La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 27166 depositato il 4 dicembre 2013 intervenendo in materia di accertamento standardizzato ha affermato che è illegittimo l’accertamento basato sugli studi di settore a carico del piccolo imprenditore che a causa della crisi economica non riesce neanche a far fronte alle rate del mutuo.
La vicenda ha riguardato due contribuenti a cui l’Amministrazione Finanziaria aveva notificato un avviso di accertamento, sulla base dei parametri di cui al DPCM 29-1-1996, con cui rideterminava il reddito da lavoro autonomo dei detti contribuenti.
I contribuenti avverso l’atto impositivo ricorrevano alla Commissione Tributaria Provinciale adducendo, tra l’altro, lo scarso rendimento dell’impresa, costituita da due esercizi commerciali di ristorazione. I giudici di prime cure rigettavano il ricorso.
I contribuenti impugnano la pronuncia della CTP inanzi alla Commissione Tributaria Regionale che riformava la decisione dei giudici di prime cure evidenziando che il contribuente aveva fornito elementi indiziari di indubbia gravità e concordanza, idonei come tali a contestare l’applicazione dei parametri. Nel caso di specie la CTR ha ritenuto che la documentazione prodotta riguardante l’esecuzione forzata da parte della banca sull’unità immobiliare in cui era esercitata l’attività d’impresa rappresentava chiaramente la difficoltà finanziaria in cui versava l’impresa.
L’Amministrazione Finanziari impugnò la decisione di dei giudici di appello con ricorso, basato su due motivi di censura, inanzi alla Corte Suprema.
Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate. Infatti i giudici di legittimità si sono conformati al principio secondo cui la procedura di accertamento tributario standardizzato, mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore, costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standard” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standard” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standard” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici. (Cass. Sez. Unite 26635/2009; conf., tra le tante altre successive, Cass 12558/2010 e Cass. 13594/2010).
Pertanto per i giudici del Palazzaccio la Commissione Tributaria ha fatto corretta applicazione di questi principi avendo esaminato in concreto la specifica situazione del contribuente sulla base delle giustificazioni dallo stesso presentate. Giustificazioni idonee a contrastare l’applicazione dei parametri.
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