Il D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 con l’art. 11 ha introdotto e disciplinato il reato penale tributario di “sottrazione fraudolente dei beni al pagamento delle imposte”
Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte nell’ambito del vigente ordinamento delle sanzioni penali tributarie punisce con la reclusione (da 6 mesi a 4 anni) chi, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o IVA in misura superiore a una determinata soglia, «aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva» – non richiede che sia in atto una procedura di riscossione coattiva dei tributi evasi. Elementi essenziali della fattispecie sono:
- sotto il profilo psicologico, il fine di sottrarsi al pagamento del proprio debito tributario (dolo specifico);
- sotto il profilo materiale, una condotta fraudolenta atta a vanificare l’esito della esecuzione tributaria coattiva.
Con l’attuale versione della norma è avvenuta la trasformazione della fattispecie da reato di danno a reato di pericolo. Per cui il l’intento del legislatore è quello di anticipare la tutela del bene protetto, che e rappresentato dall’interesse dello Stato alla effettiva riscossione dei tributi e alla conservazione delle garanzie patrimoniali che assistono il suo credito tributario.
LA FATTISPECIE DI REATO
In base all’art. 11, primo comma, del D.Lgs. n. 74/2000, “è punito chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi o dell’IVA, ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a tali imposte di ammontare complessivo superiore ad euro 50.000, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui beni propri o altrui idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”. Il legislatore con il D.L. n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010, oltre ad aver ridotto la soglia ad euro 50.000 rispetto alla precedente di euro 51.645,69, ha introdotto una circostanza aggravante specifica, qualora le somme al cui pagamento il contribuente intende sottrarsi siano superiori ad euro 200.000. In tale ipotesi, la norma prevede la reclusione da uno a sei anni. La condotta sanzionata consistente nell’alienazione simulata o nel compimento di altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere inefficace la riscossione coattiva. Per il perfezionamento del reato, è sufficiente la semplice idoneità della condotta a rendere inefficace la procedura di riscossione, e non anche l’effettivo verificarsi dell’evento. L’elemento soggettivo richiede il dolo specifico: il contribuente deve cioè aver agito al fine di sottrarsi al pagamento di imposte o di interessi e sanzioni ad esse relativi. La clausola «salvo che il fatto costituisca più grave reato», prevista dall’articolo 11 del D.Lgs. n. 74/2000, escludeva il concorso con il reato di bancarotta fraudolenta documentale, ritenuto prevalente rispetto all’ipotesi delittuosa in esame. Con il D.L. n. 78/2010 convertito dalla legge 122/2010, che ha modificato il contenuto dall’articolo 11 del D.Lgs. n. 74/2000, ha eliminato la clausola di sussidiarietà, per cui allo stato attuale è possibile configurare il concorso del reato in commento con la bancarotta fraudolenta. La sanzione prevista è la reclusione da sei mesi a quattro anni. In base alla relazione introduttiva al disegno di legge n. 2228, la norma innovata «è finalizzata a rafforzare l’efficacia dissuasiva della previsione penale, introducendo un nuovo reato in materia di falsità nella documentazione presentata ai fini delle transazioni fiscali».
Inoltre in forza del secondo comma dell’art. 11 «è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di ottenere per sé o per altri un pagamento parziale dei tributi e relativi accessori, indica nella documentazione presentata ai fini della procedura di transazione fiscale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila. Se l’ammontare di cui al periodo precedente è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni». La relazione illustrativa, sopra richiamata, a tale riguardo, commenta, che viene ricondotto al reato in discussione anche il comportamento di chi, nell’ambito della procedura di transazione fiscale, indica nella documentazione presentata elementi attivi inferiori a quelli reali, ovvero elementi passivi fittizi, per un ammontare superiore a 50.000 euro. La soglia di punibilità è stata così individuata «in considerazione del fatto che la sottovalutazione del patrimonio, nell’ambito di procedure concorsuali o comunque preconcorsuali, equivale alla sottrazione di un pari importo alle somme destinate al pagamento delle imposte dovute e dei relativi accessori». Anche per questa tipologia di reato è stata prevista una aggravante specifica, che opera se l’ammontare degli elementi (attivi e/o passivi) indicati è complessivamente superiore a 200.000 euro. La normativa in esame è stata commentata – sulla linea della relazione introduttiva – dalla Circ. Agenzia delle entrate n. 4/E del 15 febbraio 2011. Ai fini che qui interessano, si osserva che all’ipotesi delittuosa in esame risulta applicabile – a norma dell’art. 1, comma 143, della legge n. 244 del 24 dicembre 2007 – la confisca per equivalente di cui all’art. 322-ter c.p. Ciò significa che è possibile la confisca anche di beni diversi da quelli oggetto del reato per un valore corrispondente al loro prezzo. Il pubblico ministero può quindi richiedere al giudice il sequestro per equivalente con le forme previste per il sequestro preventivo di cui all’art. 321 c.p.p.
LA QUESTIONE ESAMINATA DALLA CASSAZIONE
Con la sentenza della Cassazione penale n. 46833 del 4 dicembre 2012 gli Ermellini si sono occupati di una questione relativa al procedimento penale instaurato per i reati di cui agli artt. 81 e 110 c.p., nonché all’art. 11 del D.Lgs. n. 74/2000 (compimento di atti fraudolenti indirizzati a sottrarre disponibilità al pagamento di imposte). I giudici di merito affermavano che «gli accertamenti della Guardia di Finanza avevano riscontrato la sistematica commissione, da parte degli indagati, con il contributo determinante di soggetti pubblici, di operazioni fraudolente aventi il fine di sottrarre al pagamento delle imposte ingenti somme di danaro percepite a titolo di corrispettivo per lo svolgimento di servizi appaltati da enti pubblici, nel settore della raccolta e gestione dei rifiuti soldi urbani, mirando così a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva di ingenti debiti tributari ammontanti a decine di milioni di euro gravanti sulle società titolari del rapporto di appalto». «Era stata verificata, infatti, la anomala costituzione di una serie di società di capitali (S.p.A. e S.r.l., aventi quasi tutte la medesima sede legale in Venezia Malcontenta, Via [Omissis], la stessa compagine sociale e analogo oggetto sociale) da parte del “dominus” di tali operazioni illecite, G. S. (al quale erano riconducibili oltre cinquanta società, delle quali egli era stato od era rappresentante legale o liquidatore e molte delle quali si trovano in fase avanzata di liquidazione volontaria), che si era avvalso del contributo determinante dei coindagati». Vi era stato una avvicendamento delle varie società nella gestione dei servizi appaltati, al fine di rendere inattaccabili da eventuali azioni esecutive il patrimonio attivo e i crediti maturati nell’esecuzione di contratti di appalto e di vanificare gli esiti delle eventuali procedure di riscossione dei debiti tributari. Il disegno criminoso si realizzava mediante l’aggiudicazione di appalti pubblici su tutto il territorio nazionale per la gestione di discariche e/o per la raccolta di rifiuti solidi urbani, nonché per la successiva gestione del servizio, da parte di una società «madre». I rilevanti debiti tributari emergenti in capo a tale «madre» venivano quindi «rimossi» mediante la creazione di società «figlie» (per scissione, cessione di rami aziendali, ecc.), alle quali venivano trasferiti gli elementi attivi del patrimonio. La «madre», spogliata di ogni bene o credito, carica soltanto di debiti, quindi infruttuosamente aggredibile dai creditori e dall’Erario, veniva poi posta in liquidazione volontaria ovvero sottoposta a concordato preventivo fallimentare. Avverso l’ordinanza che aveva disposto il sequestro per equivalente, l’indagato (L.P.) aveva proposto ricorso per cassazione deducendo con due motivi la violazione della legge penale (art. 11 del D.Lgs. n. 74/2000, art. 110 e art. 43 c.p. nonché art. 322-ter c.p. e art. 321 c.p.p.) e la manifesta illogicità della motivazione, rilevando in particolare: – che trattandosi di reato istantaneo di pericolo perfezionatosi al momento della alienazione dei beni, non poteva ipotizzarsi il concorso del L. P. per una condotta posta in essere in un momento successivo alla consumazione e cioè al momento del pagamento delle somme al nuovo soggetto giuridico; – che al più poteva ipotizzarsi il reato di favoreggiamento reale (art. 379 c.p.), mancando del tutto il fumus del concorso nel reato tributario per mancanza di una condotta integrante la partecipazione materiale o morale nel reato, ma in tal caso non poteva essere disposto il sequestro per equivalente perché il favoreggiamento non rientra tra i reati per i quali l’art. 322-ter c.p. consente una tale misura; – che, pur volendo ipotizzare il concorso nel reato tributario, mancando la prova del profitto del reato per il L.P., non poteva ordinarsi il sequestro per equivalente nei suoi confronti, dovendo essere il sequestro circoscritto alla quota di prezzo o di profitto attribuibile al singolo concorrente (giacché nel caso di specie non risultava che il L. P. avesse conseguito alcuna quota del profitto del reato).
L’ORIENTAMENTO ESPRESSO DALLA CORTE
Quanto alla questione che poneva in dubbio la sussistenza nel caso di specie del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, la Corte ne ha affermato l’infondatezza sulla base anche della recente giurisprudenza di legittimità (Cass, sez. III penale, n. 38745 del 19 giugno – 4 ottobre 2012), precisando che «la consumazione degli atti fraudolenti è stata logicamente ritenuta protrarsi sino (…) al momento dell’adozione delle ordinanze di liquidazione quali atti» idonei a dirottare in capo a un’altra società «le somme su cui l’Erario avrebbe potuto rivalersi». A tale riguardo, pur ribadendo «che il delitto di cui all’art. 11 del D.Lgs. n. 74/2000 è un reato di pericolo concreto, che si consuma nel momento e nel luogo in cui venga posto in essere un atto simulato o fraudolento in grado di rendere, in tutto o in parte, inefficace la procedura di riscossione coattiva (…)», rilevava la Corte «che la consumazione ben può prolungarsi sino a quando, in ipotesi di più atti tutti idonei a porre in essere una fraudolenta sottrazione, l’offesa abbia a permanere». Il delitto in questione può consumarsi «sia con un singolo atto fraudolento che integri l’intero disvalore del fatto, sia attraverso il compimento di una pluralità di atti che, pur restando singolarmente inidonei ad integrare il reato, raggiungano complessivamente quel grado di offensività necessario e sufficiente all’applicazione della norma». «Qualora il delitto (pure avendo esso natura di reato pericolo) sia realizzato mediante una pluralità di atti, il momento consumativo non può che coincidere con il termine dell’azione in cui si sostanzia la condotta (…)».
CONCORSO E FAVOREGGIAMENTO
La Corte Suprema, sulla base di quanto da essa affermato, ha escluso che potesse ricorrere nel caso specifico l’ipotesi del favoreggiamento reale (art. 379), precisando che quest’ultimo presuppone il profitto già conseguito del reato sottostante. Inoltre, il reato di favoreggiamento, sia personale (art. 378 c.p.), che reale (art. 379 c.p.), è di carattere residuale perché si configura fuori dei casi di concorso nel reato, e quindi quando la condotta dell’autore non abbia fornito un contributo causale alla commissione dell’illecito (nel senso cioè che senza il suo contributo il reato o non sarebbe stato commesso o sarebbe stato commesso in termini diversi). Nella qualificazione giuridica del fatto è pertanto necessario verificare preventivamente la possibilità di riconoscervi gli estremi del concorso di persona; solo se questi non ricorrono, il fatto può essere qualificato giuridicamente, in presenza dei presupposti di questo reato, come favoreggiamento personale o reale (3). Nel caso di specie sussisteva il fumus del concorso nel reato (e non del favoreggiamento) di compimento di atti fraudolenti indirizzati a sottrarre disponibilità al pagamento di imposte, «stante la sistematica omissione di controlli e il rilascio di proposte favorevoli al pagamento in favore della società En. di somme che invece sarebbero dovute confluire nel patrimonio della società titolare del rapporto originario (la E.) e che avrebbero potuto essere impiegate per estinguere i debiti tributari da quest’ultima maturati (e dal L.P. ben conosciuti), in quanto tale ripetuta attività costituisce un evidente contributo causale per la commissione del reato, che influisce in modo determinante sullo schema esecutivo dell’illecito e non realizza soltanto un mero aiuto per assicurare all’autore il prezzo, il prodotto o il profitto del reato». Il Tribunale del riesame (sulla cui decisione interveniva la Corte di Cassazione) aveva perciò correttamente qualificato la condotta del L.P. come concorso nel reato tributario, e non di favoreggiamento reale.
INTERESSE GIURIDICO TUTELATO
La Corte ha giudicato infondato il motivo di ricorso per cassazione con cui veniva dedotta l’inapplicabilità dell’art. 322-ter c.p. (confisca) per la riconosciuta assenza del profitto da parte del concorrente. A tale proposito la Cassazione ha precisato che l’interesse oggetto di tutela diretta da parte dell’art. 11 del D.Lgs. n. 74/2000 non è il diritto di credito del Fisco, bensì la garanzia generica patrimoniale offerta al Fisco dai beni dell’obbligato. La lesione del diritto di credito erariale difatti, pur costituendo tale diritto il fine ultimo perseguito dal legislatore, non costituisce elemento necessario della fattispecie, «potendo configurarsi il reato anche qualora, in concreto, dopo il compimento degli atti fraudolenti richiesti dalla norma, avvenga il pagamento dell’imposta e dei relativi accessori». A tale riguardo le SS.UU. hanno rilevato che non è rinvenibile in alcuna disposizione legislativa una definizione della nozione di «profitto del reato», che deve pertanto essere ricostruita in via interpretativa. In tale pronuncia (con riferimento alla confisca di valore prevista dall’art. 19 del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231) sono state richiamate le consolidate affermazioni giurisprudenziali sulla nozione di «profitto del reato» contenuta nell’art. 240 c.p., secondo le quali «il profitto a cui fa riferimento l’art. 240, comma 1, c.p., deve essere identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato». Il profitto del reato deve ritenersi costituito, nel caso di specie, dalla riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio della società E. sul quale il Fisco aveva il diritto di soddisfarsi, «essendo irrilevante il dedotto mancato personale conseguimento da parte del L.P.».
IL SEQUESTRO IN CASO DI CONCORSO NEL REATO
La Cassazione confermando l’orientamento giurisprudenziale, secondo cui il concorso di persone nel reato, ha deciso il sequestro. Il provvedimento del sequestro può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, anche se la confisca non può essere duplicata o eccedere nel quantum l’ammontare complessivo del profitto. Tale soluzione interpretativa è stata peraltro ritenuta corretta anche con riferimento ai principi contenuti nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ratificata con legge n. 848/1955). Quanto alla misura del profitto del reato, necessaria per verificare che il sequestro preventivo non operasse per un valore eccedente, il giudice di merito l’aveva correttamente correlata ai crediti e alle poste attive, riferiti all’attività svolta nella gestione dell’impianto tecnologico di Catanzaro, per complessivi euro 2.978.091,54 («somma pari ai pagamenti effettuati a partire dal 26 gennaio 2011 dal Commissario delegato alla En. in luogo della E. S.p.A., sulla quale l’Erario avrebbe potuto far valere le proprie pretese creditorie »).
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