La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 12649 del 19 maggio 2017 intervenendo in tema di indebita detrazione di fatture ai fini IVA ed IRPEG, ribadendo quanto affermato nella precedente sentenza n. 16679 del 9 agosto 2016 per il reverse charge interno, ha statuito che all’Agenzia delle Entrate non serve una ‘prova certa’, in quanto la prova può sostanziarsi anche di presunzioni gravi, precise e concordanti, con conseguente inversione dell’onere probatorio sul contribuente ed ha mancato di esaminare gli elementi presuntivi offerti dall’Amministrazione.
La vicenda ha visto protagonista una società che aveva stipulato un contratto con una società austriaca per la cessione del marchio e del know how per la produzione della sostanza diosmina. A seguito di controllo l’Amministrazione finanziaria ritenendo le predette operazioni fittizie, per una serie di indizi, veniva emesso un accertamento con la ripresa dei costi ritenuti inesistenti.
La società avverso tale atto impositivo proponeva ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale, i cui giudici accoglievano le doglianze della società ricorrente. L’Agenzia delle Entrate avverso la decisione di primo grado propose ricorso alla Commissione Tributaria Regionale. I giudici distrettuali confermarono la sentenza di primo grado affermando che la pretesa dell’Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto essere suffragata da elementi e prove certe.
Avverso la decisione della CTR il Fisco proponeva ricorso in cassazione fondato su quattro motivi.
Gli Ermellini accolgono integralmente le motivazioni dell’Agenzia delle Entrate. In particolare trova conferma, anche a seguito della sentenza della Corte di Giustizia 22 ottobre 2015 relativa alla causa C-277/14, che l’Amministrazione finanziaria deve dimostrare, mediante elementi oggettivi, che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere della frode a monte, senza esigere verifiche che non incombono al soggetto passivo IVA bensì all’autorità fiscale. Precisando che l’onere probatorio, a carico del fisco, può essere assolto in via presuntiva, a condizione che le presunzioni siano gravi, precise e concordanti.
Pertanto per la Corte Suprema qualora si è in presenza di operazioni inesistenti, sia soggettivamente e/o oggettivamente, è legittimo il disconoscimento del diritto di detrazione anche per operazioni in cui trova applicazione il reverse charge esterno trattandosi di acquisti intracomunitari.
Questo poiché le annotazioni nei registri delle vendite e degli acquisti assolvono ad una funzione sostanziale, siccome, compensandosi a vicenda, “con l’assunzione del debito avente ad oggetto l’IVA a monte e la successiva detrazione a valle, comportano che non permanga alcun debito nei confronti dell’Amministrazione, e consentono i controlli e gli accertamenti fiscali sulle cessioni successive”.
I giudici del palazzaccio richiamano anche il principio statuito dalla Corte di Giustizia Europea secondo cui “Le disposizioni della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, come modificata dalla direttiva 2002/38/CE del Consiglio, del 7 maggio 2002, devono essere interpretate nel senso che esse ostano a una normativa nazionale, quale quella di cui al procedimento principale, che neghi a un soggetto passivo il diritto di detrarre l’imposta del valore aggiunto dovuta o assolta per beni che gli sono stati ceduti sulla base dei rilievi che la fattura è stata emessa da un soggetto che deve essere considerato, con riferimento ai criteri previsti da tale normativa, un soggetto inesistente e che è impossibile identificare il vero fornitore dei beni, tranne nel caso in cui si dimostri, alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal soggetto passivo verifiche che non gli incombono, che tale soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta cessione si iscriveva in un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.” (Corte Giust.22.10.2015, C-277/14).
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