Il rifiuto, da parte del lavoratore subordinato, di svolgere la prestazione lavorativa (ad esempio in caso di adibizione a mansioni inferiori) può essere legittimo e quindi non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive enunciato dall’art. 1460 c.c., sempre che il rifiuto sia proporzionato all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede.
Il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione inadimplenti non est adimplendum, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, per cui qualora rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a norma dell’art. 1455 c.c., deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460, comma 2, c.c.
NARRATIVA – Con ricorso al Tribunale del lavoro un lavoratore, premesso di essere stato dipendente di una società, esponeva di aver subìto una dequalificazione professionale culminata in una totale cessazione delle mansioni, avvenuta nel novembre del 2002 e proseguita fino al maggio del 2003, seguita dall’assegnazione di compiti che lo avevano impegnato per circa 20 minuti al giorno, e ciò fino al marzo del 2004, e quindi da una nuova forzata totale inattività protrattasi fino al licenziamento per giusta causa intimatogli per mancato rispetto dell’orario di lavoro. Il lavoratore chiedeva, pertanto, la condanna della società datrice al risarcimento del danno da demansionamento nonché la declaratoria di illegittimità del provvedimento espulsivo. Nel contraddittorio con la società convenuta, il Tribunale, espletata l’istruttoria, rigettava le domande relative al licenziamento ed accoglieva quelle risarcitorie limitatamente al danno alla professionalità, con conseguente condanna della società datrice di lavoro al pagamento della complessiva somma di euro 26.353,84 oltre interessi legali fino al soddisfo. Avverso tale pronuncia il lavoratore proponeva appello principale eccependo l’insussistenza, nel caso di specie, di un normale orario di lavoro nonché della mancanza posta a base del licenziamento, l’applicabilità dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., l’avvenuta violazione del principio di immediatezza della contestazione e l’assenza di proporzionalità tra sanzione adottata ed infrazione contestata. La società appellata proponeva, a propria volta, appello incidentale, eccependo l’attribuibilità a colpe del dipendente della lamentata inattività e deducendo la mancanza di deduzione e prova dei danni riconosciuti. La Corte di appello riteneva fondato l’appello principale ed infondato quello incidentale. Quanto al primo la Corte condivideva le argomentazioni di parte appellante ritenendo: giustificata l’eccezione di inadempimento proposta dal lavoratore; contrastante con la regola della buona fede e correttezza il tempo trascorso fino alla contestazione; non proporzionato il licenziamento alla luce delle specifiche disposizioni contrattuali comminanti la massima sanzione espulsiva; non contestata la mancanza di precedenti disciplinari. La Corte d’appello, disponeva, pertanto, la reintegra del lavoratore e condannava la società al risarcimento del danno pari alle retribuzioni globali di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegra. Quanto all’appello incidentale, la Corte territoriale riteneva che la società non avesse negato (nella sua oggettività) l’integrale svuotamento di mansioni del dipendente e che fosse mancata la prova di ogni ascrivibilità dello stesso a comportamenti del dipendente, peraltro mai formalmente contestati. La Corte riteneva, altresì, che correttamente il Tribunale avesse fatto ricorso, nell’accertamento del danno, a specifici elementi forniti dal ricorrente riconoscendo la valenza presuntiva degli stessi.
LE MOTIVAZIONI DEL RICORSO – La società ricorreva in Cassazione, censurando, in particolare, che la Corte d’appello avesse frainteso il senso dell’art. 1460 c.c., avendo utilizzato tale disposizione come surrogato, surrettizio ed indiretto, delle norme sulla correttezza e buona fede e non quale norma di autotutela regolante il rapporto di corrispettività tra due prestazioni. La società ricorrente deduceva, altresì, che, quand’anche fosse stata ipotizzabile una violazione dell’art. 2103 c.c., essa non avrebbe comunque legittimato il richiamo all’art. 1460 c.c., dal momento che, a fronte dell’avvenuto regolare pagamento della retribuzione, il lavoratore non avrebbe potuto rifiutarsi di svolgere la prestazione. La Suprema Corte ha ritenuto infondato tale motivo, richiamando, innanzitutto, un recente orientamento di legittimità secondo il quale «il rifiuto, da parte del lavoratore subordinato, di svolgere la prestazione lavorativa (ad esempio in caso di adibizione a mansioni inferiori) può essere legittimo e quindi non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive enunciato dall’art. 1460 c.c., sempre che il rifiuto sia proporzionato all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede» (cfr. Cass. 26 giugno 1999, n. 6663; id. 1° marzo 2001, n. 2948; 7 novembre 2005, n. 21479; 8 giugno 2006, n. 13365; 27 aprile 2007, n. 10086; 12 febbraio 2008, n. 3304; 19 febbraio 2008, n. 4060). La S.C. ha, altresì, richiamato altro orientamento di legittimità secondo il quale «il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione inadimplenti non est adimplendum, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, per cui qualora rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a norma dell’art. 1455 c.c., deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460 c.c., c. 2» (Cass. 3 luglio 2000, n. 8880; id. 16 maggio 2006, n. 11430). Applicando tali principi al caso di specie (in cui non si discuteva di rifiuto della prestazione bensì di non corretto adempimento di quest’ultima), la Corte di cassazione ha ritenuto che la Corte di appello, lungi dall’utilizzare la disposizione di cui all’art. 1460 c.c. nei termini prospettati dalla ricorrente, aveva solo fatto riferimento alla stessa quale criterio per operare una valutazione comparativa degli opposti adempimenti, avuto riguardo alla funzione economico-sociale del contratto, e, così, per soppesare, anche alla luce del ritenuto venir meno dell’interesse aziendale alle prestazioni del ricorrente (evincibile dall’avere la società permesso che il dipendente commettesse, per oltre due mesi, più infrazioni continuative dell’orario di lavoro, senza contestare da subito un comportamento già suscettibile di sanzione non espulsiva), la gravità dell’inadempimento nella prospettiva della riconducibilità dello stesso ad una giusta causa di licenziamento. Del resto, precisa la Suprema Corte, «poiché ogni umano agire è determinato, pur in limitata misura, dall’esterna situazione nella quale si svolge, ed in particolare dall’altrui comportamento (rispetto al quale possa eventualmente aver costituito reazione), corrisponde ad una necessità logica oltre che giuridica valutare la condotta del lavoratore nel quadro delle condizioni in cui si è svolta. Il che vale a dire che uno stato di forzata inattività imputabile al datore, pur senza legittimare un rifiuto del lavoratore di adempiere alla propria prestazione, può tuttavia aver contribuito a determinare una situazione di inadempimento del lavoratore e, dunque, ben può essere preso in considerazione per inferirne un ridimensionamento della gravità dell’inadempimento stesso».
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