TRIBUNALE DI BERGAMO – Ordinanza 27 giugno 2018, n. 169
Processo penale – Divieto di un secondo giudizio – Inapplicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti di un imputato già condannato per gli stessi fatti a sanzione amministrativa – Codice di procedura penale, art. 649
Premesso che
l’attuale imputato veniva chiamato a rispondere – nella qualità di contribuente in proprio – del delitto di omesso versamento IVA relativamente al periodo d’imposta 2011 per l’importo di euro 282.495,76; fin dalla prima udienza dibattimentale utile dopo la regolare costituzione delle parti, il difensore dell’imputato produceva memoria e documentazione atta a dimostrare la conclusione del procedimento amministrativo – tributario, con emissione e notifica di cartella esattoriale relativa alla somma omessa oltre a interessi e sanzioni (queste ultime pari a euro 84.748,74), nonché la rateizzazione chiesta e ottenuta dal M., in quel momento in corso di pagamento; chiedeva pertanto a questo giudice di sollevare questione interpretativa pregiudiziale alla Corte di giustizia avente ad oggetto la conformità al diritto comunitario dell’art. 10-ter in contestazione, nella parte in cui consente di procedere alla valutazione della responsabilità penale di un soggetto il quale, per lo stesso fatto, sia già stato destinatario di sanzione amministrativa irrevocabile di cui all’art. 13 decreto legislativo n. 471/1997. Con ordinanza in data 16 settembre 2015 questo giudice disponeva il rinvio degli atti alla Corte di giustizia dell’Unione europea, formulando la seguente questione pregiudiziale di interpretazione del diritto dell’Unione: «se la previsione dell’art. 50 CDFUE, interpretato alla luce dell’art. 4 prot. n. 7 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e della relativa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, osti alla possibilità di celebrare un procedimento penale avente ad oggetto un fatto (omesso versamento IVA)
per cui il soggetto imputato abbia riportato sanzione amministrativa irrevocabile.». Dopo vari «incidenti» processuali innanzi la Corte (1) , la Grande Sezione si pronunciava con sentenza in data 20 marzo 2018 come da parte dispositiva che segue: «L’art. 50 della CDFUE deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale in forza della quale è possibile avviare procedimenti penali a carico di una persona per omesso versamento IVA qualora a tale persona sia già stata inflitta, per i medesimi fatti, una sanzione amministrativa definitiva di natura penale ai sensi del citato art. 50, purché siffatta normativa:
sia volta a un obiettivo di interesse generale tale da giustificare un simile cumulo di procedimenti e di sanzioni, vale a dire la lotta ai reati in materia di imposta sul valore aggiunto, fermo restando che detti procedimenti e dette sanzioni devono avere scopi complementari;
contenga norme che garantiscano una coordinazione che limiti a quanto strettamente necessario l’onere supplementare che risulta, per gli interessati, da un cumulo di procedimenti, e preveda norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni imposte sia limitato a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità del reato di cui si tratti, con la precisazione che «spetta al giudice nazionale accertare, tenuto conto del complesso delle circostanze del procedimento principale, che l’onere risultante concretamente per l’interessato dall’applicazione della normativa nazionale in discussione nel procedimento principale e dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni che la medesima autorizza non sia eccessivo rispetto alla gravità del reato commesso».
Ricevuti gli atti dalla Corte, il procedimento veniva riassunto con decreto in data 30 marzo 2018 e all’udienza del 16 maggio 2018 il giudice, verificato che la rateizzazione non era stata completata per inadempimento di alcune rate (2) , udite le conclusioni delle parti, si riservava la decisione.
Tanto premesso, il Tribunale ritiene di sollevare, in riferimento agli articoli 3 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), protocollo concernente l’estensione della lista dei diritti civili e politici, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98, questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti di imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dei relativi protocolli.
Le norme costituzionali richiamate come parametro del giudizio di legittimità rilevano sotto due profili distinti. L’art. 117, comma 1 della Costituzione rileva nella misura in cui eleva a norma di rango costituzionale la norma interposta discendente dall’interpretazione della disposizione dell’art. 50 CDFUE fornita dalla Corte di giustizia. Vi è poi l’ulteriore ed autonomo profilo della conformità dell’art. 649 codice di procedura penale rispetto all’art. 3 della Costituzione, declinato come principio di ragionevolezza intrinseca dell’ordinamento come da costante giurisprudenza di codesta Corte.
Ciò in quanto:
sulla base della sentenza emessa dalla Corte di giustizia non sono in discussione, nel caso di specie, né l’effettiva natura penale della sanzione amministrativa irrogata né l’idem factum.
Quanto al primo profilo nella sentenza si fa espressa menzione dei cosiddetti Engel Criteria (richiamati sulla scorta della giurisprudenza comunitaria successiva), in relazione ai quali appare certo che la sanzione inflitta in via amministrativa abbia capacità preventive, repressive ed afflittive tali da giustificarne la natura di sanzione penale, pur demandando la valutazione finale circa la sua proporzionalità al giudice del rinvio. Ben più rilevante è però il profilo della identità del fatto. Sul punto è anzitutto la Corte a ricondurre all’«identità dei fatti materiali» (3) in trattazione, pur sempre subordinandone la definitiva qualificazione al giudice del rinvio. Ed invero è proprio sulla valutazione dell’intriseca identità che il Tribunale intende argomentare (infra);
non è invece affatto certo, alla luce delle statuizioni della Corte di giustizia, se dall’affermazione della natura penale della sanzione amministrativa irrogata consegua l’attribuzione della natura penale anche al procedimento amministrativo sotteso, posto che una chiara indicazione in tal senso da parte della Corte, assurgendo ad interpretazione estensiva della norma interposta dell’art. 50 CDFUE, avrebbe invece consentito l’applicazione diretta dell’art. 649 codice di procedura penale attraverso una lettura convenzionalmente e costituzionalmente orientata di detta disposizione;
la valutazione, rimessa dalla Corte di giustizia al giudice nazionale, delle condizioni che legittimano una normativa nazionale in forza della quale è possibile avviare procedimenti penali a carico di una persona per omesso versamento IVA qualora a tale persona sia già stata inflitta, per i medesimi fatti, una sanzione amministrativa definitiva di natura penale, in casi come quello di specie deve risolversi nel senso dell’eccessività dell’onere – rispetto alla gravità del reato – risultante concretamente per l’interessato dall’applicazione della normativa nazionale e dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni che la medesima autorizza;
Tale eccessiva onerosità produce peraltro un’ingiustificata disparità di trattamento, specialmente se rapportata al quadro sanzionatorio delle fattispecie originarie del decreto legislativo n. 74/2000 (infra), nonché un problema di ragionevolezza intrinseca dell’ordinamento;
l’art. 649 codice di procedura penale, enunciando il divieto di un secondo giudizio penale per il medesimo fatto, opera solo se l’imputato è stato già giudicato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili, presuppone cioè la formazione di un giudicato penale; neppure appare possibile superare la previsione letterale della disposizione con un’interpretazione costituzionalmente orientata o applicare in via analogica l’art. 649 c.p.p. (4)
Il procedimento penale pende nei confronti di un imputato del reato previsto dall’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), per avere omesso di versare, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, regolarmente presentata per l’anno 2011; secondo la dichiarazione presentata dall’imputato, l’IVA dovuta per quell’anno ammontava a euro 282.495,76 e dunque è superiore alla soglia di punibilità ancorché recentemente innalzata ad euro 250.000 dal decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158.
La medesima omissione costituisce illecito tributario ed è sanzionata in via amministrativa dall’art. 13, comma primo, decreto legislativo n. 471 del 1997, che punisce con sanzione amministrativa pecuniaria l’omesso versamento periodico dell’imposta entro il mese successivo a quello di maturazione del debito mensile IVA. A tale titolo l’imputato è già stato destinatario della sanzione amministrativa di euro 84.748,74, pari a oltre il 30 per cento dell’imposta evasa. La sanzione, contenuta nella cartella esattoriale notificata in data 6 novembre 2013, è stata irrogata in via definitiva, non sono stati esperiti ricorsi contro l’avviso di accertamento e in data 6 maggio 2014 l’imputato otteneva da Equitalia la rateizzazione della somma evasa e delle relative sanzioni, che iniziava a pagare; il procedimento penale si instaurava solo in epoca successiva, con decreto di citazione diretta a giudizio in data 13 novembre 2014 (l’avviso di conclusione indagini ex art. 415-bis codice di procedura penale è del 5 maggio 2014, dunque praticamente coevo all’accoglimento della richiesta di rateizzazione).
Gli articoli 19, 20 e 21 del decreto legislativo n. 74 del 2000, intesi a prevenire sul piano sostanziale la duplicazione delle sanzioni, non impediscono (come risulta evidente dal caso in esame) l’avvio del procedimento penale pur dopo che la sanzione tributaria amministrativa è divenuta definitiva. L’art. 19 del decreto legislativo n. 74 del 2000 infatti stabilisce che quando il medesimo fatto è punito in quanto reato ai sensi del Titolo II del decreto legislativo n. 74 del 2000, e in quanto illecito amministrativo, deve essere applicata la sola disposizione speciale, che è quella penale.
Questa regola, in base all’art. 21 stesso decreto, non impedisce che il procedimento amministrativo finalizzato all’applicazione della sanzione e il processo tributario siano avviati e se del caso conclusi, posto che la legge esclude che essi siano sospesi a causa della pendenza del procedimento penale (cosiddetto sistema del doppio binario): la sanzione amministrativa è irrogata in ogni caso, ma non può essere eseguita salvo che il procedimento penale sia definito con provvedimento di archiviazione, o sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con una formula che esclude la rilevanza penale del fatto (art. 21, comma 2, del decreto legislativo n. 74 del 2000). Poiché l’art. 649 codice di procedura penale non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio a materia diversa da quella penale, si postula dunque, sul piano processuale, che il giudizio penale debba essere celebrato nonostante la definitività della sanzione amministrativa già inflitta.
Ciò che in questa sede si vuole particolarmente sottolineare è che il sistema del doppio binario testè illustrato si applica a tutti i reati tributari contenuti nel decreto in discussione, indipendentemente cioè dalla circostanza che il procedimento penale e quello amministrativo abbiano ad oggetto un «idem factum».
A tale proposito si osserva quanto segue. L’intervento penale nel settore tributario dell’anno 2000 è ispirato alla logica di colpire comportamenti infedeli, strumentali all’omesso o ridotto pagamento dell’imposta e idonei a trarre in inganno l’Amministrazione finanziaria circa il corretto adempimento dell’obbligazione pecuniaria. Il legislatore, nel concentrare la sua attenzione sulla veridicità delle dichiarazioni, ha ribadito la volontà di eleggere ad oggetto immediato della tutela penale non tanto l’interesse fiscale, quanto la funzione di accertamento che le infedeltà del contribuente rischiano di compromettere. In altri termini, ciò che si è voluto punire non è tanto il mancato versamento del tributo (accadimento che, nell’elemento oggettivo delle fattispecie originariamente inserite nel decreto, di regola non è nemmeno preso in considerazione), quanto il potenziale lesivo insito nella presentazione di dichiarazioni mendaci, idonee ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria sulla stessa legittimità di versamenti eventualmente incompleti od omessi. Il bene giuridico tutelato è l’interesse dello Stato alla percezione dei tributi; ma certamente la scelta del legislatore – con riferimento ai delitti contenuti nella formulazione originaria – è stata quella di punire l’aggressione indiretta a tale bene, di punire cioè quelle condotte che, contrastando l’accertamento, pongono in pericolo l’esatta percezione del tributo. Dunque, le fattispecie originarie presentano caratteristiche comuni: sono reati di pericolo, a dolo specifico, e presuppongono l’impiego di mezzi decettivi da parte del contribuente (dichiarazione fraudolenta o infedele di cui agli articoli 2, 3 e 4, omessa dichiarazione di cui all’art. 5, emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti di cui all’art. 8, occultamento o distruzione di documenti contabili di cui all’art. 10, sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte di cui all’art. 11). Diversa struttura presentano invece gli articoli 10-bis e 10-ter, norme inserite successivamente – la prima con legge n. 311/04, la seconda con legge n. 248/2006 – che prevedono un’aggressione diretta all’interesse tutelato, e cioè il mancato pagamento del tributo o della ritenuta; in questi casi non si pone in discussione la correttezza del contesto dichiarativo in base al quale le somme sono dovute, ed anzi le somme in discussione sono proprio quelle oggetto di dichiarazione; la condotta sanzionata è l’omesso pagamento, e si tratta di reati istantanei di danno, a dolo generico, consistente nella semplice consapevolezza e volontà dell’omissione. In altre parole ciò che preme sottolineare è la sostanziale natura non plurioffensiva della condotta di omesso versamento sulla quale, diversamente dalle condotte sottese a fattispecie dalla caratura decettiva, si innesta la ravvisata duplicazione del procedimento e della sanzione, atteso che la rafia punitiva degli articoli 10-bis e 10-ter risiede esclusivamente nella protezione dell’interesse economico diretto dell’Erario, interesse tutelato anche dalla sanzione amministrativa. Questo significa che la coincidenza fattuale sulla quale valutare la sussistenza del bis in idem sostanziale non solo origina dall’intrinseca univocità materiale e temporale della condotta di omesso versamento, ma è altresì sorretta dalla circostanza che tra la sanzione amministrativa e penale previste dal nostro ordinamento intercorre la medesima ratio punitiva.
E’ dunque la perfetta identità (naturalistica, giuridica e di politica criminale) tra il delitto di omesso versamento e il correlativo illecito amministrativo commessi dalla stessa persona fisica che impone di non ritenere verificate le condizioni cui la Corte di giustizia – con la sentenza pronunciata nel caso che qui occupa, evidentemente ispirata alla pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo A e B c. Norvegia del 15 novembre 2016 – subordina il giudizio di conformità del sistema del doppio binario all’art. 50 della CDFUE; infatti, nel caso di reati di omesso versamento:
1) manca il requisito della complementarietà dello scopo, in quanto i due procedimenti (penale e amministrativo) e le due sanzioni hanno uno scopo identico («…purché la normativa nazionale … sia volta a un obiettivo di interesse generale tale da giustificare un simile cumulo di procedimenti e di sanzioni, vale a dire la lotta ai reati in materia di imposta sul valore aggiunto, fermo restando che detti procedimenti e dette sanzioni devono avere scopi complementari);
2) manca ogni aspetto diverso della condotta (5) ;
3) la normativa nazionale non contiene norme che garantiscano una coordinazione che limiti a quanto strettamente necessario l’onere supplementare che risulta, per gli interessati, da un cumulo di procedimenti, né prevede norme idonee a garantire che la severità del complesso delle sanzioni imposte sia limitato a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità del reato. Va infatti ribadito che l’ordinamento nazionale dispone forme di coordinamento tra il processo amministrativo-tributario e quello penale (articoli 19, 20 e 21 del decreto legislativo n. 74/2000), senza tuttavia garantire – come richiede la Corte di giustizia – che tali norme, neppure combinate o interpretate sistematicamente, escludano in concreto la possibilità di una duplicazione procedimentale e sanzionatoria soprattutto quando, come nel caso di specie, i due procedimenti non si instaurino contestualmente o comunque non si sviluppino parallelamente e non abbiano ad oggetto frazioni diverse di condotta.
Dunque nel caso di specie è propriamente – non già la mancanza degli indici fattuali di A e B c. Norvegia ma – la coincidenza antologica e finalistica delle due vicende processuali che preclude logicamente la possibilità di effettuare la valutazione preliminare indicata nella più volte richiamata sentenza di codesta Corte n. 43 del 2018.
Va infine segnalato che lo stesso Avvocato generale, in fase di conclusioni dinanzi alla Corte di giustizia, riteneva «che un caso come quello del sig. M. non sia riconducibile alla giurisprudenza elaborata» nella sentenza A e B c. Norvegia, rilevando l’insussistenza dei caratteri della complementarietà e del coordinamento summenzionati (6) , sicché i due procedimenti si sarebbero instaurati, a suo giudizio, indebitamente stante l’assenza di un ragionevole raccordo temporale e sanzionatorio.
In conclusione, ritiene questo giudice che nel caso di specie la preventiva definitività del procedimento amministrativo – tributario e l’irrogazione della relativa sanzione avente natura penale determina l’insorgere di una lacuna ordinamentale, che non può essere colmata per mezzo dell’art. 649 codice di procedura penale a causa del suo tenore letterale.
(1) In particolare vanno segnalati l’originaria riunione con altro procedimento, la successiva separazione e la trasmissione dalla IV Sezione della Corte, cui la domanda era in origine assegnata, alla Grande Sezione.
(2) In caso contrario, sarebbe stata operativa la causa di non punibilità introdotta all’art. 13 decreto legislativo n. 74/2000 dal decreto legislativo n. 158/2015 con conseguente automatico giudizio di irrilevanza della questione oggi sollevata.
(3) Par. 38 sentenza CGUE.
(4) Codesta Corte si è cosi testualmente pronunciata, nella sentenza n. 43 del 2018 avente ad oggetto una questione sovrapponibile a quella oggi sollevata: «…La lettera e la ratio dell’art. 649 codice di procedura penale escludono che, in difetto di una pronuncia di illegittimità costituzionale, tale disposizione sia idonea a regolare il caso del giudizio a quo, come il rimettente ha posto in luce…».
(5) Così testualmente codesta Corte riassumeva il dictum della citata sentenza A e B / Norvegia: «…Con la sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, la grande camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha impresso un nuovo sviluppo alla materia di cui si discute. La rigidità del divieto convenzionale di bis in idem, nella parte in cui trova applicazione anche per sanzioni che gli ordinamenti nazionali qualificano come amministrative, aveva ingenerato gravi difficoltà presso gli Stati che hanno ratificato il Protocollo n. 7 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, perché la discrezionalità del legislatore nazionale di punire lo stesso fatto a duplice titolo, pur non negata dalla Corte di Strasburgo, finiva per essere frustrata di fatto dal divieto di bis in idem. Per alleviare tale inconveniente la Corte europea dei diritti dell’uomo ha enunciato il principio di diritto secondo cui il ne bis in idem non opera quando i procedimenti sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto («sufficiently closely connected in substance and in time»), attribuendo a questo requisito tratti del tutto nuovi rispetto a quelli che emergevano dalla precedente giurisprudenza.
In particolare la Corte di Strasburgo ha precisato (paragrafo 132 della sentenza A e B contro Norvegia) che legame temporale e materiale sono requisiti congiunti: che il legame temporale non esige la pendenza contemporanea dei procedimenti, ma ne consente la consecutività, a condizione che essa sia tanto più stringente, quanta più si protrae la durata dell’accertamento;
che il legame materiale dipende dal perseguimento di finalità complementari connesse ad aspetti differenti della condotta, dalla prevedibilità della duplicazione dei procedimenti, dal grado di coordinamento probatorio tra di essi, e soprattutto dalla circostanza che nel commisurare la seconda sanzione si possa tenere conto della prima, al fine di evitare l’imposizione di un eccessivo fardello per lo stesso fatto illecito. Al contempo, si dovrà valutare anche se le sanzioni, pur convenzionalmente penali, appartengano o no al nocciolo duro del diritto penale, perché in caso affermativo si sarà più severi nello scrutinare la sussistenza del legame e più riluttanti a riconoscerlo in concreto…»
(6) «…tutto sembra indicare che vi sia stata una nella separazione tra il procedimento amministrativo sanzionatorio e il procedimento penale…» cfr. pag. 33 delle conclusioni dell’Avvocato generale.
P.Q.M.
In composizione monocratica,
Visto l’art. 23 della legge n. 87/1953,
ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza, sottopone all’ecc.ma Corte costituzionale questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, per contrasto con l’art. 117, primo comma Cost. in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti di imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dei relativi protocolli;
Sospende il giudizio in corso e dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
Visto l’art. 159, comma I, n. 2) c.p.;
Sospende il corso della prescrizione.
Ordina che la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
Della presente ordinanza è data lettura alle parti in udienza.
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