, delle conoscenze, si rivelino idonee, secondo l’id quod plerumque accidit, a tutelare l’integrità psicofisica di colui che mette a disposizione della controparte la propria energia vitale.
Nel caso concreto, la pericolosità dell’amianto, conclamata non da ipotetici indizi o evidenti ignoranze legali, ma da vieppiù diffusi allarmi manifestati dalla scienza medica sui perversi effetti incidenti sul bene primario della salute (che la Costituzione e il codice garantiscono) in caso di situazioni non occasionate da congiunture sporadiche o transitorie, ma avvalorate da attività permanenti, contigue alle fonti di diffusione delle particelle d’asbesto, ha portato a riconoscere la responsabilità contrattuale dell’Ente nei confronti dei suoi dipendenti. (In tal senso vedi Cass.Civ., sez. lavoro, sentenza 7.1.2009, n. 45 e, ex plurimis, Cass. civ., sez. lavoro, sentenza 4 marzo 2005, n. 4723, Cass. Civ., sez. lavoro, sentenza 8 febbraio 2005, n. 2444, Cass. Civ., sez. lavoro, sentenza 22 marzo 2002, n. 4129 e Cass.Civ., sez. lavoro, sentenza 20 aprile 1998, n. 4012; Cass.Civ., sez. lavoro, sentenza 23 maggio 2003 4078.
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