TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE FRIULI VENEZIA GIULIA – Sentenza 18 maggio 2021, n. 155
Rapporto di lavoro – Indebito inquadramento professionale – Accertamento ispettivo – Durata – Provvedimento di disposizione
Fatto e diritto
1. – OMISSIS-ricorre contro il Verbale di Disposizione – OMISSIS -del 24.02.2021 dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro – OMISSIS – con cui è stato disposto l’inquadramento di alcuni dipendenti ad altro livello rispetto a quello disposto dal datore di lavoro, nonché degli atti connessi, tra cui il silenzio rigetto formatosi sul ricorso gerarchico. Sono proposti i seguenti motivi di ricorso:
1.1. Violazione – erronea applicazione di legge (art. 2 l. 241/90; art. 14 l. 689/81; art. 24 cost.) E del principio di ragionevolezza dei tempi di durata dell’accertamento ispettivo, ribadito anche dall’art. 9 del codice di comportamento degli ispettori del lavoro, dalla circolare n. 6/2014 del ministero del lavoro e delle politiche sociali, dal §-13 della risoluzione del parlamento europeo del 14.01.2014 e dalla giurisprudenza, per avere gli ispettori del lavoro dato avvio all’attività di accertamento nel mese di luglio 2020 e averla conclusa solo con il verbale di disposizione n. -OMISSIS-, ricevuto in data 02.03.2021, ben oltre il termine massimo di durata del procedimento amministrativo e di ragionevole durata dell’accertamento ispettivo, con nocumento del diritto di difesa del – OMISSIS – ricorrente.
1.2. Violazione – erronea applicazione di legge (art. 3 l. 241/90; artt. 97 e 24 cost.; art. 41 carta di nizza; art. 13, comma 4, lett. a), l. 124/04), violazione dell’art. 15 del codice di comportamento ad uso degli ispettori del lavoro, violazione della circolare n. 6/2014 del ministero del lavoro e delle politiche sociali e della circolare inps n. 76/2016, nella pretesa di disposizione di un diverso inquadramento professionale di operatori del -OMISSIS-in assenza di adeguata motivazione e di indicazione puntuale delle fonti di prova e, comunque, sulla base di una motivazione meramente apparente che non consente l’individuazione dell’iter logico giuridico seguito nel procedimento ispettivo, con nocumento del diritto costituzionale di difesa del ricorrente.
1.3. Eccesso di potere per sviamento, difetto di istruttoria, travisamento dei fatti, illogicità e ingiustizia manifesta, nella disposizione di un diverso e indebito inquadramento professionale di operatori del -OMISSIS-sulla base di un’erronea e arbitraria applicazione degli artt. 62, 63 e 64 del CCNL -OMISSIS-del 16 giugno 2017 e dell’asserito principio di “parità di trattamento” tra lavoratori subordinati, la cui sussistenza risulta pacificamente esclusa dalla giurisprudenza.
2. Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha eccepito la propria carenza di legittimazione passiva, per essere stata attribuita l’integralità delle competenze in materia di attività ispettiva ad un’Agenzia unica, denominata “Ispettorato Nazionale del Lavoro”, istituita per effetto dell’art. 1 del d.lgs. 149 del 2015.
3. Anche l’Ispettorato Nazionale ha eccepito la propria carenza di legittimazione passiva in relazione alla domanda finalizzata alla corretta qualificazione del contratto stipulato tra le parti, che vede come legittimi contraddittori i soli lavoratori. Nel merito, ha evidenziato la completezza dell’istruttoria compiuta, anche attraverso l’assunzione di dichiarazioni dai diretti interessati. Quanto al tipo di violazioni accertabili in forza del potere di disposizione, l’Ispettorato considera ricomprese le violazioni del CCNL, nella parte in cui si prevede che a certe mansioni corrisponda un determinato livello di inquadramento contrattuale.
4. All’udienza del 12.05.2021 le parti hanno discusso come da verbali in atti, soffermandosi in particolare sulla questione relativa all’ampiezza del potere di disposizione e sull’interpretazione della disposizione di riferimento (l’art. 14 del d.lgs. 142 del 2004), recentemente riformata.
5. Il giudizio viene definito nel merito all’esito della trattazione dell’istanza cautelare ai sensi dell’art. 60 c.p.a., come espressamente consentito dalla legge (art. 25, comma 2, d.l. 137 del 2020) anche nel contesto del processo c.d. da remoto.
6. È fondata l’eccezione preliminare di carenza di legittimazione passiva sollevata dal Ministero del Lavoro. Il provvedimento è stato infatti emesso dall’articolazione territorialmente competente dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, soggetto pubblico creato con d.lgs. 149 del 2015 e avente personalità giuridica di diritto pubblico, oltre che piena autonomia organizzativa e contabile (art. 1, comma 3 del citato d.lgs.). Rispetto a tale ente, il Ministero esercita unicamente funzioni di vigilanza sull’attività complessiva (“ne monitora periodicamente gli obiettivi e la corretta gestione delle risorse finanziarie”) e non può considerarsi legittimo contraddittore nel presente giudizio, avente ad oggetto uno specifico atto.
7. Anche l’Ispettorato ha sollevato analoga eccezione. In particolare, rilevando che il provvedimento di disposizione “non deriva da una potestà esercitata dall’Amministrazione, bensì trova la propria fonte originaria nei contratti individuali e collettivi di lavoro” ma è piuttosto espressione di un’azione “finalizzata a garantire il soddisfacimento di un interesse, proprio del lavoratore”, ha individuato quali legittimi contraddittori della presente azione solo ed esclusivamente i lavoratori stessi.
7.1. Le argomentazioni non considerano che oggetto del presente giudizio è pur sempre un provvedimento amministrativo a contenuto ordinatorio (con previsione di una sanzione pecuniaria), espressione di un potere pubblicistico che, a prescindere dai soggetti nel cui interesse è esercitato, fa capo all’Ispettorato del Lavoro.
7.2. Diversamente dalla diffida accertativa (art. 12 del d.lgs. 124 del 2004), suscettibile di acquisire essa stessa efficacia di titolo esecutivo a favore del privato, il provvedimento di cui all’art. 14 del medesimo d.lgs. non è idoneo a riconoscere al lavoratore un’utilità diretta e immediata. L’atto di disposizione è definito dalla norma “immediatamente esecutivo”, quindi fin da subito efficace e vincolante per il destinatario, ma il dovere giuridico di conformarsi alle sue statuizioni è presidiato solo dal meccanismo di coazione indiretta costituito dalla sanzione pecuniaria per il caso di eventuale inottemperanza. Ogni beneficio a carico del lavoratore dipenderà quindi solo dall’adeguamento del datore alle disposizioni impartite, non essendo consentito all’amministrazione un intervento diretto sul rapporto giuridico.
7.3. Il ragionamento dell’Ispettorato, del resto, prova troppo. Portato alle sue logiche conseguenze, esso porterebbe a configurare un anomalo giudizio di impugnazione di un provvedimento amministrativo interamente svolto tra contraddittori privati (il datore di lavoro e i lavoratori), senza il coinvolgimento dell’autorità emanante.
7.4. Né può essere accolta, la ricostruzione (pag. 9 della memoria dell’I.T.L.) secondo cui le parti si troverebbero nell’alternativa secca tra “definire il proprio rapporto alla luce delle risultanze tecniche … del provvedimento di disposizione”, oppure “in caso di contrasto, possono adire l’autorità giudiziaria” (ordinaria), sul presupposto – non esplicitato ma desumibile dalla giurisprudenza citata, intervenuta in materia di diffida accertativa – che quella sia la sede naturale (e unica) di accertamento del rapporto di lavoro. In primo luogo, tale conclusione non è coerente con le premesse di un ragionamento con cui l’I.T.L. ha inteso espressamente contestare solo la carenza di legittimazione passiva in capo a sé, non invece la natura provvedimentale dell’atto o la giurisdizione dell’adito Tar.
7.5. Ancora, detta soluzione, spostando ogni contestazione sul provvedimento al giudizio sul rapporto di lavoro, sottrarrebbe di fatto a qualsiasi controllo il potere di diffida, il cui esercizio non è privo di conseguenze pregiudizievoli (cfr. art. 14, comma 3) per il datore che, ritenendolo illegittimamente esercitato, non vi si voglia adeguare. È evidente quindi l’inaccettabilità di una simile ricostruzione, apertamente in contrasto con l’art. 113 della Costituzione (“contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa”).
7.6. Deve quindi essere respinta l’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata dall’I.T.L., che costituisce il legittimo contradditore nella posizione di amministrazione resistente. Quanto ai privati lavoratori, indiretti beneficiari delle disposizioni impartite, appare corretta la loro qualificazione alla stregua di controinteressati.
8. Venendo al merito del ricorso, il Tribunale ritiene di partire dall’esame del terzo motivo dedotto, che riveste carattere preliminare nella parte in cui deduce che il potere di disposizione sia stato esercitato dall’I.T.L. esorbitando dai limiti fissati dall’art. 14 del d.lgs. 124 del 2004.
8.1. Il motivo appare fondato, non ritenendosi che il tipo di violazione contestata – l’inquadramento dei lavoratori in una categoria contrattuale diversa da quella asseritamente spettante, in forza delle mansioni esercitate, secondo il C.C.N.L. applicabile – rientri tra le “irregolarità (…) in materia di lavoro e legislazione sociale” che possono essere contestate dall’Ispettorato nell’esercizio del potere di disposizione. Nella consapevolezza di porsi in contrasto con la diversa lettura della disposizione fatta propria dall’I.N.L. – ed espressa dalla circolare n. 5 del 30 settembre 2020 – il Tribunale rileva che contro tale interpretazione militano una pluralità di argomenti.
9. Dal punto di vista letterale, la norma parla di “irregolarità”, termine con il quale si è soliti definire una difformità rispetto alla fattispecie legale, priva di espressa sanzione giuridica (come del resto specificato dalla stessa norma, che esclude i casi in cui le irregolarità “siano già soggette a sanzioni penali o amministrative”). Deve trattarsi, quindi, della violazione di norme c.d. “imperfette”, che al comando giuridico non accompagnino alcuna sanzione. L’adibizione del lavoratore a mansioni non corrispondenti alla categoria di inquadramento di cui al C.C.N.L. corrisponde, invece, ad una condotta di inadempimento di un obbligo di fonte legale – sancito dall’art. 2103 c.c., secondo cui “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto …” (comma 1) – e presidiato da uno speciale meccanismo di tutela, in forza del quale “nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi” (comma 7).
9.1. Sotto altro profilo, sempre nel contesto di una interpretazione letterale della disposizione, la limitazione del potere in esame ai casi di mancata previsione di “sanzioni penali o amministrative”, dovrebbe guidare anche l’interpretazione del concetto di “irregolarità … in materia di lavoro e legislazione sociale”, portando quindi a concludere che anche le irregolarità debbano rivestire analoga natura penale o amministrativa. Si riscontrerebbe, altrimenti, un difetto di coordinamento interno alla proposizione normativa, tale da ridondare in vero e proprio vizio di logicità della disposizione, ove si consideri che, proprio con riguardo alla categoria più controversa e difficilmente accertabile in sede amministrativa, cioè quella delle difformità rispetto alla fonte negoziale (individuale o collettiva), mancherebbe qualsiasi parametro delimitativo del potere.
9.2. A tutto concedere, quindi, anche un’eventuale estensione ad “irregolarità” civilistiche/contrattuali, dovrebbe comunque essere interpretata in conformità all’espresso principio di “residualità” del potere di disposizione, per cui esso è attivabile solo in mancanza di rimedi tipici. Non quindi nel caso di adibizione di fatto a mansioni superiori rispetto al proprio inquadramento, ipotesi per la quale, come visto al precedente par. 9, l’art. 2103 c.c. prevede un particolare meccanismo di tutela davanti all’a.g.o., fondato sul riconoscimento del diritto alla stabilizzazione della categoria contrattuale corrispondente alle superiori mansioni esercitate.
9.3. Ancora, la possibilità di riferire l’art. 14 del d.lgs. 124 del 2004 alle irregolarità derivanti da violazioni dei contratti collettivi, in assenza di espressa specificazione, non si concilia con il tenore testuale dell’art. 13 dello stesso d.lgs., ove la volontà di estendere il campo applicativo del diverso strumento della diffida alla “constatata inosservanza delle norme … del contratto collettivo in materia di lavoro e legislazione sociale” è espressamente sancita. La particolare natura dei contratti collettivi, atti di natura negoziale aventi però efficacia ultra partes e para-normativa, avrebbe richiesto da parte del legislatore un’esplicita considerazione anche nel contesto dell’art. 14 che, nel parlare di “lavoro e legislazione sociale” e correlate “sanzioni penali o amministrative”, sembra naturalmente riferirsi alle sole fonti di diritto oggettivo.
10. Sotto un profilo sistematico, sono evidenti le problematicità che derivano dal riconoscere cittadinanza ad un atto di disposizione siffatto. Attraverso tale provvedimento, l’Ispettorato ha sindacato l’esercizio del potere direttivo del datore, imponendogli, sotto la minaccia della sanzione pecuniaria, di dare al rapporto, in via permanente, una determinata conformazione. Ciò che la misura ha realizzato è, di fatto, l’accertamento di un rapporto giuridico tra privati in via amministrativa, per effetto di un potere unilaterale, senza le garanzie proprie della giurisdizione.
10.1. L’evidente difficoltà concettuale ad ammettere tale possibilità emerge dalle contraddittorie difese dell’Ispettorato che, pur avendo emanato il provvedimento, se ne ritiene al contempo estraneo e domanda la propria estromissione dal giudizio. A parere del Tribunale, il “disagio” dell’amministrazione nel trovarsi coinvolta in questioni interamente interprivatistiche non nasce – come l’eccezione di difetto di legittimazione passiva vorrebbe implicare – dall’erronea individuazione della controparte ad opera del ricorrente, quanto dall’abnormità di un provvedimento emanato per intervenire in via autoritativa su un rapporto contrattuale, in supplenza della parte direttamente titolare dell’interesse (il lavoratore), pur non avendo tale interesse una diretta rilevanza pubblicistica.
11. Sul piano pratico, infine, l’estensione del potere di disposizione ad ipotesi come quella in esame sarebbe fonte di non poche criticità e diseconomie. Il datore di lavoro destinatario di un ordine ex art. 14 del d.lgs. 124 del 2004, per evitarne il consolidamento e l’irrogazione della sanzione per inottemperanza, non può che contestarlo innanzi al Tar. Il giudice amministrativo si troverebbe quindi a dover pronunciare nel merito del rapporto di lavoro, senza efficacia di giudicato (e nel contesto di un rito interamente documentale, non concepito per questa tipologia di controversie), trattandosi di “questione incidentale relativa a diritti … la cui risoluzione è necessaria per pronunciale sulla questione principale” (art. 8, comma 1 c.p.a.), cioè sulla legittimità del provvedimento di diffida.
11.1. Al contempo il lavoratore, anche a fronte di un esito “favorevole” (in via riflessa) del giudizio amministrativo, non troverebbe adeguata tutela qualora il datore persista nell’inottemperanza e decida di assoggettarsi alla sanzione, senza modificare l’inquadramento contrattuale in conformità all’ordine di disposizione. Egli dovrebbe infatti necessariamente agire di fronte al giudice naturale (il Tribunale in funzione di giudice del lavoro), l’unico in grado di intervenire in via diretta sul rapporto giuridico, chiedendo il riconoscimento della diversa qualifica spettante secondo il C.C.N.L. e il pagamento delle conseguenti differenze retributive.
11.2. Il provvedimento di disposizione, applicato per contestare la categoria di inquadramento, si rileva quindi, strumento del tutto ineffettivo sul piano della tutela dell’interesse del lavoratore e al contempo inefficiente dal punto di vista dell’uso delle risorse amministrative e giurisdizionali, in palese contrasto con la propria ratio. Lo strumento rischierebbe inoltre di provocare la frequente sovrapposizione di attività processuale sul medesimo oggetto, da parte di giudici appartenenti a diverse giurisdizioni, con un evidente spreco di risorse e con il rischio di pronunce tra loro contrastanti.
12. Per le ragioni esposte, si ritiene che il provvedimento sia viziato da eccesso di potere, per avere l’amministrazione agito oltre i limiti del potere di disposizione di cui all’art. 14 del d.lgs. 124 del 2004, con conseguente annullamento.
12.1. Rimangono assorbiti gli altri motivi di ricorso.
12.2. La novità della questione giustifica la compensazione delle spese di lite.
P.Q.M.
Definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, così dispone:
Dichiara la carenza di legittimazione passiva del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Accoglie il ricorso e, per l’effetto, annulla i provvedimenti impugnati.
Compensa integralmente le spese di lite.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità.
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