Una recente sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Trento la n. 111 del 21 novembre 2016 è intervenuta in materia di società di comodo. La vicenda ha tratto origine dal ricorso presentato da una società di capitali avverso l’avviso di accertamento relativo a Ires e Irap, per l’anno 2009, fondato sulla considerazione, da parte dell’ufficio fiscale, che la stessa fosse società di comodo, non avendo dichiarato il reddito minimo previsto (articolo 30, legge 724/1994) ed essendo stata rigettata l’istanza da quest’ultima presentata ai fini della disapplicazione della norma antielusiva. In particolare, dall’analisi della dichiarazione dei redditi presentata dalla società, l’ufficio aveva riscontrato che la stessa non aveva superato i test di operatività, pertanto, veniva adeguato il suo reddito al minimo presunto.
L’Amministrazione finanziare propose ricorso avverso la sentenza di primo grado. I giudici della CTR adita, accolgono il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, intervenendo sulla questione di diritto ha chiarito come “la disciplina intende penalizzare quelle che, aldilà dell’oggetto sociale dichiarato, sono state costituite per gestire il patrimonio nell’interesse dei soci, anziché per esercitare un’effettiva attività commerciale. La disciplina opera su due livelli: il primo definisce la non operatività degli Enti interessati (il c.d. test di operatività); il secondo livello si rivolge ai soggetti che non hanno superato il test di operatività. Su detto caso si applica conseguenzialmente il reddito minimo”. Spiegando, quindi, che “l’art. 30 della legge 724/1994 individua, tra l’altro, un metodo presuntivo di determinazione da reddito minimo, che si applica a quelle Società commerciali (di persona e di capitali) che in base a determinati parametri sono qualificate come non operative”.
Nella fattispecie esaminata dai giudici della CTR, non è stata provata da parte della contribuente la sussistenza di circostanze oggettive giustificative del non superamento del test di operatività ovvero l’esistenza di cause di esclusione.
I giudici di appello hanno rilevato come, nell’arco di cinque anni, la società ha sempre conseguito risultati economici negativi, per cui il convincimento tratto dal collegio di seconde cure è che, con matematica ragionevolezza, poteva ritenersi che già al momento della stipula del contratto di locazione la società fosse consapevole del fatto che la gestione aziendale sarebbe andata incontro a perdite consistenti e ripetute.
Pertanto, smentito il pronunciamento di primo grado, secondo il quale il reddito prodotto dalla società non si misurava solo in termini di ricavi, bensì in termini di accrescimento del patrimonio e, quindi, nell’incremento del valore complessivo, i giudici d’appello hanno affermato che “l’associazione in cui i soci, come nel caso di specie i soci ..S.r.l., abbiano un patrimonio immobiliare aziendale che viene conservato e sfruttato, incrementandone il valore nel tempo a scapito del reddito e sfruttando la possibilità di detrarsi i costi, rappresenta proprio una di quelle situazioni che la disciplina delle società di comodo intende colpire”.
Aggiungono, poi, che “..l’obbiettivo della disciplina della società non operativa non è tanto e solo quello di, eventualmente, scoraggiare la creazione delle società vuote aventi il fine di distrarre redditi altrimenti tassabili in capo ai soci, bensì, ai sensi dell’art. 30 della legge 724/1994, quello di applicare una presunzione legale di non operatività della società, senza subordinarla alla presenza di eventuali scopi elusivi da parte dei soci, ma valutando esclusivamente i fatti oggettivi che denotino la mancanza di concreti ed immediati obiettivi imprenditoriali”.
Le statuizioni contenute nella decisione d’appello si rivelano conformi al diritto, sancito dal consolidato orientamento della suprema Corte di cassazione, la quale ha chiarito che: “In materia di società di comodo, i parametri previsti dalla L. n. 724 del 1994, art. 30, nel testo risultante dalle modifiche apportate dal D.L. n. 223 del 2006, art. 35, convertito nella L. n. 248 del 2006, sono fondati sulla correlazione tra il valore di determinati beni patrimoniali ed un livello minimo di ricavi e proventi, il cui mancato raggiungimento costituisce elemento sintomatico della natura non operativa della società, spettando, poi, al contribuente fornire la prova contraria e dimostrare l’esistenza di situazioni oggettive e straordinarie, specifiche ed indipendenti dalla sua volontà, che abbiano impedito il raggiungimento della soglia di operatività e di reddito minimo presunto” (Cassazione, ordinanza 13699/2016 e sentenza 21358/2015).
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