TRIBUNALE DI COSENZA – Sentenza n. 457 depositata il 16 marzo 2023
Lavoro – Conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato – Inquadramento – Modifica del livello contrattuale – Mansioni superiori – Danno da demansionamento – Licenziamento collettivo – Profilo professionale dell’educatore professionale – Svolgimento di attività lavorativa in assenza dell’abilitazione ovvero del titolo di studio abilitante – Danno professionale richiede la prova del pregiudizio, di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile – Rigetto
Svolgimento del processo e motivi della decisione
La ricorrente in epigrafe, con ricorso del 13.4.2022 ritualmente notificato, ha convenuto in giudizio la società (…) esponendo: di lavorare alle dipendenze della società convenuta dal 6.8.2008, data di assunzione con contratto di lavoro a tempo determinato, convertito in contratto a tempo indeterminato con decorrenza dal 2.1.2009; che il livello iniziale di inquadramento era il livello A del CCNL AIOP con mansioni di “addetto assistenza anziani”; che in data 1.6.2013 la società datoriale modificava il livello contrattuale, inquadrandola nel livello B del medesimo CCNL con attribuzione di mansioni di “assistente socio sanitario con funzioni educative”.
Tanto premesso, esponeva di aver disimpegnato sin dal giugno 2008 al giugno 2017 in maniera continuativa mansioni superiori di “educatore” riconducibili al superiore livello D del CCNL di categoria che ricomprende il personale della riabilitazione e, sulla base di tali allegazioni, chiedeva, previo accertamento del suo diritto all’inquadramento nel livello D con decorrenza dal 1.10.2008, la condanna della società al pagamento delle differenze retributive tra la retribuzione corrisposta (parametrata al livello A e di poi B) e quella spettante e corrispondente al superiore livello D, nell’importo calcolato nell’allegata c.t.p. (euro 51.243,05).
Inoltre, premesso che dal mese di luglio 2017, è stata adibita allo svolgimento di mansioni di cuoca di cui al livello C del CCNL Anpit, chiedeva la condanna della parte convenuta al risarcimento del danno da demansionamento (segnatamente al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali) subiti.
Resisteva al ricorso la società (…) che, premettendo l’intervenuto licenziamento della ricorrente in data 17.5.2022 all’esito di procedura di licenziamento collettivo con conseguente inammissibilità della domanda di assegnazione delle rivendicate mansioni superiori, nel merito, eccepita preliminarmente la parziale prescrizione estintiva dei diritti azionati, argomentava diffusamente in ordine all’infondatezza del ricorso instando per il suo rigetto.
Ritenuta matura per la decisione sulla base degli atti, la causa è stata decisa con la presente sentenza, depositata nel fascicolo telematico all’esito della scadenza del te1mine per il deposito di note scritte ai sensi dell’art. 127 ter c.p.c.
Il ricorso si rivela infondato e deve essere respinto per le ragioni che seguono.
Valga premettere che la difesa della parte convenuta evidenzia, in via preliminare, che il profilo professionale dell’educatore professionale richiede, per lo svolgimento della relativa attività, il possesso di specifico diploma universitario (D.M. 520/1998) e l’iscrizione nell’apposito albo professionale; evidenzia che si tratta di professione ricompresa tra quelle sanitarie della riabilitazione il cui esercizio, in difetto del titolo e dell’iscrizione nell’albo, integra il reato di abusivo esercizio della professione, come chiarito dalla circolare n. 87/2019 della Federazione nazionale degli ordini dei TSRM e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione di cui al doc. 3 allegato alla memoria. In fatto, evidenzia che la ricorrente è priva tanto del titolo di studio abilitante quanto dell’iscrizione nell’apposito albo.
L’assunto è fondato. Invero, il Decreto del Ministero della Sanità 8 ottobre 1998, n. 520 (Regolamento recante norme per l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell’educatore professionale, ai sensi dell’articolo 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502) all’art. 1 individua la figura professionale dell’educatore professionale, con il seguente profilo: l’educatore professionale è l’operatore sociale e sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, attua specifici progetti educativi e riabilitativi, nell’ambito di un progetto terapeutico elaborato da un’equipe multidisciplinare, volti a uno sviluppo equilibrato della personalità con obiettivi educativo/relazionali in un contesto di partecipazione e recupero alla vita quotidiana; cura il positivo inserimento o reinserimento psicosociale dei soggetti in difficoltà (…).
Il successivo art. 2 del D.M. in esame prescrive che il diploma universitario dell’educatore professionale, conseguito ai sensi dell’articolo 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni ed integrazioni, abilita all’esercizio della professione.
La Legge 1 febbraio 2006, n. 43, recante <Disposizioni in materia di professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione e delega al Governo per l’istituzione dei relativi ordini professionali> all’art. 1, comma 1, definisce le professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione, quali quelle previste ai sensi della legge 10 agosto 2000, n. 251, e del decreto del Ministro della sanità 29 marzo 2001, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 118 del 23 maggio 2001, i cui operatori svolgono, in forza di un titolo abilitante rilasciato dallo Stato, attività di prevenzione, assistenza, cura o riabilitazione;
Ai sensi del successivo art. 2, l’esercizio delle professioni sanitarie di cui all’articolo 1, comma 1, è subordinato al conseguimento del titolo universitario rilasciato a seguito di esame finale con valore abilitante all’esercizio della professione.
Il D.M. 29 marzo 2001 <Definizione delle figure professionali di cui all’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni, da includere nelle fattispecie previste dagli articoli 1, 2, 3 e 4, della legge 10 agosto 2000, n. 251 (art. 6, comma 1, legge n. 251/2000)>. (GU Serie Generale n.118 del 23-05-2001) all’art. 3 ricomprende nella fattispecie: “professioni sanitarie riabilitative”, tra le altre, la figura professionale educatore professionale (lettera h).
Inoltre, l’art. 4 della L. n. 3/2018 ha costituito, tra gli altri <ordini delle professioni sanitarie> quello delle professioni infermieristiche, della professione di ostetrica e dei tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione, prevedendo al che Ciascun Ordine ha uno o più albi permanenti, in cui sono iscritti i professionisti della rispettiva professione, ed elenchi per categorie di professionisti laddove previsti da specifiche norme e al comma 2 che Per l’esercizio di ciascuna delle professioni sanitarie, in qualunque forma giuridica svolto, è necessaria l’iscrizione al rispettivo albo.
Il D.M. 13 marzo 2018 (Costituzione degli Albi delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione. (GU Serie Generale n.77 del 03-04-2018), ha istituito presso gli ordini professionali, tra gli altri, l’albo della professione sanitaria di educatore professionale; prescrivendo che Per l’esercizio di ciascuna delle professioni sanitarie in qualunque forma giuridica svolto, è necessaria l’iscrizione al rispettivo albo professionale. L’iscrizione all’albo professionale è obbligatoria anche per i pubblici dipendenti, ai sensi dell’art. 2, comma 3, della legge 1° febbraio 2006, n. 43 e che, per l’iscrizione all’albo è necessario tra gli altri il requisito del possesso della laurea abilitante all’esercizio della professione sanitaria, ovvero titolo equipollente o equivalente alla laurea abilitante, ai sensi dell’art. 4 della legge 26 febbraio 1999, n. 42.
Infine, l’art. 12 della legge n. 3/2018, ha sostituito l’art. 348 del codice penale (esercizio abusivo di una professione), prevedendo che Chiunque abusivamente esercita una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 10.000 a euro 50.000.
Pertanto, l’educatore professionale rientra nelle professioni sanitarie riabilitative il cui esercizio presuppone il possesso di titolo abilitante rilasciato dallo Stato e l’iscrizione nell’apposito albo professionale.
Ed allora, in termini preliminari ed assorbenti, si richiamano i principi ripetutamente affermati dalla S.C. in tema di svolgimento di attività lavorativa in assenza dell’abilitazione ovvero del titolo di studio abilitante prescritti dalla legge.
In particolare, con arresto n. 15450/2014, seguito da conformi pronunce (n. 4342/2018, n. 8690/2018), la Corte di legittimità ha affermato che “quando per lo svolgimento di un’attività lavorativa è richiesta dalla legge un’abilitazione o un titolo di studio abilitante in ragione dell’incidenza di tale attività sulla salute pubblica o sulla sicurezza pubblica la prestazione lavorativa svolta in assenza di tale abilitazione è radicalmente affetta da illiceità atteso che è violata una regolamentazione che non riguarda solo il rapporto di impiego, ma è posta a tutela di diritti fondamentali della persona. Non vi è quindi solo nullità dell’assegnazione allo svolgimento di mansioni superiori che comunque lasci fermi, ai sensi dell’art. 2126 c.c., gli effetti del rapporto per il periodo in cui esso abbia avuto esecuzione (come criterio generale: Cass., sez. un., 26 maggio 2011, n. 11559), ma vi è l’esercizio abusivo – e quindi illecito – di mansioni per le quali la legge richiede un titolo abilitante, come per la professione medico-sanitaria. Nella specie il ricorrente è stato chiamato a svolgere illecitamente l’attività di infermiere professionale senza averne il titolo abilitante (diploma universitario, previa iscrizione all’albo professionale, che abilita all’esercizio professionale). Va quindi ribadito quanto affermato da questa Corte (Cass., sez. lav., 7 giugno 1985, n. 3432) secondo cui, qualora il contenuto e le mansioni di una qualifica discendano dalla legge professionale in ordine al possesso di un determinato titolo di studio per l’esercizio di una professione, non può considerarsi utile ai fini del conseguimento di una tale qualifica (superiore) l’espletamento di mansioni che la legge professionale stessa riservi esclusivamente a chi è in possesso di quello specifico titolo di studio, atteso che, con riferimento alla disciplina dettata dall’art. 2116 c.c., l’attività eventualmente svolta si pone come illecita perché in violazione di norme imperative attinenti all’ordine pubblico e poste a tutela della generalità dei cittadini non già del prestatore di lavoro. Cfr. anche Cass., sez. lav., 23 luglio 1983, n. 5093, secondo cui non spetta il superiore inquadramento né il diritto alla maggiore retribuzione allorché l’attività di fatto svolta dal lavoratore sia inibita da specifiche norme di legge attinenti all’ordine pubblico, e poste a tutela di valori costituzionalmente tutelati, quale il diritto alla salute. In passato – nel previgente regime del pubblico impiego – anche la giurisprudenza amministrativa era orientata nello stesso senso; Cfr. T.a.r. Lazio, sez. I, 24 settembre 1984, n. 829, secondo cui a norma dell’art. 348 c.p., la mancanza del titolo di abilitazione all’esercizio professionale, prescritto dall’art. 100, t. u. 27 luglio 1934, n. 1265, impedisce di ritenere lecita qualsiasi attività da infermiere professionale eventualmente svolta dall’infermiere generico con la conseguente insussistenza dell’obbligo dell’amministrazione di remunerazione dell’opera svolta; l’art. 2126, 1° comma c.c. esclude, infatti, esplicitamente la produzione di effetti del rapporto di lavoro di fatto quando si rilevi l’illiceità dell’oggetto di esso o della causa”.
Da ultimo, dando continuità a tale indirizzo, la SC, con sentenza n. 8690/2018, ha affermato che deve rilevarsi che per le professioni sanitarie, la carenza del titolo abilitativo specifico e della relativa iscrizione all’albo producono la totale illiceità dello svolgimento di fatto di mansioni superiori e rendono inesigibile il diritto alla corrispondente maggiore retribuzione ai sensi dell’art. 2126 cod. civ. Che, la differenza della valutazione del legislatore si apprezza nel confronto con altre professioni a rilevanza pubblicistica, quale quella giornalistica, impropriamente menzionata dai controricorrenti, dove la mancanza di licenza o abilitazione non va ad incidere sull’oggetto o sulla causa del contratto, ma si limita a caratterizzare una forma di illegalità derivante dalla carenza di un requisito estrinseco.
13. Che, d’altronde, questa Corte ha già avuto modo di evidenziare lo stretto legame esistente tra la richiesta del titolo di studio abilitante da parte della legge e l’incidenza dell’attività sanitaria sulla salute e sicurezza pubblica e sulla tutela dei diritti fondamentali della persona. Che, ribadendo un principio, peraltro consolidato nella giurisprudenza amministrativa sotto il previgente regime del pubblico impiego, ha affermato che “…qualora il contenuto e le mansioni di una qualifica discendano dalla legge professionale, in ordine al possesso di un determinato titolo di studio per l’esercizio di una professione, non può considerarsi utile ai fini del conseguimento di una tale qualifica 3 (superiore) l’espletamento di mansioni che la legge professionale stessa riservi esclusivamente a chi è in possesso di quello specifico titolo di studio, atteso che, con riferimento alla disciplina dettata dall’art. 2126 cod. civ., l’attività eventualmente svolta si pone come illecita perché in violazione di norme imperative attinenti all’ordine pubblico e poste a tutela della generalità dei cittadini non già del prestatore di lavoro.” (Cass. n.15450/2014)
14. Che, pertanto, nel caso in esame, il diritto alla maggiore retribuzione non può dirsi spettante, perchè l’attività del personale infermieristico risulta regolata da specifiche norme di legge attinenti a profili di ordine pubblico (ancora Cass. n. 15450/2014 cit.).
15. Che nella specie, erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che agli appellanti, chiamati a svolgere l’attività di infermiere professionale senza averne il titolo abilitante (diploma universitario, iscrizione all’albo professionale per l’abilitazione all’esercizio della professione), spettasse la maggiore retribuzione, in quanto, ribadendo l’orientamento di questa Corte, in ipotesi di adibizione di fatto alle mansioni di infermiere specializzato non ricorrono le condizioni per l’applicabilità dell’art. 2126 cod. civ. per l’accertata illiceità dell’oggetto e della causa dell’obbligazione.
Pertanto, in applicazione di tali principi, in termini assorbenti (con conseguente carattere logicamente e giuridicamente pregiudiziale rispetto ad ogni accertamento in merito all’effettivo svolgimento delle dedotte mansioni superiori di educatore professionale che costituirebbe, peraltro, esercizio abusivo della professione ai sensi dell’art. 348 c.p.) essendo incontestato il mancato possesso in capo alla ricorrente del titolo abilitante rilasciato dallo Stato e dell’iscrizione nell’apposito albo professionale, in ogni caso non le spetterebbe né <il superiore inquadramento né il diritto alla maggiore retribuzione> trattandosi di attività – in ipotesi- di fatto svolta dal lavoratore, inibita da specifiche norme di legge attinenti all’ordine pubblico, e poste a tutela di valori costituzionalmente tutelati, quale il diritto alla salute.
Per tali ragioni deve essere respinta la domanda volta al superiore inquadramento ed alle correlate differenze retributive.
Ulteriormente, parte ricorrente formula domanda di risarcimento di danni conseguenti ad un asserito demansionamento consistito nell’adibizione a mansioni di <addetta alla cucina> ed inquadramento nel livello B2 con decorrenza dal 1.7.2017, come da provvedimento datoriale del 30.6.2017.
Orbene, l’infondatezza della domanda discende dal rilievo– in sé e per sé assorbente in applicazione della c.d. ragione più liquida – che l’istante non allega (né tanto meno prova ovvero offre di provare) le conseguenze dannose – patrimoniali e non – per le quali chiede ristoro in via risarcitoria (Nel caso in cui sia proposta, da lavoratore subordinato, domanda di risarcimento danni da demansionamento professionale, il giudice, che ritenga evidente il difetto di allegazione e prova in ordine alla natura ed entità del danno subito, può – in applicazione del principio della cd. “ragione più liquida” – invertire l’ordine delle questioni e, in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio valorizzate dall’art. 111 Cost., respingere La domanda sulla base di detta carenza, posto che l’accertamento sulla sussistenza dell’inadempimento, anche se logicamente preliminare, non potrebbe in ogni caso condurre ad un esito del giudizio favorevole per l’attore; Cass. n. 17214/2016).
Invero, parte ricorrente si limita ad affermare che l’ adibizione a mansioni di addetta alla cucina integrerebbe un demansionamento e che per tale ragione ha diritto a non meglio delineati <danni> che nelle conclusioni sono indicati in <patrimoniali e non>.
Avuto riguardo a tali scarne allegazioni, la ricorrente rivendica il risarcimento di un danno che, evidentemente, ritiene in re ipsa, siccome omette di precisare quale tipo di lesione avrebbe subito in conseguenza del lamentato demansionamento.
Ma osserva il giudice che è ormai consolidato nella giurisprudenza della Suprema successiva alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 6572 del 24.3.2006, secondo cui il risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo, dell’esistenza di un pregiudizio, di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile. Il danno, infatti, non è conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo, sicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l’onere di fornire la prova del pregiudizio subito e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale ( in tal senso fra le più recenti Cass. 1.3.2016 n. 4031; Cass. 18.9.2015 n.18431; Cass. 26.1.2015 n. 1327).
Il capo di domanda in esame deve, pertanto, essere respinto.
Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato; le spese di lite, nella misura liquidata in dispositivo, seguono l’ordinario criterio della soccombenza.
P.Q.M.
Il Tribunale di Cosenza, definitivamente pronunciando, ogm diversa istanza, deduzione ed eccezione disattesa, così provvede:
1. rigetta il ricorso;
2. condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida in complessivi euro (…) oltre spese generali, Iva e Cpa come per legge.