TRIBUNALE DI BERGAMO – Ordinanza 29 gennaio 2021, n. 113
Straniero – Reddito di inclusione (ReI) – Requisiti di residenza e di soggiorno – Previsione per i richiedenti, cittadini di paesi terzi, del possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. – Decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), art. 3, comma 1, lettera a), numero 1)
Convenuto
Il giudice, sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 19 gennaio 2021, sul ricorso promosso ai sensi dell’art. 28, decreto legislativo n. 150/11, osserva quanto segue:
la ricorrente, cittadina boliviana soggiornante in Italia dal 2010, il 6 marzo 2018 ha presentato domanda cartacea finalizzata ad ottenere il reddito di inclusione.
Tale domanda è stata respinta dal Comune di Bergamo, non essendo stata inoltrata con modalità telematiche, nonchè per il mancato possesso del permesso di lungo periodo.
La C C ha chiarito di non essere stata in grado di presentare la domanda telematicamente, in quanto il sistema non le consentiva di procedere se non dichiarando (falsamente) di essere titolare di permesso di lungo periodo.
La ricorrente, nel riferire di essere in possesso di tutti i requisiti previsti dal decreto legislativo n. 147/17 per beneficiare del reddito di inclusione, ad eccezione del permesso di lungo periodo, eccepiva in questa sede l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, decreto legislativo n. 147/17 nella parte in cui prevede che i cittadini di nazionalità extra UE debbano essere titolari, per l’accesso al beneficio, di un permesso di soggiorno di lungo periodo.
Il Comune di Bergamo, costituitosi in giudizio, nel ribadire che la domanda era stata respinta in quanto non presentata mediante lo sportello web, nonchè per il mancato possesso di un permesso di soggiorno di lungo periodo, contestava la riconducibilità della prestazione alla Direttiva 2011/18, in quanto la finalità (contrasto alla povertà) della norma incriminata non sarebbe inclusa nell’elenco dei rischi di cui all’art. 3 del Regolamento n. 883/04.
Secondo il Comune, pure la discrezionalità con cui la provvidenza viene attribuita, conservata e revocata, osterebbe alla sua riconduzione nell’alveo delle prestazioni di sicurezza sociale definite dalla giurisprudenza della CGUE.
L’INPS, costituitosi a sua volta in giudizio, dopo aver preliminarmente eccepito l’inammissibilità del ricorso, negava la sussistenza della dedotta illegittimità costituzionale della norma.
In proposito, l’Inps, nel chiarire come il reddito di inclusione sia «misura unica a livello nazionale di contrasto alla povertà ed all’esclusione sociale», ricordava come la direttiva 2011/98 non fosse stata recepita dall’ordinamento italiano e non fosse applicabile, in quanto non munita del carattere di auto-esecutività.
L’Inps escludeva comunque che il reddito di inclusione fosse riconducibile nell’alveo dell’art. 12 della Direttiva 2011/98, non appartenendo all’elenco dei rischi dell’art. 3 del regolamento CEE 833/04, anche in considerazione del fatto che il suo riconoscimento presentava elementi di discrezionalità, essendo condizionato alla sottoscrizione di un progetto personalizzato, secondo la previsione dell’art. 6, decreto legislativo n. 147/17 definito a seguito della valutazione multidimensionale del bisogno e che doveva essere sottoscritto da tutti i componenti del nucleo familiare.
Tutto ciò premesso, si osserva
Va innanzi tutto ritenuta ammissibile l’azione proposta dalla ricorrente, dovendosi sul punto evidenziare che si tratta di azione contro la discriminazione e non di azione in materia previdenziale, con conseguente inapplicabilità della disciplina di cui agli articoli 409 e 442 e seguenti del codice di procedura civile.
La domanda della sig.ra C C ha ad oggetto l’accertamento della discriminazione, la sua cessazione, la rimozione degli effetti e, quale conseguenza di ciò, l’erogazione della prestazione, che quindi rappresenta lo strumento di rimozione degli effetti della condotta ritenuta discriminatoria, per cui correttamente è stato attivato il procedimento di cui all’art. 28, decreto legislativo n. 150/11 e non l’ordinaria azione di cui agli articoli 409 e 442 e seguenti del codice di procedura civile.
Sul punto vi è ampia giurisprudenza di merito, concorde nel ritenere che quando l’azione esercitata ha ad oggetto una condotta asseritamente discriminatoria e non la concessione diretta della prestazione (sebbene questa sia comunque richiesta sotto il profilo della eliminazione degli effetti pregiudizievoli della condotta discriminatoria), non si verte nell’ambito di ricorso giurisdizionale avverso provvedimento di rigetto di prestazioni previdenziali, ma nell’ambito di un’azione del tutto diversa, che non soggiace ad alcuna preventiva domanda amministrativa nei confronti dell’Inps, convenuto in giudizio solo quale ente tenuto all’erogazione della prestazione, una volta riconosciuta la discriminatorietà della condotta (v., tra le molte, Corte App. Brescia, sent. 442/17).
Non osta, poi, all’ammissibilità del ricorso il fatto che sia stata data applicazione ad una norma di diritto positivo in quanto la nozione di discriminazione accolta dalla normativa europea e dalla legislazione nazionale è di tipo oggettivo e ha riguardo all’effetto pregiudizievole prodotto da qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, indipendentemente dalla motivazione e dall’intenzione di chi li pone in essere.
Per la soluzione della controversia è dirimente la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lett. a) punto 1) decreto legislativo n. 147/17 (vigente al momento della richiesta della prestazione) nella parte in cui limita soggettivamente l’accesso al reddito di inclusione, ai cittadini dell’Unione o loro familiare titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero ai cittadini di paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, escludendo gli stranieri in possesso di permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o per altri motivi).
La domanda di concessione del reddito di inclusione è stata presentata dalla C il 6 marzo 2018, quando la disposizione censurata era pienamente vigente, ragion per cui raccoglimento del ricorso le darebbe diritto a percepire la prestazione dal primo mese successivo a quello di presentazione della domanda (secondo quanto avviene normalmente per le prestazioni assistenziali) sino a tutto il marzo 2019, considerato che il reddito di inclusione è stato abrogato a decorrere dal 1° aprile 2019 per effetto dell’art. 11, comma 1, decreto-legge n. 4/19 che lo ha sostituito con il reddito di cittadinanza.
L’art. 13, comma l, decreto-legge n. 4/19, che ha dettato le disposizioni transitorie e di armonizzazione tra la vecchina e la nuova prestazione, ha previsto che dal 1° marzo 2019 il reddito di inclusione non poteva più essere richiesto e a decorrere dal successivo mese di aprile non era più nè riconosciuto, nè rinnovato, mentre per coloro ai quali il beneficio fosse stato riconosciuto in data anteriore al mese di aprile 2019, il beneficio avrebbe continuato ad essere erogato per la durata inizialmente prevista, fatta salva la possibilità di presentare domanda per il reddito di cittadinanza.
Di conseguenza, ribadendo che la domanda della C è del 6 marzo 2018 mentre il rigetto del Comune di Bergamo è del 21 marzo 2018, è evidente che la verifica della legittimità costituzionale della disposizione censurata deve essere effettuata avuto riguardo al momento in cui la prestazione è stata richiesta e negata dall’ente, poichè, come noto, l’accoglimento dell’azione giudiziaria comporterebbe il riconoscimento della prestazione «ora per allora» (ovvero dall’aprile 2018) e sino al momento in cui questa è stata abrogata ovvero sino a tutto il marzo 2019.
Di conseguenza, in applicazione di tale principio e di quello dettato dall’art. 13, comma 1, decreto-legge n. 4/19, il riconoscimento della prestazione «ora per allora» (ovvero a decorrere dall’aprile 2018) comporterebbe il pagamento dei retei non percepiti da tale data sino al marzo 2019 (non risultando che la ricorrente abbia presentato domanda di reddito di cittadinanza).
Peraltro, nell’ambito del presente giudizio è pacifica l’applicabilità della disposizione censurata, tant’è che negli atti di causa, nè il Comune di Bergamo, nè l’Inps hanno mai richiamato la disciplina transitoria di cui all’art. 13, decreto-legge n. 4/19, benchè questa fosse già in vigore al momento della costituzione in giudizio delle amministrazioni.
Queste ultime, nel costituirsi in giudizio, hanno solo negato che la C possegga tutti i requisiti per il riconoscimento del reddito di inclusione (in quanto priva del permesso di soggiorno di lungo periodo), ma mai hanno sostenuto che la successiva abrogazione della prestazione potrebbe determinare il rigetto della sua domanda.
In altri termini, le difese svolte nel presente giudizio rendono manifesto quanto già sopra chiarito, ovvero che la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma condurrebbe al riconoscimento della prestazione a favore della ricorrente (entro i limiti temporali individuati dal legislatore).
Del resto, si tratta di principi già affermati dalla Suprema Corte con riferimento a situazioni assimilabili.
Ad esempio, riguardo al decreto-legge n. 113/18 che ha abrogato la protezione umanitaria e il relativo permesso di soggiorno, la cassazione civile, con la sentenza n. 4890/19 ha stabilito il principio di diritto secondo cui la novella «non trova applicazione in relazione alle domande di riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge» (cass. civ., sez. I., 4890/19).
Tant’è che qualora venga accerta la sussistenza dei presupposti per il permesso umanitario sulla base delle norme abrogate, «farà seguito il rilascio da parte del Questore di un permesso di soggiorno contrassegnato dalla dicitura “casi speciali” e soggetto alla disciplina e all’efficacia temporale prevista dall’art. 1, comma 9, di detto decreto legge», così esplicitando in maniera chiarissima che la sussistenza dei requisiti del diritto azionato in base ad una norma successivamente abrogata deve essere effettuata con riferimento alla normativa vigente al momento della domanda (quindi prima della sua successiva eliminazione dall’ordinamento).
Del resto, dal tenore degli articoli 11 e 13, decreto-legge n. 4/19 si evince chiaramente che l’abrogazione del reddito di inclusione non è stata disposta con efficacia retroattiva, ma solo a decorrere dal 1° aprile 2019, secondo la previsione dell’art. 11, decreto-legge n. 4/19.
Coerentemente, l’art. 13, primo comma, decreto-legge n. 4/19 ha esplicitato che a decorrere dal 1° marzo 2019 il beneficio non poteva più essere richiesto, ma veniva fatto salvo quello che fosse stato riconosciuto in data anteriore all’aprile 2019, che avrebbe continuato «ad essere erogato per la durata inizialmente prevista, fatta salva la possibilità di presentare domanda per il reddito di cittadinanza».
Per quanto attiene invece alla rilevanza della questione di costituzionalità, occorre chiarire come non siano in discussione tutti gli altri requisiti per l’accesso al beneficio, essendo controverso solo l’aspetto inerente all’estensione soggettiva del beneficio medesimo, posto che la ricorrente, non cittadina italiana, nè comunitaria, è priva di permesso di soggiorno di lunga durata.
La C , al momento della domanda, risultava residente in Italia, in via continuativa, da almeno due anni e sussistevano, altresì, il requisito di cui all’art. 3, comma 1, lett. b), decreto legislativo n. 147/17, relativo alla condizione economica del richiedente, nonchè quello di cui all’art. 2, comma 1, lett. a), decreto legislativo n. 147/17 essendovi nel nucleo familiare un componente di età minore di anni 18 (tutte circostanze documentate e comunque non contestate dalle parti convenute).
Nè rileva il fatto che la domanda sia stata presentata in forma cartacea, anzichè telematicamente, trattandosi solo di irregolarità formale, peraltro imputabile alla strutturazione del sistema, che non incide sul riconoscimento della prestazione, ove sussista il diritto.
L’art. 2, comma 2, decreto legislativo n. 147/17 definisce il «ReI» come «una misura a carattere universale, condizionata alla prova dei mezzi e all’adesione a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa finalizzato all’affrancamento dalla condizione di povertà» e la «povertà», nella definizione offerta dall’art. 1, comma 1, lett. a), decreto legislativo n. 147/17, è quella «condizione del nucleo familiare la cui situazione economica non permette di disporre dell’insieme di beni e servizi necessari a condurre un livello di vita dignitoso, come definita, ai soli fini dell’accesso al reddito di inclusione, all’articolo 3».
Il richiamato articolo 3, decreto legislativo n. 147/17, in ordine alla condizione economica necessaria per l’accesso al beneficio, prevede che il nucleo familiare del richiedente debba «essere in possesso congiuntamente di: 1) un valore dell’ISEE, in corso di validità, non superiore ad euro 6.000; 2) un valore dell’ISRE non superiore ad euro 3.000; 3) un valore del patrimonio immobiliare, diverso dalla casa di abitazione, non superiore ad euro 20.000; 4) un valore del patrimonio mobiliare, non superiore ad una soglia di euro 6.000, accresciuta di euro 2.000 per ogni componente il nucleo familiare successivo al primo, fino ad un massimo di euro 10.000; 5) un valore non superiore alle soglie di cui ai numeri l e 2 relativamente all’ISEE e all’ISRE riferiti ad una situazione economica aggiornata nei casi e secondo le modalità di cui agli articoli 10 e 11; c) con riferimento al godimento di beni durevoli e ad altri indicatori del tenore di vita, il nucleo familiare deve trovarsi congiuntamente nelle seguenti condizioni: 1) nessun componente intestatario a qualunque titolo o avente piena disponibilità di autoveicoli, ovvero motoveicoli immatricolati la prima volta nei ventiquattro mesi antecedenti la richiesta, fatti salvi gli autoveicoli e i motoveicoli per cui è prevista una agevolazione fiscale in favore delle persone con disabilità ai sensi della disciplina vigente; 2) nessun componente intestatario a qualunque titolo o avente piena disponibilità di navi e imbarcazioni da diporto di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 18 luglio 2005, n. 171».
La condizione di povertà e di bisogno economico deve essere integrata dalla sussistenza di un altro requisito, rappresentato dalla presenza, nel nucleo familiare, di almeno una delle seguenti condizioni: «a) presenza di un componente di età minore di anni 18; b) presenza di una persona con disabilità e di almeno un suo genitore ovvero di un suo tutore; c) presenza di una donna in stato di gravidanza accertata. La documentazione medica attestante lo stato di gravidanza e la data presunta del parto è rilasciata da una struttura pubblica e allegata alla richiesta del beneficio, che può essere presentata non prima di quattro mesi dalla data presunta del parto; d) presenza di almeno un lavoratore di età pari o superiore a 55 anni, che si trovi in stato di disoccupazione» (art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 147/17).
In tema di diritti essenziali, la Corte costituzionale ha già avuto modo di chiarire che la valutazione in termini di «essenzialità» della prestazione deve essere effettuata «alla luce della configurazione normativa e della funzione sociale» che questa è chiamata a svolgere nel sistema, verificando se «integri o meno un rimedio destinato a consentire il concreto soddisfacimento dei “bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana, che è compito della Repubblica promuovere e salvaguardare;
rimedio costituente, dunque, un diritto fondamentale perchè garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto. D’altra parte, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha sottolineato come, “in uno Stato democratico moderno, molti individui, per tutta o parte della loro vita, non possono assicurare il loro sostentamento che grazie a delle prestazioni di sicurezza o di previdenza sociale”.
Sicchè, “da parte di numerosi ordinamenti giuridici nazionali viene riconosciuto che tali individui sono bisognosi di una certa sicurezza e prevedono, dunque, il versamento automatico di prestazioni, a condizione che siano soddisfatti i presupposti stabiliti per il riconoscimento dei diritti in questione” (la già citata decisione sulla ricevibilita del 6 luglio 2005, Staic ed altri contro Regno Unito). Ove, pertanto, si versi in tema di provvidenza destinata a far fronte al “sostentamento” della persona, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio sancito dall’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, avuto riguardo alla relativa lettura che, come si è detto, è stata in più circostanze offerta dalla Corte di Strasburgo.» (così, in motivazione, Corte costituzionale sent. 187/2010). Non v’è dubbio che il reddito di inclusione, in quanto «finalizzato all’affrancamento dalla condizione di povertà» debba essere iscritto tra i diritti essenziali nei limiti e per le finalità, appunto essenziali, che la Corte costituzionale – anche alla luce degli enunciati della Corte di Strasburgo – «ha additato come parametro di ineludibile uguaglianza di trattamento tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato» (così, in motivazione, Corte costituzionale sent. 187/2010).
A ciò non è ostativo il fatto che non si tratti di prestazione di invalidità, in quanto il nucleo dei diritti essenziali deve essere certamente delineato con riguardo all’attuale e mutato contesto economico/sociale, tale, come sopra evidenziato, da indurre il legislatore ad introdurre prestazioni nuove, finalizzate a fronteggiare la situazione di vera e propria povertà che colpisce numerosi nuclei familiari.
Per tali ragioni, come correttamente evidenziato dalla ricorrente, il diritto ad un’esistenza libera e dignitosa è oggi precondizione del lavoro e non viceversa, per cui in quest’ottica si deve oggi procedere ad una lettura coordinata degli articoli 2, 3 e 38 Costituzione.
Nell’odierno sistema economico/sociale il lavoro, molto spesso, non è più sufficiente ad assicurare agli individui un’esistenza libera e dignitosa e per tale ragione lo Stato interviene sempre di più con misure di sostegno e supporto. Già nella decisione n, 40/2013 la Corte costituzionale ha ribadito, sulla scorta di precedenti pronunce, che nel caso «di provvidenze destinate al sostentamento della persona nonchè alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili per il contesto familiare (…) – qualsiasi discrimina fra cittadini e stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi da quelli previsti per la generalità dei soggetti, finisce per risultare in contrasto con il principio di non discriminazione di cui all’art. 14 della CEDO, avuto riguardo alla interpretazione rigorosa che di tale norma è stata offerta dalla giurisprudenza della Corte europea».
Infine, che la condizione di «povertà» impedisca il godimento dei diritti essenziali è un dato di fatto, tant’è che, pur nella novità delle previsioni di cui al decreto legislativo n. 147/17, in molteplici disposizioni, tanto costituzionali, quanto legislative affiora il concetto di povertà economica come elemento ostativo al godimento di diritti fondamentali, e che lo Stato cerca di contrastare, attraverso il principio di solidarietà, anche economica, di cui all’art. 2 Costituzione.
È stato correttamente osservato in dottrina come la povertà economica compaia in molteplici previsioni costituzionali, primo fra tutti l’art. 3, comma 2, Costituzione, che identifica anche negli ostacoli «di ordine economico» le barriere da rimuovere.
Ai «non abbienti» l’art. 24, comma 3, Costituzione assicura, «con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi in giudizio».
La formazione della famiglia e l’adempimento dei conseguenti compiti sono agevolati, secondo l’art. 31, primo comma, Costituzione «con misure economiche e altre provvidenze», mentre «cure gratuite» sono garantite «agli indigenti» dall’art. 32, primo comma, Costituzione.
L’inabilità al lavoro, tale da impedire il conseguimento dei mezzi necessari per vivere, determina, in base all’art. 38, primo comma, Costituzione il «diritto al mantenimento e all’assistenza sociale» e «mezzi adeguati alle loro esigenze di vita» sono assicurati dal secondo comma del medesimo art. 38 Costituzione ai lavoratori colpiti da infortuni, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria.
La Costituzione è quindi intrisa di disposizioni che si pongono l’obiettivo di contrastare la povertà economica, ovvero quella condizione di assenza dei mezzi finanziari tale da impedire l’esercizio dei diritti fondamentali e di godere, conseguentemente, di una esistenza libera e dignitosa.
In base a queste considerazioni non può dubitarsi che la prestazione di cui, trattasi, in quanto finalizzata «all’affrancamento dalla condizione di povertà» abbia come obiettivo quello di assicurare a determinati nuclei familiari quell’esistenza libera e dignitosa che tutti, in uno Stato democratico, dovrebbero avere, per cui certamente si tratta di prestazione interna al nucleo dei bisogni essenziali che, in quanto tale, non può subire limitazioni (tant’è che il ReI, secondo il comma 13 dell’art. 2 decreto legislativo n. 147/17 costituiva «livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, nel limite delle risorse disponibili nel Fondo Povertà»).
Pertanto, qualora lo Stato decida di erogare determinate prestazioni riconducibili nell’ambito della «essenzialità», la scelta legislativa di introdurre particolari limitazioni per il godimento di tali diritti fondamentali della persona, riconosciuti invece ai cittadini dell’Unione, è soggetta ad un vaglio di legittimità costituzionale (così, in motivazione, Corte costituzionale sent. 187/2010 nel richiamare la sua sentenza n. 306 del 2008).
Di conseguenza, per le suesposte argomentazioni la previsione dell’art. 3, decreto legislativo n. 147/17, nella parte in cui prevede, per l’accesso al ReI (reddito di inclusione), che i cittadini di nazionalità extra UE debbano essere titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo, escludendo gli stranieri in possesso di permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o per altri motivi), si pone in contrasto con i principi di cui agli articoli 2, 3, 31, 38, 117 della Costituzione, nonchè con l’art. 14 della CEDU.
In ogni caso, quandanche si trattasse di prestazione esterna al nucleo dei bisogni essenziali, la limitazione contenuta nella disposizione censurata sarebbe comunque irragionevole e quindi ancora una volta in contrasto con l’art. 3 Costituzione.
Infatti, se è vero che il legislatore può legittimamente decidere di circoscrivere la platea dei beneficiari di determinate prestazioni sociali, l’eventuale limitazione «deve pur sempre rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3 Costituzione» e «tale principio può ritenersi rispettato solo qualora esista una “causa normativa” della differenziazione, che sia “giustificata da una ragionevole correlazione tra la condizione a cui è subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio” (sentenza n. 107 del 2018). Una simile ragionevole causa normativa può in astratto consistere nella richiesta di un titolo che dimostri il carattere non episodico o di breve durata della permanenza sul territorio dello Stato: anche in questi casi, peraltro, occorre pur sempre che sussista una ragionevole correlazione tra la richiesta e le situazioni di bisogno o di disagio, in vista delle quali le singole prestazioni sono state previste (sentenza n. 133 del 2013)» (così, in motivazione, Corte costituzionale, sent. 166 del 2018).
Con la citata sentenza, la Corte costituzionale, con riferimento ad una prestazione diretta a soddisfare il soddisfacimento dei bisogni abitativi primari di una persona che versasse in condizione di povertà, ha ritenuto irragionevole il discrimina rappresentato, per gli stranieri, dalla lunga protrazione nel tempo del richiesto radicamento territoriale (sentenza n. 133 del 2013) (così, in motivazione, Corte costituzionale, sent. 166 del 2018).
Nella situazione in esame, la norma già contempla(va) il requisito del radicamento, essendo richiesto dall’art. 3, comma 1, lett. a) n. 2, decreto legislativo n. 147/17 l’essere «residente in Italia, in via continuativa, da almeno due anni al momento di presentazione della domanda», per cui l’esclusione dei cittadini extracomunitari sprovvisti del permesso di lungo soggiorno va, di fatto, a penalizzare proprio i nuclei familiari più bisognosi, tradendo l’intento dichiarato dal legislatore.
Infatti, molto spesso, i cittadini extracomunitari non riescono a richiedere il permesso di lungo soggiorno, in quanto titolari di un reddito inferiore a quello (pur basso) prescritto a tal fine dall’art. 9 T.U. immigrazione (che deve essere non inferiore all’assegno sociale, nel 2018, pari ad euro 5.824,00).
Quindi, assai di frequente i cittadini extracomunitari sprovvisti del permesso di soggiorno di lungo periodo sono più poveri e più bisognosi di quelli che ne sono provvisti, ma nonostante ciò sono stati esclusi dalla possibilità di accedere ad una misura dichiaratamente finalizzata all’inserimento sociale ed all’affrancamento dalla povertà. Nella presente situazione valgono, a maggior ragione, le argomentazioni già recentemente evidenziate dalla Corte di cassazione con l’ordinanza di rimessione n. 16164/19 relativa all’art. l, comma 125, legge n. 190/14 con cui sono stati irragionevolmente esclusi dal beneficio i nati o gli adottati tra il 1° gennaio 2015 ed il 31 dicembre 2017 da genitori cittadini extracomunitari che fruiscono di redditi non superiori ad euro 7.000,00 o ad euro 25.000,00 legalmente residenti in Italia in base ad idoneo permesso di soggiorno e lavoro, ma sprovvisti del permesso di lungo soggiornanti.
Nella fattispecie in esame la disparità di trattamento e quindi l’irragionevolezza della norma è ancor più evidente laddove, oltre a richiedersi il requisito del radicamento nello Stato Italiano attraverso i due anni di residenza continuativa, si ritiene necessario, per i cittadini extracomunitari, il permesso di lungo soggiorno, così escludendo tutti coloro che ne siano sprovvisti, spesso per ragioni di reddito, benchè residenti legittimamente da molti anni nel territorio italiano.
Neppure la disposizione oggetto di censura nel presente giudizio, al pari di quella vagliata dalla Corte di cassazione, si raccorda con la previsione dell’art. 42 decreto legislativo n. 286/98 che, in materia di assistenza sociale, riconosce la generale parità di trattamento tra i cittadini italiani e quelli extracomunitari titolari di permesso di soggiorno e lavoro validi per almeno un anno.
Come già rilevato, si tratta, pure in tal caso, di una disciplina contrastante con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Costituzione, essendo stato introdotto un elemento di distinzione arbitrario, nella mancanza di alcuna ragionevole correlazione tra la residenza protratta per il tempo necessario all’ottenimento del permesso di lungo soggiorno e la situazione di disagio economico che il legislatore ha posto alla base della provvidenza.
Nè si comprende la ragione per cui il legislatore non ha ritenuto sufficiente, quale elemento indicativo di uno stabile radicamento sul territorio, il requisito della residenza continuativa biennale, pretendendo il permesso di lungo soggiorno.
Anche il reddito di inclusione era un beneficio assai limitato nel tempo, diretto a fronteggiare una situazione contingente di bisogno, nell’ottica di un reinserimento economico/sociale, tant’è che era «riconosciuto per un periodo continuativo non superiore a diciotto mesi», non poteva essere rinnovato se non trascorsi almeno sei mesi da quando ne era cessato il godimento ed in caso di rinnovo la durata era fissata, in sede di prima applicazione, per un periodo non superiore a dodici mesi (art. 4, comma 5, decreto legislativo n. 147/17).
Nè, come evidenziato dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 16164/19, rilevano in questa sede le argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 50 del 2019 con riferimento all’assegno sociale, trattandosi di una misura differente, rivolta a chi ha compiuto 65 anni di età e che persegue finalità diverse dalla prestazione in esame che afferisce, come osservato, a bisogni primari ed essenziali della persona.
La disposizione si pone quindi in contrasto, oltre che con l’art. 3 Costituzione, con gli articoli 20, 21, 33 e 34 CDFUE che enunciano il principio di uguaglianza e di non discriminazione, garantiscono «la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale» (art. 33, 1° comma, CDFUE) e «il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni», ciò «al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà» (art. 34, comma 3, CDFUE).
A nulla rileva, inoltre, il fatto che la legge richieda un progetto personalizzato, poichè questo si colloca in una fase successiva alla sussistenza di tutti i requisiti preliminari, tra cui rientra l’aspetto relativo alla platea dei beneficiari.
Deve infine escludersi che la prestazione in esame ricada nell’ambito di operatività della direttiva 2011/18, non rientrando nell’elenco dei rischi di cui all’art. 3 del Regolamento n. 883/04.
Il regolamento si applica infatti a «tutte le legislazioni relative ai settori di sicurezza sociale riguardanti:
a) le prestazioni di malattia;
b) le prestazioni di maternità e di paternità assimilate;
c) le prestazioni d’invalidità;
d) le prestazioni di vecchiaia;
e) le prestazioni per i superstiti;
f) le prestazioni per infortunio sul lavoro e malattie professionali;
g) gli assegni in caso di morte;
h) le prestazioni di disoccupazione;
i) le prestazioni di pensionamento anticipato;
j) le prestazioni familiari (art. 3, comma 1, regolamento CEE 883/04).
Secondo l’art. 1, lett. z) del Regolamento per prestazioni familiari si intendono «tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipisugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I».
La finalità della prestazione in esame, diversamente da altre, non pare quella di compensare i carichi familiari, poichè il suo riconoscimento non è subordinato alla sussistenza di nucleo familiare numericamente consistente, ma alla situazione di povertà del nucleo familiare, che può essere semplicemente composto anche da solo due persone, come nel caso dell’art. 3, comma 2, lett. c), decreto legislativo n. 147/17 (che richiede la presenza di due sole persone, una delle quali in stato di gravidanza accertata).
Ciò che si comprende da una disamina complessiva del disposto normativo è che il reddito di inclusione aveva la chiara e dichiarata finalità di aiutare nuclei familiari in situazione di povertà ed in cui questa situazione di povertà economica si accompagnava ad una situazione di particolare svantaggio derivante dalla presenza, nel nucleo familiare, di soggetti deboli e non lavorativamente attivi, come figli minori, donne in gravidanza, disabili o disoccupati.
Non si tratta però di una misura di sostegno finalizzata a compensare carichi familiari, ma a sollevare dallo stato di bisogno nuclei familiari anche piccoli, affrancandoli dalla condizione di povertà attraverso l’erogazione di un sussidio economico e la predisposizione di un «progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa», da qui l’inapplicabilità della direttiva 2011/98.
In ogni caso, quand’anche la direttiva 2011/98 fosse applicabile, ciò non impedirebbe un vaglio di legittimità della disposizione per le motivazioni già esposte dalla Corte di cassazione con la richiamata ordinanza n. 16164/19, che si intendono qui richiamate.
Si rende quindi necessario investire la Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lett. a), n. 1), decreto legislativo n. 147/17 nella parte in cui prevede, per l’accesso al ReI (reddito di inclusione) che i cittadini di nazionalità extra UE debbano essere titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo, escludendo gli stranieri legalmente soggiornanti poichè in possesso di permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o per altri motivi), norma che, in virtù delle considerazioni sopra esposte, è rilevante nell’ambito del giudizio instaurato dalla ricorrente.
Inoltre la questione non appare manifestamente infondata, posto che la norma introduce una ingiustificata ed irragionevole discriminazione a sfavore dei cittadini di paesi terzi legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato Italiano, ma sprovvisti del permesso di lungo soggiorno, in violazione degli art. 2, 3, 31, 38, 117 della Costituzione, dell’art. 14 CEDU e degli articoli 20, 21, 33 e 34 CDFUE.
Per completezza, infine, con riferimento all’eccezione di inammissibilità della questione sollevata dall’Avvocatura dello Stato nel giudizio di fronte alla Corte costituzionale, occorre ricordare che non sarebbe la prima volta in cui la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una disposizione nazionale per aver subordinato l’erogazione di una prestazione previdenziale/assistenziale a favore di uno straniero al possesso, da parte del medesimo straniero, del permesso di soggiorno di lungo periodo (v. Corte costituzionale 306/08 in tema di indennità di accompagnamento; sent. 187/10 in tema di assegno mensile di invalidità; sent. 329/11 in tema di indennità di frequenza).
P.Q.M.
Sospende il giudizio e dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ordinando che, a cura della cancelleria, l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale sia notificata alle parti in causa, al Presidente del Consiglio dei ministri ed ai presidenti delle due Camere del Parlamento.
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