Tribunale di Locri sentenza n. 343 depositata il 12 marzo 2018
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – SICUREZZA SUL LAVORO – INFORTUNIO MORTALE – DANNI DA MORTE – LIQUIDAZIONE DEL DANNO DA FATTO ILLECITO EXTRACONTRATTUALE
IN FATTO ED IN DIRITTO
1. – Le domande e le eccezioni.
1.1. – Fe. Er. e Fe. Er., in proprio e in qualità di eredi di Vi. An. Fr., hanno adito l’intestato tribunale esponendo che
– nell’estate del 2008 i signori Zi. e Bo. avevano dato incarico a Vi. An. Fr. di eseguire delle opere edili nella proprietà di quest’ultima, sita in (omissis …);
– il signor Fr., mentre era intento a operare su un tavolone poggiato trasversalmente sulle travi portanti della copertura del locale in cui i lavori dovevano essere eseguiti, posto a un’altezza di circa 3,5 metri dal piano stabile, è caduto improvvisamente all’interno del locale medesimo, riportando lesioni;
– successivamente il Fr. è deceduto a causa della gravità delle predette lesioni;
– il servizio ispezione del lavoro di Reggio Calabria ha accertato che l’incidente mortale era dovuto alla mancanza di opere atte a garantire l’incolumità delle persone addette alle lavorazioni, alla mancata fornitura ai lavoratori di dispositivi di protezione individuali, alla mancata redazione del piano operativo di sicurezza e alla mancata verifica dell’idoneità tecnico-professionale dell’impresa affidataria e dei lavoratori autonomi;
– il signor Fr. non era in possesso dei requisiti necessari perché gli venissero affidati i lavori e questi sono stati iniziati senza prima avere chiesto le necessarie autorizzazioni amministrative;
– gli attori erano nipoti di Vi. An. Fr. e avevano con costui un rapporto di natura filiale.
Fe. e Fe. Er. hanno chiesto pertanto la condanna di Fr. Zi. e di An. Bo. al risarcimento dei danni iure proprio e iure hereditatis derivanti dal predetto evento, “patrimoniali e non patrimoniali nelle componenti costitutive, ma non solo, di danno morale, parentale, esistenziale e da inadempimento contrattuale”.
Fr. Zi. e An. Bo. hanno rilevato che
– l’idoneità tecnico professionale è rivolta esclusivamente ad accertare la capacità dell’appaltatore a svolgere pienamente il lavoro affidatogli e non è diretta a prevenire eventi come quello in discussione;
– i lavori erano stati commissionati dal signor Zi. “per conto della proprietaria dell’immobile”, An. Bo., poiché costui conosceva Vi. An. Fr. come esperto artigiano, titolare di una piccola impresa operante nel campo dell’edilizia;
– Vi. An. Fr. ha pertanto organizzato il cantiere, del quale aveva la responsabilità e che gestiva autonomamente con una propria forza-lavoro e con propri mezzi;
– il signor Fr. operava quindi in totale autonomia, anche con riferimento all’orario di lavoro;
– pertanto Fr. Zi. è stato erroneamente ritenuto essere il datore di lavoro di Vi. An. Fr.;
– ne consegue che la condotta colposa omissiva in relazione alla mancata osservanza delle norme antinfortunistiche deve essere ascritta al medesimo Fr.;
– non è nemmeno invocabile l’articolo 2087 c.c., che riguarda i soli rapporti di lavoro subordinato, e nemmeno la responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. e quella generale ex art. 2043 c.c.;
– in ogni caso, alla data del decesso del signor Fr., ciascuno degli attori aveva costituito un proprio nucleo familiare autonomo e pertanto non è possibile che la morte dello zio abbia cagionato un danno patrimoniale da lucro cessante;
– il danno non patrimoniale deve essere liquidato unitariamente;
– il locale in cui è avvenuto il sinistro era ed è assicurato per la responsabilità civile verso terzi con Toro Assicurazioni s.p.a..
I due convenuti hanno pertanto chiesto il rigetto della domanda e in subordine che Toro Assicurazioni s.p.a. li tenga indenni da ogni obbligazione derivante dal presente giudizio.
A seguito dell’autorizzazione giudiziale alla chiamata del terzo, Alleanza Toro s.p.a. si è costituita in giudizio rilevando che
– al momento del sinistro i lavori di straordinaria amministrazione erano senza autorizzazione amministrativa;
– tale circostanza ha aggravato il rischio assunto dall’assicuratore e doveva essere comunicata a costui;
– la garanzia assicurativa non opera dunque nel caso di specie;
– in subordine, il signor Fr. era un lavoratore autonomo;
– il signor Zi. non poteva essere considerato “custode” del cantiere e la res non può essere ritenuta causa del danno;
– i due convenuti non hanno posto in essere alcuna condotta causativa dell’evento;
– in ogni caso, i danni patrimoniali non possono essere riconosciuti e il danno non patrimoniale non è provato;
– la garanzia assicurativa opera entro il limite di Euro 500.000,00 e vi è un processo penale in cui i genitori dei due attori si sono costituiti parti civili.
Con comparsa di intervento depositata il 16 gennaio 2013 si sono costituiti in giudizio Ad. Fr. e Al. Er., sostenendo di essere rispettivamente la sorella e il cognato di Vi. An. Fr., chiedendo il risarcimento dei danni non patrimoniali subiti iure proprio.
La causa è stata istruita mediante l’escussione dei testimoni An. Pi., Vi. Pr. e Vi. Bo. (udienza del 16 novembre 2016), Ra. Si. e Fe. Ne. (udienza del 21 giugno 2017).
Nelle more si sono costituiti Fe. Er. e Fe. Er., cioè i due originari attori, quali eredi degli interventori volontari Ad. Fr. e Al. Er., nel frattempo deceduti.
2. – Sull’eccezione di inammissibilità dell’intervento volontario.
2.1. – La compagnia di assicurazioni terza chiamata in giudizio ha sollevato nella propria memoria ex art. 183 c. VI n. 1) c.p.c. un’eccezione di inammissibilità dell’intervento volontario di Ad. Fr. e Al. Er..
L’eccezione è infondata.
Infatti nel processo ordinario di cognizione vige la regola della possibilità per i terzi di intervenire volontariamente in giudizio fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, accettando il procedimento nello stato in cui si trova, pur potendo formulare anche domande nuove ed essendo di conseguenza “autorizzati” dal codice di rito ad effettuare la relativa attività assertiva (v. art. 268 c.p.c.; cfr. Cass. Civ. n. 25798/2015). La diversa norma prevista dall’articolo 419 c.p.c. si applica al solo processo del lavoro, quindi non al caso di specie.
3. – Rapporti col processo penale per omicidio colposo a carico di Fr. Zi..
3.1. – Ad. Fr. e Al. Er. hanno dichiarato di avere rinunciato alla costituzione di parte civile nel processo penale, che ha visto quale imputato Fr. Zi., per la morte di Vi. An. Fr. (si veda il contenuto della memoria depositata dagli interventori volontari il 5 aprile 2013). Gli interventori hanno anche documentato tale loro affermazione, producendo una copia del verbale dell’udienza del 9 gennaio 2013 nel procedimento penale n. 1496/08 R.G.N.R. presso il Tribunale di Locri, in cui invero risulta anche l’ammissione come parti civili di Fe. e Fe. Er.; in ogni caso il difensore delle parti civili ha dichiarato di avere revocato l’atto di costituzione di parte civile, non intendendo accettare gli effetti del rito abbreviato.
I due convenuti hanno documentato che il signor Zi., con la sentenza n. 82/13 depositata all’udienza del 20 marzo 2013, è stato assolto dal delitto previsto e punito dall’articolo 589 c. I e II c.p., nonché dai reati di cui agli articoli 122 e 159 c. I, 18 c. I lett. d) e 96 c. I lett. g) del D.Lgs. n. 81/2008, perché il fatto non sussiste (si veda la produzione allegata alla memoria depositata il 5 aprile 2013 da Fr. Zi. e da An. Bo.). In sintesi, il giudice per l’udienza preliminare ha ritenuto che il signor Fr. fosse esperto nei “modesti lavori di ristrutturazione commissionati dallo Zi.”, che il Fr. aveva assunto la direzione dei lavori con mezzi propri, che “non risultano ingerenze dell’imputato nelle modalità di espletamento dei lavori” e che non sono emerse “circostanze tali da” indurre il signor Zi. “a percepire eventuali situazioni di pericolo”.
L’articolo 441 c. IV c.p.p. stabilisce che “se la parte civile non accetta il rito abbreviato non si applica la disposizione di cui all’articolo 75, comma 3”, cioè la norma che impone al giudice civile la sospensione del giudizio in attesa della definizione del procedimento penale nel caso in cui l’azione civile nei confronti dell’imputato sia stata proposta dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado.
In altri termini, la mancata accettazione dei rito abbreviato disposto dal giudice penale implica la riaffermazione della regola dell’autonomia del giudizio civile rispetto a quello penale e l’impossibilità di applicare l’articolo 652 c. I c.p.p. al caso di specie, cioè di ritenere che la sentenza del g.u.p., ove sia divenuta irrevocabile, faccia stato nel processo civile quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima. Infatti l’articolo 652 c. II c.p.p. estende l’efficacia di giudicato alla sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata ai sensi dell’articolo 442 c.p.p., “se la parte civile ha accettato il rito abbreviato”, quindi solo se la parte civile ha manifestato la predetta intenzione.
3.2. – Nel caso di specie non vi è stata tale accettazione.
Dunque la sentenza n. 82/13 può valere nel presente procedimento soltanto come prova atipica, avendo cioè la stessa valenza probatoria delle sentenze pronunciate in altro procedimento: il giudice civile può infatti trarre elementi di giudizio, sia pure non vincolanti, dalle sentenze penali, utilizzando come fonti le risultanze dei mezzi di prova esperiti e gli elementi di fatto acquisiti nel giudizio (cfr. Cass. Civ. n. 10055/2010).
In ogni caso, il predetto provvedimento deve essere considerato insieme a tutte le altre acquisizioni probatorie, e non può essere preso in considerazione nella parte in cui il giudice penale ha effettuato delle valutazioni: il giudice civile ha infatti il potere-dovere di ricostruire tutta la vicenda e deve valutare il nesso di causalità secondo i noti criteri civilistici.
3.3. – Si può fin da ora precisare che anche la sentenza civile n. 761/13 emessa da questo tribunale, con la quale l’opposizione a ordinanza – ingiunzione proposta dal signor Zi. è stata accolta perché in quella sede è stato accertato che il rapporto tra l’odierno convenuto e Vi. An. Fr. aveva natura autonoma, può formare oggetto di convincimento limitatamente ai fatti che il precedente giudice ha accertato (costui ha riportato, oltre alla sentenza penale sopra richiamata, anche le dichiarazioni di Vi. Bo. e An. Pi.), senza però vincolare il giudice del presente procedimento.
Non può nemmeno ritenersi sic et simpliciter che, con la sentenza n. 761/13 emessa dalla sezione civile di questo tribunale, sia stata definitivamente accertata la natura autonoma del rapporto intercorso tra i signori Zi. e Fr., poiché si tratta di un giudizio tra parti parzialmente diverse.
4. – Accertamento del rapporto contrattuale intercorso tra Vi. An. Fr. e i due convenuti.
4.1. – Deve essere escluso che tra Fr. Zi. e An. Bo., da un lato, e Vi. An. Fr., dall’altro, vi fosse un rapporto di lavoro di natura subordinata.
Restringendo l’esame innanzitutto al solo “contatto” tra i signori Zi. e Fr. (la posizione della signora Bo. sarà oggetto di accertamento infra), si osserva in generale che, affinché vi sia un rapporto di lavoro subordinato, è necessario che vengano riscontrati alcuni indici sintomatici della natura subordinata del rapporto medesimo, desunti dalla collaborazione e dalla continuità della prestazione lavorativa, dall’inserimento della prestazione del lavoratore nell’ambito di un’organizzazione aziendale (cfr. Cass. Civ. n. 14434/2015), nonché dall’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo disciplinare e di controllo del datore di lavoro (cfr. Cass. Civ. n. 19568/2013).
Orbene, è emerso che i lavori compiuti dai signori Fr., Pi. e Pr. erano di breve durata, non vi sono evidenze oggettive che consentano di ritenere che Fr. Zi. avesse una propria organizzazione aziendale conformemente alla lavorazione che si stava compiendo (cioè un’impresa edile, mentre risulta che la signora Bo. aveva un’azienda agricola, che però era di fatto gestita dal signor Zi.) e il “capo-mastro” durante l’esecuzione dei lavori era proprio il signor Fr., il quale dava ordini agli altri due lavoratori.
In senso opposto all’esistenza di un’organizzazione di carattere imprenditoriale in capo al signor Zi. si osserva poi che, come risulta dal verbale di consegna datato 29 dicembre 2008 (v. all. n. 4 del fascicolo dei due convenuti), Vi. An. Fr. aveva portato con sé, per l’esecuzione dei lavori, degli strumenti di lavoro, quali una betoniera con cavo elettrico, due cavalletti con tavoloni per ponteggio e una scala a pioli (si rinvia comunque alla completa elencazione dei beni presente nel predetto verbale, sottoscritto da Al. Er. unitamente alla dichiarazione che An. Pi. veniva “solitamente” chiamato dal signor Fr. per delle lavorazioni nell’ambito delle attività edilizie che di volta in volta gli venivano commissionate).
Inoltre la “chiamata” di Fr. Zi. era avvenuta esclusivamente per l’esecuzione della ristrutturazione di un tetto, cioè per una singola attività che doveva protrarsi per circa una settimana lavorativa (si vedano le dichiarazioni rese da Vi. Pr. ai Carabinieri di Roccella Ionica il 2 agosto 2008, all. n. 2 di parte attrice). La presenza di un modesto quantitativo di beni strumentali all’attività fa pensare al fatto che il signor Fr. fosse un lavoratore autonomo, anche se sprovvisto di partita iva. Tale ultima circostanza non ha rilievo ai fini civilistici, ma avrebbe potuto avere incidenza soltanto ai fini tributari, ove Vi. An. Fr. fosse sopravvissuto all’incidente per cui è causa.
Nel presente giudizio, poi, Vi. Bo., pur riferendosi a dei lavori pagati in lire, quindi lontani nel tempo rispetto all’anno 2008, ha detto di avere “chiamato” per l’esecuzione dei lavori il signor Fr., che in quell’occasione quest’ultimo era accompagnato da un operaio e che le attrezzature usate erano di proprietà di Vi. An. Fr..
An. Pi., che è l’unica persona che ha assistito alla caduta del Fr., ha detto di essere stato pagato per il lavoro da Fr. Zi. (tale circostanza è stata peraltro ammessa dal convenuto nella propria memoria depositata il 14 marzo 2013), che era “dipendente” del signor Fr., il quale lo aveva “chiamato”, e che riceveva ordini proprio dal Fr., che stabiliva anche gli orari del lavoro: infatti An. Pi. ha dichiarato agli ispettori del lavoro che l’incidente è accaduto in un orario in cui solitamente si faceva la pausa – pranzo; quel giorno invece i signori Pi. e Fr. non avevano fatto la predetta pausa “alle ore 12,00 in quanto alle ore 13,00 dovevamo finire di lavorare perché il Fr. doveva andare via” (si veda la dichiarazione posta nella quinta pagina del verbale del 15 ottobre 2008, presente all’interno del fascicolo degli attori). Non vi era stata dunque una direttiva da parte del signor Zi.: il signor Fr. aveva deciso in totale autonomia che si sarebbe allontanato dal luogo di lavoro alle ore tredici e quindi, senza alcun “ordine di servizio”, egli e il signor Pi. hanno deciso di lavorare per un’altra ora dopo le dodici.
Il 15 ottobre 2008, innanzi agli ispettori del lavoro di Reggio Calabria, il signor Pi. aveva anche accennato al fatto che la moglie del signor Zi., cioè An. Bo., avesse un’azienda agricola, aggiungendo però che non era dipendente per alcuno, che saltuariamente veniva chiamato da Fr. Zi. come bracciante agricolo, che nell’occasione era stato chiamato da Vi. Fr., il quale gli dava le direttive lavorative, che il 1° agosto 2008 non era stata fatta la pausa pranzo perché il signor Fr. “doveva andare via” e che il cantiere era gestito autonomamente dal signor Fr. (si veda l’allegato 5 del fascicolo dei due convenuti, nonché l’allegato 2 del fascicolo degli attori).
Invero, ai Carabinieri di Roccella Ionica il signor Pi., in data 2 agosto 2008, cioè appena un giorno dopo l’incidente, aveva detto che già in precedenza aveva lavorato insieme al Fr. “alle dipendenze” di Fr. Zi., che aveva rapporti solo con quest’ultimo e che il signor Fr. lo aveva chiamato per dirgli che dovevano effettuare dei lavori per il signor Zi.. Inoltre il signor Pi. ha riferito ai militari che in precedenza aveva lavorato per cinque giornate per conto del signor Zi. e che per tali lavori era stato pagato “già venerdì”.
Le predette dichiarazioni sono state rese a dei pubblici ufficiali immediatamente dopo il sinistro per cui è causa e quindi per tale ragione devono essere prese in considerazione da chi scrive.
Indubbiamente il signor Pi., nel corso delle successive deposizioni, ha “corretto il tiro”, negando in sostanza di essere dipendente di Fr. Zi.. Addirittura, come è stato riportato nella sentenza n. 761/13 di questo tribunale, prodotta dalle parti convenute, nel procedimento civile n. 100726/11 R.G. An. Pi. ha detto che era dipendente del signor Fr. “quando lo chiamava per dei lavori edili da effettuare”. In altri termini, il predetto teste, immediatamente dopo i fatti di causa, ha detto di essere “alle dipendenze” di Fr. Zi., mentre successivamente ha riferito di essere “dipendente” di Vi. An. Fr..
Anche Vi. Pr., comunque, in sede di sommarie informazioni testimoniali rese in data 2 agosto 2008, ha detto di essere stato chiamato dal signor Zi. e che prima di quel momento non conosceva Vi. An. Fr.. Inoltre, a differenza del signor Pi., Vi. Pr. non ha mai avuto rapporti, prima del 28 luglio 2008, con il signor Fr..
La “chiamata diretta” da parte di Fr. Zi. nei confronti di Vi. Pr., quindi, lumeggia il fatto che quest’ultimo non fosse un dipendente del signor Fr.. Tuttavia, come ha detto Vi. Pr. il 6 agosto 2008 all’ispettore del lavoro (v. all. n. 2 del fascicolo di parte attrice), il signor Fr. “dava gli ordini” presso il cantiere, insomma, per il signor Pr. era il “capomastro”. Del resto, lo stesso Pr. ha detto che in passato aveva fatto dei lavori di carpenteria, ma non aveva mai fatto il muratore. Se ne desume quindi che costui non dovesse essere una persona particolarmente esperta nella lavorazione che gli era stato chiesto di effettuare.
Ciò posto, è emerso che Vi. Pr. non aveva un rapporto contrattuale con Vi. An. Fr., il quale semplicemente, sul cantiere, gli impartiva le direttive, come peraltro può fare un lavoratore dipendente con qualifica di “capomastro” (volendo ripetere l’espressione usata da Vi. Pr.).
Inoltre An. Pi., sebbene in qualità di bracciante agricolo, veniva “chiamato” a lavorare da Vi. Zi. nell’azienda agricola di proprietà di An. Bo..
4.2. – Tali elementi però non consentono di ricondurre la prestazione lavorativa effettuata da Vi. An. Fr. al lavoro subordinato.
Ostano infatti a tale conclusione i seguenti elementi, che è il caso di evidenziare e ribadire:
a) la mancanza di un’impresa edile e quindi di un’organizzazione di carattere aziendale in capo al signor Zi.;
b) l’utilizzo per i lavori di strumenti messi a disposizione da Vi. An. Fr., non dai signori Zi. e/o Bo.;
c) il verbale sottoscritto anche da Al. Er. in cui si accenna al fatto che An. Pi. veniva “solitamente” chiamato dal signor Fr. per delle lavorazioni nell’ambito delle attività edilizie che di volta in volta gli venivano commissionate (v. all. n. 4 del fascicolo dei convenuti);
d) l’esecuzione di una sola lavorazione, che doveva durare all’incirca sette giorni lavorativi (si veda ancora sul punto la dichiarazione resa da Vi. Pr. ai Carabinieri di Roccella Ionica il 2 agosto 2008, presente all’interno del fascicolo di parte attrice);
e) l’irrilevanza del fatto che il Fr. non avesse una partita iva;
f) il fatto che in passato Vi. An. Fr. avesse eseguito lavori di muratura con propri strumenti e con l’impiego di manodopera procurata dal medesimo Fr.;
g) l’organizzazione dell’orario di lavoro in piena autonomia da parte del signor Fr..
Non rileva la sostanziale inattendibilità su taluni aspetti della vicenda del teste Pi. (le cui divergenze nelle varie dichiarazioni, però, attengono soltanto al fatto di essere o meno alle dipendenze del signor Zi., quindi a una valutazione, cioè alla qualificazione del suo rapporto di lavoro con Fr. Zi. o con Vi. An. Fr.. Si omette pertanto ogni valutazione ai sensi dell’art. 331 c.p.p., altrimenti doverosa per il giudice) perché, anche volendo ritenere che costui fosse stato impiegato direttamente da Fr. Zi. e non da Vi. An. Fr., ciò potrebbe rilevare soltanto nei rapporti tra An. Pi. e Fr. Zi. e/o An. Bo., e comunque non influenzerebbe l’accertamento relativo alle circostanze sopra elencate.
4.3. – Infine, l’attore ha l’onere di provare i fatti costitutivi del proprio diritto (art. 2697 c. I c.c.). Dunque era onere dei signori Er. dimostrare che il loro zio era un lavoratore subordinato di Fr. Zi. e/o di An. Bo..
In presenza di preponderanti elementi denotanti la mancanza di subordinazione e, volendo opinare nel senso più favorevole possibile per gli attori – intervenienti, in presenza di circostanze contrastanti tra di loro, nell’impossibilità comunque di escludere la validità di taluna di queste, dunque, si deve concludere nel senso che l’incertezza ridonda a svantaggio di chi vuol provare (cfr. Cass. Civ. n. 29315/2017 in un caso di ritenuta insuperabile incertezza quanto alla prova del nesso causale, nonché Cass. Civ. n. 3468/2010 e Cass. Civ. n. 6760/2003 sugli esiti della prova per testi).
5. – Sulle condotte colpose relative alla violazione di norme del D.Lgs. n. 81/2008 e dell’articolo 2087 c.c.. Concorso colposo in capo a Vi. An. Fr.. Responsabilità di Fr. Zi. e An. Bo..
5.1. – In definitiva, non si può ritenere che Vi. An. Fr. fosse un lavoratore subordinato di Fr. Zi. (e quindi nemmeno di An. Bo., la quale non è stata mai presente durante i lavori, tanto che nel processo penale è stato imputato il solo Zi.).
Ne consegue l’impossibilità di configurare in capo ai due convenuti le violazioni degli articoli, 18 c. I lett. d) (sull’obbligo del datore di lavoro di fornire ai lavoratori i “necessari e idonei dispositivi di protezione individuale”) e 96 c. I (obbligo per il datore di lavoro di redigere un “piano operativo di sicurezza”), a cui è correlata la disposizione sanzionatoria dell’articolo 159 c. I) del D.Lgs. n. 81/2008, che riguardano esclusivamente i “datori di lavoro” o di “dirigenti” preposti, non dunque i committenti.
5.2. – L’articolo 122 del D.Lgs. n. 81/2008 pone l’obbligo di adottare nei lavori in quota “adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e di cose”. Per “lavori in quota” si intendono le attività lavorative che espongono “il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 m rispetto ad un piano stabile” (art. 107 del D.Lgs. n. 81/2008). Inoltre le norme sui “lavori in quota” si applicano alle “attività che, da chiunque esercitate e alle quali siano addetti lavoratori subordinati o autonomi”, concernono “la esecuzione dei lavori di costruzione, manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione, risanamento, ristrutturazione o equipaggiamento, la trasformazione, il rinnovamento o lo smantellamento di opere fisse, permanenti o temporanee, in muratura, in cemento armato, in metallo, in legno o in altri materiali, comprese le linee e gli impianti elettrici, le opere stradali, ferroviarie, idrauliche, marittime, idroelettriche, di bonifica, sistemazione forestale e di sterro” (art. 105 del D.Lgs. n. 81/2008, con cui esordisce il capo II del predetto decreto legislativo, tra le cui disposizioni rientra proprio l’articolo 122).
Tuttavia l’articolo 157 del predetto decreto legislativo sanziona la violazione, anche da parte del “committente”, per la violazione degli obblighi contenuti negli articoli 90 commi III, IV e V, VII, IX lett. a) e c), 93 c. II, 100 c. VI-bis e 101 c. I primo periodo del D.Lgs. n. 81/2008.
Tra le norme richiamate dall’articolo 157 non vi è dunque l’articolo 122, che quindi non è una norma direttamente applicabile ai “committenti”.
5.3. – Gli attori hanno anche allegato che i signori Zi. e Bo. hanno violato le norme che imponevano loro di verificare l’idoneità tecnico-professionale dell’impresa affidataria e dei lavoratori autonomi.
Indubbiamente il signor Fr. non disponeva di partita i.v.a. e, vista la totale assenza di dispositivi di protezione individuale impiegati da costui e di qualsivoglia accorgimento per prevenire il pericolo di cadute dall’alto, era anche inidoneo allo svolgimento dell’attività richiestagli dal signor Zi. su un immobile di proprietà della signora Bo..
L’articolo 90 c. IX del D.Lgs. n. 81/2008 stabilisce tra l’altro che “il committente …, anche nel caso di affidamento dei lavori ad un’unica impresa o ad un lavoratore autonomo: a) verifica l’idoneità tecnico-professionale delle imprese affidatarie, delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi in relazione alle funzioni o ai lavori da affidare, con le modalità di cui all’allegato XVII. Nei cantieri la cui entità presunta è inferiore a 200 uomini-giorno e i cui lavori non comportano rischi particolari di cui all’allegato XI, il requisito di cui al periodo che precede si considera soddisfatto mediante presentazione da parte delle imprese e dei lavoratori autonomi del certificato di iscrizione alla Camera di commercio, industria e artigianato e del documento unico di regolarità contributiva, corredato da autocertificazione in ordine al possesso degli altri requisiti previsti dall’allegato XVII”.
E’ mancata dunque la necessaria verifica circa l’idoneità del signor Fr. a compiere la lavorazione per la cui realizzazione è stato “chiamato” dal signor Zi..
E’ dunque accertata la predetta violazione (riconducibile alla culpa in eligendo, si veda al riguardo Cass. Pen. n. 10014/2016), sicuramente in capo a Fr. Zi..
5.4. – Come ha avuto modo recentemente di precisare la Suprema Corte, ribadendo il proprio orientamento (sia pure in una fattispecie relativa a un contratto di appalto di lavori e al decesso di un lavoratore dell’impresa appaltatrice, caso diverso da quello di specie, in cui si discute del decesso di un lavoratore autonomo che aveva contrattato direttamente con il proprio committente), “l’art. 2087 cod. civ., che, integrando le disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro previste da leggi speciali, impone all’imprenditore l’adozione di misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, è applicabile anche nei confronti del committente, tenuto al dovere di provvedere alle misure di sicurezza dei lavoratori anche se non dipendenti da lui, ove egli stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alle misure da adottare in concreto, riservandosi i poteri tecnico-organizzativi dell’opera da eseguire” (Cass. Civ. n. 11311/2017, in un caso in cui la corte d’appello aveva affermato che dagli atti del procedimento non era risultata alcuna ingerenza del committente nell’espletamento del lavoro nel corso del quale si era registrato l’infortunio del lavoratore, tanto meno in misura di sicurezza o di vigilanza).
Poiché non è stata provata in giudizio una qualsivoglia ingerenza nelle modalità di esecuzione della ristrutturazione del tetto da parte di Fr. Zi. e An. Bo. (il primo era infatti presente vicino al luogo della caduta del signor Fr., cioè nella parte alta del terrapieno retrostante l’immobile da ristrutturare, si veda la quinta pagina delle dichiarazioni di An. Pi. agli ispettori del lavoro, ma è accorso solo dopo la chiamata da parte di An. Pi., quindi deve ritenersi che in quell’occasione egli fosse sufficientemente lontano da non essere nemmeno in grado di accorgersi dell’accaduto, e comunque non in una posizione che gli consentisse di “vigilare” sul loro andamento), la responsabilità ex art. 2087 c.c. addebitata dagli attori – terzi interventori volontari ai convenuti deve essere esclusa.
5.5. – Tornando alla valutazione circa l’eventuale incidenza causale della violazione dell’obbligo di cui all’articolo 90 c. IX del D.Lgs. n. 81/2008, giova premettere che, secondo l’orientamento di legittimità a cui chi scrive intende dare continuità,
a) in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il dovere di sicurezza, anche con riguardo ai lavori svolti in esecuzione di un contratto di prestazione d’opera, è riferibile non solo all’appaltatore – prestatore d’opera, ma anche al committente;
b) tale principio però non si applica automaticamente, perché non si può esigere in capo al committente un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori;
c) la responsabilità del committente sorge quindi a seguito della verifica in concreto dell’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta del prestatore d’opera, alla sua ingerenza nell’esecuzione dei lavori oggetto della prestazione d’opera, nonché all’agevole e immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo (cfr. Cass. Pen. n. 35185/2016, che riguarda un caso di “committenza non qualificata”, analogo a quello per cui pende il presente giudizio, cioè in sostanza di un privato che incarica una ditta, o un prestatore d’opera, per l’esecuzione di determinati lavori).
Ciò posto, anche se Fr. Zi. non ha partecipato ai lavori e quindi non si è ingerito (o almeno ciò non risulta dagli atti di causa) nell’esecuzione dei lavori di ristrutturazione del tetto, è evidente che costui, nell’incaricare dell’esecuzione dell’opera il signor Fr., era (o doveva essere, con l’ordinaria diligenza) cosciente del fatto che Vi. An. Fr. avrebbe dovuto salire sul tetto quantomeno in occasione della rimozione della copertura e dell’apposizione della nuova copertura, una volta “creata” una maggiore pendenza.
Sulla base di ciò che si vede dalle fotografie presenti nel fascicolo che ritraggono lo stato dei luoghi, in particolare i tavoloni di legno apposti sopra il locale la cui copertura doveva essere rifatta, emerge ictu oculi che il committente non aveva previsto alcuna struttura idonea a evitare pericoli di caduta (e comunque la predetta circostanza non è stata neppure allegata dagli odierni convenuti in replica alle deduzioni degli attori – interventori).
Orbene, la pregressa conoscenza del Fr. come persona esperta in lavorazioni della tipologia di quella sopra descritta (non comportanti cioè l’impiego di notevoli mezzi, dei quali dunque Vi. An. Fr. disponeva in proprio), esperienza confermata dai signori Pi. e Pr., i quali hanno nel complesso riferito di una persona che “dava direttive” sul lavoro ai due testimoni, nonché da Vi. Bo., che ha dichiarato che, molto prima del decesso di Vi. An. Fr., lo aveva “chiamato” per eseguire dei lavori di muratura, è una circostanza idonea a confermare che Fr. Zi., confidando nelle capacità del signor Fr., lo abbia lasciato completamente “libero” di eseguire l’opera come meglio credeva (del resto, come è stato documentato nel corso del giudizio, dopo i fatti di causa è stato presentato un progetto volto a ottenere un permesso di costruire in sanatoria; ciò vuol dire che i lavori de quibus erano stati affidati in mancanza di una vera e propria progettazione).
Tale circostanza, però, non consente di “superare” la considerazione per cui il locale oggetto di ristrutturazione era completamente sfornito di qualsivoglia accorgimento idoneo a evitare cadute dei lavoratori dall’alto.
La Suprema Corte, infatti, ritiene che, alla luce della normativa antinfortunistica, il committente sia titolare di una posizione di garanzia, che ovviamente non esclude il concorso di colpe altrui (tra cui vi potrebbe essere la colpa della stessa vittima), ove l’evento debba ricollegarsi, in tutto o in parte, alla sua condotta colposa omissiva o commissiva, ad esempio per avere permesso lo svolgimento dei lavori in situazioni nelle quali emerga una situazione di pericolo dovuta allo stato dei luoghi o comunque all’impiego di determinati mezzi, anche nel caso in cui non si sia ingerito nell’esecuzione dei medesimi.
Giova qui ribadire che dal committente non può tuttavia esigersi un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori; di conseguenza, ai fini della configurazione della sua responsabilità, occorre verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore, alla sua ingerenza nell’esecuzione dei lavori, nonché all’agevole e immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo (cfr. Cass. Pen. n. 55180/2016).
5.6. – Ebbene,
a) la conoscenza dei luoghi, che deve ritenersi pacifica, anche perché è emerso dalle deposizioni dei testi Pi. e Pr. che Fr. Zi. si occupava dell’azienda agricola che si svolgeva presso i luoghi di causa,
b) la consapevolezza quindi della mancanza di presidi di sicurezza e l’omessa attivazione per la realizzazione di strutture idonee per prevenire il pericolo di caduta dall’alto, nonché
c) la mancata verifica dell’idoneità del signor Fr. allo svolgimento dei lavori (deve ritenersi infatti accertato che Vi. An. Fr. non fosse iscritto presso la Camera di Commercio),
costituiscono condotte omissive colpose, che hanno comunque concorso nella determinazione dell’evento.
Infatti, non tanto ove Fr. Zi. avesse verificato presso la locale Camera di Commercio la sussistenza in capo al signor Fr. dei sopra cennati requisiti (tale verifica, che sulla base degli atti di causa avrebbe avuto esito negativo, avrebbe peraltro consentito di cogliere con immediatezza le carenze del Fr. rispetto agli obblighi stabiliti anche a carico dei prestatori d’opera dal D.Lgs. n. 81/2008), ma soprattutto qualora egli avesse predisposto le opportune dotazioni di sicurezza atte ad evitare il pericolo di caduta dall’alto del lavoratore autonomo o comunque avesse vigilato affinché il signor Fr. le realizzasse, la vittima non sarebbe salita sul tetto, privo della copertura e quindi su una tavola di legno, ad un’altezza di tre metri e mezzo dal suolo, senza alcuna protezione.
Il rischio di caduta dall’alto, poi, è considerato “generico”, tale cioè da non escludere la responsabilità del committente il quale, sprovvisto delle necessarie capacità tecniche di settore, non abbia adottato alcunché per prevenirlo o per evitarlo (sull’esclusione della responsabilità anche del committente in caso di rischio “specifico” si veda l’articolo 26 c. III del D.Lgs. n. 81/2008: evidentemente, ove il rischio sia invece “generico”, la posizione di garanzia in capo al committente non viene esclusa sic et simpliciter; cfr. Cass. Pen. n. 26490/2016: “Non può considerarsi rischio specifico quello derivante dalla generica necessità di impedire cadute da parte di chi operi in altezza essendo, questo pericolo, riconoscibile da chiunque indipendentemente dalle sue specifiche competenze … . E’ stato più volte affermato che il committente in tali casi è titolare di una autonoma posizione di garanzia e può essere chiamato a rispondere dell’infortunio subìto dal lavoratore qualora l’evento si colleghi causalmente ad una sua colpevole omissione, specie nel caso in cui la mancata adozione o l’inadeguatezza delle misure precauzionali sia immediatamente percepibile senza particolari indagini … . E, ancora nello specifico del rischio-caduta, è stato recentemente ribadito – e va qui riaffermato – che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, qualora il lavoratore presti la propria attività in esecuzione di un contratto d’appalto, il committente è esonerato dagli obblighi in materia antinfortunistica, con esclusivo riguardo alle precauzioni che richiedono una specifica competenza tecnica nelle procedure da adottare in determinate lavorazioni, nell’utilizzazione di speciali tecniche o nell’uso di determinate macchine”). Tale rischio è poi immediatamente percepibile, perché corrisponde a nozioni di comune esperienza il fatto che da una caduta da un’altezza di circa tre metri e mezzo possono derivare quantomeno lesioni personali.
5.7. – Deve pertanto ritenersi provata la colpa specifica, consistente nelle due violazioni specificamente allegate nell’atto di citazione (si veda la seconda pagina), cioè nell’assenza di opere provvisionali atte a garantire il pericolo di caduta dei lavoratori, i quali si svolgevano sicuramente a un’ altezza superiore a due metri dal piano stabile, e nell’omissione della verifica dell’idoneità tecnico-professionale in capo al signor Fr. (articolo 90 c. IX lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008).
5.8. – La condotta omissiva posta in essere dal signor Zi. non è l’unica causa del decesso di Vi. An. Fr.: infatti anche sul lavoratore autonomo gravano degli obblighi in materia antinfortunistica (si pensi ad esempio a quello di dotarsi di idonei dispositivi antinfortunistici, ad esempio del casco di protezione per la testa), previsti dall’articolo 21 del D.Lgs. n. 81/2008.
Tuttavia la condotta del Fr., pur essendo in sé pericolosa, non è abnorme (cioè non ha i connotati della stranezza e dell’imprevedibilità, tali da porla al di fuori della possibilità di controllo da parte del garante), dunque non elide il nesso causale tra le omissioni imputabili al committente e l’evento, cioè la morte di Vi. An. Fr. (v. art. 41 c. II c.p.) perché, tenuto conto della concreta situazione venutasi a creare, questa era prevedibile da parte del signor Zi. (è cioè prevedibile con uno sforzo di ordinaria diligenza che, per la realizzazione di lavori ad altezza pari a circa tre metri e mezzo, si debba salire su scale o comunque ci si debba trovare a un’altezza tale per cui un’eventuale caduta può determinare quantomeno lesioni personali in capo al lavoratore).
Tuttavia la mancata predisposizione di presidi antinfortunistici e quindi di qualsivoglia cautela da parte del lavoratore autonomo ha concorso nella determinazione dell’evento poiché, pur non essendo imprevedibile da parte del garante per le ragioni sopra esposte, è stata comunque posta quantomeno in violazione dell’articolo 21 c. I lett. b) del D.Lgs. n. 81/2008.
5.9. – Si deve allora procedere ai sensi dell’art. 1227 c. I c.c..
La “gravità della colpa” va intesa non in senso psicologico, ma come entità della diligenza violata. Solo se non sia possibile provare le diverse entità degli apporti causali tra danneggiante e danneggiato alla realizzazione dell’evento dannoso il giudice potrà avvalersi del principio della presunzione di pari concorso di colpa di cui all’art. 2055 c.c. (cfr. Cass. Civ. n. 1002/2010).
A parere di chi scrive, la gravità delle due colpe è di pari grado, trattandosi di palmari violazioni della normativa sopra richiamata, in relazione a un’attività ictu oculi pericolosa.
Anche l’entità delle conseguenze discendenti dalle singole omissioni deve essere considerata pari perché, non essendo comunque possibile effettuare più approfonditi accertamenti, il compimento delle rispettive condotte doverose avrebbe impedito o avrebbe quantomeno grandemente attenuato il danno invece cagionato.
5.10. – Posto dunque che Fr. Zi., il quale ha conferito l’incarico a Vi. An. Fr. di eseguire la ristrutturazione del tetto di proprietà di An. Bo., è responsabile per tutte le conseguenze dannose derivanti dalle proprie due omissioni colpose nei limiti del 50% (infatti anche gli eredi del corresponsabile deceduto a causa dei fatti di causa non possono pretendere nemmeno iure proprio l’intero risarcimento del danno, poiché la rottura del rapporto parentale ad opera di una delle sue parti non può considerarsi fonte di danno nei confronti del corresponsabile “terzo” in tale rapporto, cfr. Cass. Civ. n. 9349/2017), a parere di chi scrive sussiste la medesima responsabilità in capo ad An. Bo. (in solido con Fr. Zi. e limitata a quella a cui è tenuto l’altro convenuto), la quale peraltro non “compare” negli atti del processo penale e nei documenti del presente giudizio, se non quale proprietaria dell’immobile il cui tetto doveva essere ristrutturato.
La responsabilità per cui si discute non può essere addossata sic et simpliciter in capo al proprietario del locale, ma deve gravare sul “committente”; per “coinvolgere” la signora Bo. con riguardo alle questioni finora affrontate occorre alternativamente ritenere che
a) An. Bo. abbia anch’ella conferito direttamente l’incarico al signor Fr. per l’esecuzione della ristrutturazione del tetto del proprio immobile, oppure
b) Fr. Zi. abbia agito (quantomeno anche) in nome e per conto di An. Bo..
La signora Bo. ha sottoscritto personalmente una lettera, spedita il 4 settembre 2012, in cui ha affermato che i lavori sono stati affidati dal proprio coniuge “per conto della sottoscritta – presente al momento dell’incarico” (si veda l’allegato 13 del fascicoletto depositato dai due convenuti il 14 marzo 2013).
Da tale ammissione (sia pure non diretta nei confronti degli attori, comunque liberamente valutabile in quanto tale) non si può desumere, a parere di chi scrive, che Fr. Zi. abbia agito esclusivamente per conto di An. Bo. (quindi come mero mandatario di costei), e che quindi solo quest’ultima sia responsabile (in qualità di committente) dell’accaduto, attesa la “vicinanza” tra i due convenuti e considerato che il signor Zi. anche in passato (come è emerso dalle plurime dichiarazioni fornite anche fuori dal presente giudizio dai signori Pi. e Pr.) ha direttamente incaricato operai e braccianti agricoli per l’esecuzione di lavori.
La qualità di proprietaria (quindi di beneficiaria dell’intervento edilizio) dell’immobile da ristrutturare e la conoscenza, al momento dell’incarico, dell’espletamento dei lavori, invece, costituiscono sufficienti indizi per ritenere che questo sia stato commissionato anche da An. Bo..
Si possono pertanto richiamare anche per An. Bo. le omissioni colpose accertate in capo a Fr. Zi., attesa la conoscenza dei luoghi di causa anche da parte della signora Bo.: in altri termini, dalla qualità di “committente” in capo anche a costei discende l’esistenza della posizione di garanzia sopra cennata e dell’obbligo stabilito dall’articolo 90 c. IX lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008.
5.11. – Sono di conseguenza assorbiti gli ulteriori profili di responsabilità allegati dagli attori – intervenienti volontari.
6. – La quantificazione dei danni. Il danno patrimoniale e quello non patrimoniale chiesti iure proprio da Fe. Er., Fe. Er., Ad. Fr. e Al. Er..
6.1. – Si ritiene accertata la derivazione causale del decesso di Vi. An. Fr. dalla caduta da un’altezza di circa tre metri e mezzo avvenuta in esecuzione della prestazione d’opera commissionatagli dai signori Zi. e Bo., su cui peraltro in giudizio non vi è stata discussione. Del resto, come si desume dalla documentazione sanitaria prodotta dagli attori – interventori, il signor Fr. è deceduto alle ore 17:30 del 1° agosto 2008, cioè circa cinque ore dopo la predetta caduta, e non vi sono spiegazioni alternative del predetto decesso, non riconducibili cioè immediatamente alla caduta medesima.
6.2. – Fe. e Fe. Er. hanno affermato che Vi. An. Fr. non era sposato, non aveva figli e, in sostanza, costoro lo consideravano come un padre. Inoltre, secondo i due attori, il signor Fr. elargiva loro delle somme di denaro.
Quanto al lucro cessante, ovvero alla perdita di un apporto economico a causa della morte di Vi. An. Fr., in giudizio è emerso che i due attori gestivano un’officina (ne hanno parlato i testi Ra. Si. e Fe. Ne.), che Fe. Er. aveva quarantasette anni e Fe. Er. ne aveva quarantaquattro al momento del decesso dello zio.
Non è dunque configurabile una perdita economica, in termini di stabile diminuzione di entrate, a causa della morte del signor Fr., poiché i due attori, oltre ad avere un’età superiore rispetto a quella entro la quale, secondo l’id quod plerumque accidit, può ritenersi che una persona abbia bisogno dell’apporto economico dei parenti stretti, avevano comunque una loro attività.
6.3. – Nella loro comparsa di intervento volontario, invece, Ad. Fr. e Al. Er. non hanno allegato danni iure proprio di natura patrimoniale, la cui esistenza non verrà dunque valutata.
6.4. – Con riferimento al danno non patrimoniale iure proprio, tenuto conto dei recenti approdi a cui è giunta la giurisprudenza di legittimità dopo la sentenza a Sezioni Unite n. 26972/2008, si osserva quanto segue.
E’ ormai chiaro che il danno non patrimoniale costituisce una categoria ampia e onnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici.
Ne consegue che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello cosiddetto esistenziale.
In ossequio all’insegnamento delle Sezioni Unite, allora, il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio subìto, ma non deve comportare duplicazioni risarcitorie, sicché spetta al giudice accertarne l’effettiva consistenza, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate nel caso concreto.
La giurisprudenza di legittimità ha ribadito tali principi, evidenziando che “non è ammessa la creazione di diverse tipologie autonome e a sé stanti di danno non patrimoniale (ed in particolare di quella del danno c.d. esistenziale), per attribuire una specifica somma in risarcimento di ognuna, ma il giudice deve comunque tenere conto – nel liquidare l’unica somma spettante in riparazione – di tutti gli aspetti che il danno non patrimoniale assume nel caso concreto (danno alla salute, alla vita, ai rapporti affettivi e familiari, sofferenze psichiche, ecc.)” (cfr. Cass. Civ. n. 19816/2010).
In particolare, la morte di una persona cara costituisce di per sé un fatto noto dal quale il giudice può desumere, ex art. 2727 c.c., che i congiunti dello scomparso abbiano patito una sofferenza interiore tale da determinare un’alterazione della loro vita di relazione e da indurli a scelte di vita diverse da quelle che avrebbero altrimenti compiuto, sicché nel giudizio di risarcimento del relativo danno non patrimoniale incombe al danneggiante dimostrare l’inesistenza di tali pregiudizi.
Il fatto illecito, costituito dalla morte del congiunto, dà luogo a un danno non patrimoniale presunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare. In tal caso, la liquidazione del danno non patrimoniale deve avvenire in base a valutazione equitativa, vertendosi in tema di lesione di valori inerenti alla persona, in quanto tali privi di contenuto economico, e deve tener conto dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore utile circostanza, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti (cfr. Cass. Civ., n. 4253/2012, Cass. Civ. n. 10527/2011).
Tuttavia va osservato che, sebbene la perdita di una persona cara implichi necessariamente una sofferenza morale, questa non costituisce un danno autonomo, ma rappresenta un aspetto – del quale tenere conto, unitamente a tutte le altre conseguenze, nella liquidazione unitaria ed omnicomprensiva – del danno non patrimoniale. Ne consegue che è inammissibile, costituendo una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione, al prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza di un fatto illecito costituente reato, del risarcimento a titolo di danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno esistenziale da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente e unitariamente ristorato (cfr. Cass. Civ. n. 15491/2014, Cass. Civ. n. 1410/2011, Cass. Civ. n. 1072/2011).
6.5. – Ciò posto, Fe. e Fe. Er. erano nipoti ex sorore di Vi. An. Fr., Ad. Fr. ne era la sorella e Al. Er. il cognato.
Non si tratta quindi di membri di una famiglia nucleare (Ad. Fr., infatti, era coniugata con Al. Er. e pertanto aveva costituito il proprio nucleo familiare); inoltre nessuno di costoro conviveva con Vi. An. Fr.. Tuttavia ciò non esclude sic et simpliciter il loro diritto al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, costituendo soltanto un elemento indiziario idoneo per determinarne la misura, in concorso con altri elementi, tra cui ad esempio la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, nonché le abitudini di vita della vittima e dei superstiti (cfr. Cass. Civ. n. 29332/2017 e Cass. Civ. n. 21230/2016 con riguardo al danno chiesto dai nipoti per il decesso dei nonni non conviventi con gli attori). Ovviamente, al fine di non estendere eccessivamente la “platea” delle vittime cc.dd. secondarie, è necessario che la prova circa il rapporto affettivo tra la vittima e i parenti sia rigorosa, sia quanto alla dimostrazione degli elementi idonei a provare la lamentata lesione, sia con riguardo alla prova dei danni subiti (cfr. Cass. Civ. n. 23917/2013).
Sul punto Ra. Si., che ha detto di essere stato “fuori” (cioè lontano dai luoghi di causa e dalle persone protagoniste della vicenda per cui pende il presente procedimento) dal 1991 fino al mese di marzo-aprile 2009, ha fornito dichiarazioni relative a ciò che “i nipoti”, cioè Fe. e Fe. Er., gli avevano detto in ordine alla loro frequentazione con lo zio. La valenza delle dichiarazioni di fatti appresi de relato actoris nel processo civile è però “sostanzialmente nulla”, perché in concreto si tratta della trasposizione in giudizio di deduzioni già formulate negli atti processuali (cfr. Cass. Civ. n. 569/2015). Sarebbe stato diverso ove il signor Si. avesse riferito che le predette circostanze gli erano state dette da Vi. An. Fr.; invece il teste ha soltanto dichiarato che l’officina (dei signori Er.) era stata chiusa durante il funerale dello zio, ma ciò di per sé, nel piccolo paese in cui vivevano gli attori e Vi. An. Fr., non è indicativo di un particolare e oltremodo intenso affetto che i signori Er. provavano per lo zio (semmai la circostanza di segno contrario sarebbe stato un decisivo elemento contrario alla sussistenza di un profondo sentimento di affetto da parte dei nipoti verso lo zio). Inoltre il signor Si. ha riferito di avere visto personalmente il Fr. in officina; anche tale affermazione, però, in sé costituisce soltanto la prova dell’esistenza di normali rapporti tra consanguinei, ma non di una particolare affectio dei nipoti nei confronti dello zio.
Fe. Ne. ha detto che “non gli risulta” che lo zio pranzasse e cenasse a casa dei nipoti, ma che tuttavia “lo vedeva” qualche volta “insieme a loro in officina”, ha riferito di “sapere” che Fe. e Fe. Er. andavano a trovare lo zio a casa di quest’ultimo, di “sapere” che “il Fr. era legato ai nipoti” ma di “non sapere” se facessero delle attività insieme.
Dal narrato dei predetti due testimoni si desume però la frequentazione tra i nipoti e lo zio e l’affetto che il signor Fr., non coniugato e senza figli, nutriva per Fe. e Fe. Er.. Tale sentimento è stato espresso proprio dalla vittima nel suo testamento olografo, pubblicato il 13 marzo 2009 (v. all. n. 8 del fascicolo degli attori), con il quale il Fr. ha istituito quali propri eredi universali proprio i due nipoti, riconoscendo loro “tutto il bene e l’affetto ricevuto” dai signori Er..
Tale dichiarazione, unitamente comunque alla frequentazione che, per quel che è emerso in giudizio, può essere definita assidua, tra i nipoti e lo zio, consente di ritenere che i due attori, che comunque al momento del decesso di Vi. An. Fr. avevano ancora in vita i loro genitori, abbiano subìto un danno nella sua componente morale da rottura del rapporto parentale stretto con il parente in linea collaterale di terzo grado.
Non è emersa in giudizio alcuna alterazione delle abitudini di vita dei due Er. dopo i fatti di causa, se si fa eccezione per la chiusura per lutto della loro attività, verosimilmente protrattasi soltanto per qualche giorno.
Insomma, tenuto conto da un lato della frequentazione con lo zio, dell’affetto che costui ha “riconosciuto” ai nipoti nel proprio testamento, dall’altro però dell’età dei due attori al momento dei fatti di causa, dell’età non più giovane del signor Fr. al momento del suo decesso (sessantasei anni), del fatto che costoro non convivevano con lo zio, che avevano comunque in vita i loro genitori e che non risulta ad esempio che lo zio li abbia accuditi al posto del loro padre (quindi non si tratta realmente della perdita di una figura “paterna”), si deve ritenere che la perdita del congiunto ha determinato una sofferenza morale per la quale, tenendo conto comunque dei criteri risarcitori mutuati dalle cc.dd. Tabelle dell’Osservatorio della giustizia civile di Milano, è congrua la monetizzazione del pregiudizio in Euro 11.870,00 in valori attuali per ciascuno degli attori, quindi in un valore corrispondente alla metà del minimo previsto dalle tabelle medesime in caso di perdita di un fratello (cioè di un parente in linea collaterale di secondo grado; tra zio e nipote il grado è il terzo).
6.6. – Quanto ad Ad. Fr., sorella di Vi. An. Fr., costei ha sostenuto (analogamente a quanto ha fatto il cognato, Al. Er.) che la sua vita è stata “sconvolta” a causa dell’evento luttuoso.
I testi Si. e Nesci, oltre a una generica “conferma” (con riferimento, lo si ribadisce, alla posizione dei due interventori volontari) di quanto riferito con riguardo a Fe. e Fe. Er., non hanno riferito nulla in particolare.
Non vi è dunque prova del predetto “sconvolgimento” delle abitudini di vita in conseguenza del decesso di Vi. An. Fr., ma comunque è emersa una frequentazione che, pur non accompagnata dalla convivenza, consente di ritenere provata una sofferenza morale a causa della morte del congiunto che deve essere ristorata alla luce dei criteri elaborati dalle tabelle milanesi sopra richiamate.
L’età relativamente avanzata di Ad. Fr. e di Vi. An. Fr. al momento del decesso di quest’ultimo (tale cioè da far ritenere anche al momento della domanda, a prescindere cioè dal fatto che la signora Fr. è deceduta nelle more del giudizio, che il pregiudizio conseguente alla perdita del rapporto parentale si sarebbe “proiettato nel futuro” per pochi anni ancora e quindi il turbamento d’animo patito sia stato inferiore rispetto all’ipotesi del decesso di una persona più giovane), la mancanza della convivenza tra costoro, il fatto che si tratta di parenti in linea collaterale di secondo grado e che Ad. Fr. poteva ancora comunque godere della presenza e del contributo affettivo di due figli e del proprio coniuge, giustificano la determinazione del danno non patrimoniale nella misura minima prevista dalle predette tabelle, quindi in valori attuali per Euro 23.740,00.
6.7. – Per Al. Er. possono essere fatte le medesime considerazioni. Trattandosi non di un parente, ma di un affine in linea collaterale di secondo grado, deve essere ristorata la sofferenza provata anche dal cognato, anche ove si fosse trattato esclusivamente di quella conseguente all’avere assistito e all’avere percepito il dolore della propria moglie.
Tale sofferenza, però, è meno intensa rispetto a quella che ha provato la signora Fr. e a quella di Fe. e Fe. Er., legati comunque allo zio da un rapporto di frequentazione.
Ciò giustifica a parere di chi scrive la determinazione del danno non patrimoniale nella misura di un terzo di quella minima prevista dalle tabelle milanesi per la perdita di un fratello, quindi in Euro 7.913,33 in valori attuali.
7. – Il danno iure hereditario.
7.1. – I due attori hanno affermato di avere anche diritto, in qualità di eredi di Vi. An. Fr., al risarcimento del danno iure hereditario derivante da inadempimento contrattuale (si veda la settima pagina dell’atto di citazione).
Il riconoscimento di tale posta di danno presuppone però l’affermazione dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra Fr. Zi. e An. Bo. da una parte, Vi. An. Fr. dall’altra. Ciò è stato escluso per le ragioni sopra esposte e pertanto nulla è dovuto dal convenuto per la predetta voce di danno.
7.2. – Inoltre, non essendovi una prova sufficiente (e ancor prima la specifica allegazione) circa l’eventuale credito maturato da Vi. An. Fr. per l’esecuzione dell’opera, non è dovuta nemmeno una parte della “mercede per l’opera prestata” (si veda l’ottava pagina dell’atto di citazione).
8. – Riepilogo delle voci di danno e criteri per la loro esatta quantificazione.
8.1. – Poiché Fe. e Fe. Er. hanno documentato di essere discendenti e eredi di Ad. Fr. e Al. Er., Fr. Zi. e An. Bo. devono essere condannati, in solido tra loro, al pagamento, a titolo di danno non patrimoniale unitariamente considerato, delle seguenti somme, determinate tenendo conto della riduzione del 50% a causa della corresponsabilità della vittima nella realizzazione dell’evento:
– in favore di Fe. Er., in proprio e in qualità di erede di Ad. Fr. e di Al. Er., Euro ((11.870,00 + 11.870,00 + 3.956,67) : 2 =) 13.848,34;
– in favore di Fe. Er., in proprio e in qualità di erede di Ad. Fr. e di Al. Er., Euro ((11.870,00 + 11.870,00 + 3.956,67) : 2 =) 13.848,34.
8.2. – Trattandosi di obbligazioni derivanti da illecito extracontrattuale, e quindi di debiti di valore, su tali somme, devalutate data del sinistro (1° agosto 2008) e rivalutate annualmente sino alla presente pronuncia secondo gli indici Istat Foi per operai ed impiegati, devono essere calcolati gli interessi nella misura legale dalla predetta data al soddisfo (cfr. Cass. Civ. SS.UU. n. 1712/1995).
8.3. – Non sono state tempestivamente allegate altre poste di danno. Ne consegue l’impossibilità per il giudice, tenuto a decidere esclusivamente sulla base di ciò che è stato specificamente dedotto (v. art. 112 c.p.c.), di valutare l’esistenza di altre voci di pregiudizio patrimoniale e/o non patrimoniale.
Infatti gli attori – interventori hanno allegato il cd. danno terminale o catastrofale soltanto nelle loro memorie di replica, non consentendo innanzitutto sul punto alcuna difesa in capo alle controparti, e comunque in modo tardivo: le domande devono essere proposte fin dall’atto di citazione e possono essere precisate e modificate entro i termini di cui all’articolo 183 c. VI n. 1) c.p.c.; la richiesta di risarcimento “di tutti i danni subiti” formulata rassegnando le conclusioni è in sè ammissibile, ma nel corpo dell’atto introduttivo devono essere specificate le singole poste di danno richieste. Ove nella citazione vi sia la deduzione di alcune soltanto delle poste di danno in astratto risarcibili, il giudice non potrebbe riconoscerne altre emerse nel corso della fase istruttoria, altrimenti violerebbe il principio della domanda sancito dall’articolo 112 c.p.c. (cfr. Cass. Civ. n. 24471/2014 con riferimento alla “personalizzazione” del danno non patrimoniale, che può essere riconosciuta soltanto ove l’attore ne abbia compiutamente allegato gli elementi costitutivi; si veda anche Cass. Civ. n. 691/2012: “Le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta in tesi colpevole della controparte produttiva di danni nella sfera giuridica di chi agisce in giudizio. L’esposizione deve invero necessariamente essere estesa alle lesioni, patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo l’attore mettere il convenuto in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento. E tanto prima e a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall’assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo”).
9. – La domanda di garanzia.
9.1. – An. Bo. ha stipulato con Alleanza Toro s.p.a. un contratto di assicurazione a copertura del rischio di responsabilità verso terzi, denominato “Master casa” (v. all. n. 6 del fascicolo di parte convenuta nonché all. n. 14 del fascicoletto depositato dai due convenuti il 14 marzo 2013).
9.1.1. – Alleanza Toro s.p.a. ha contestato che l’immobile in cui è avvenuto l’incidente fosse compreso nell’oggetto dell’assicurazione (si veda la terza pagina della memoria depositata il 16 febbraio 2013).
An. Pi., nell’immediatezza dei fatti, ha dichiarato ai Carabinieri di Roccella Ionica che il locale oggetto dei lavori si trovava “a poca distanza dalla casa di abitazione” dei coniugi Zi. – Bo.. Secondo Vi. Pr. la “piccola costruzione” si trovava “all’interno della casa di campagna di Zi.” (si vedano i due verbali di sommarie informazioni testimoniali del 2 agosto 2008).
Secondo gli ispettori del lavoro, l’immobile era adibito a deposito di attrezzi ed era “di pertinenza” di un fondo agricolo sito in (omissis…) (si veda il rapporto datato 27 maggio 2009 presente all’interno del fascicolo degli attori).
Poiché la casa “di campagna” (non quindi una casa adibita esclusivamente a civile abitazione) della signora Bo. era a poca distanza dalla predetta costruzione, si ritiene che quest’ultima fosse stata posta al servizio, oltre che del fondo (si trattava infatti di un deposito di attrezzi), anche della casa medesima, non destinata (giova ribadirlo) a stabili esigenze abitative, bensì a dimora non abituale dei coniugi Zi. – Bo..
A tale conclusione si giunge anche dall’esame del rapporto degli ispettori del lavoro datato 27 maggio 2009 in cui, alla fine della seconda pagina, si accenna al fatto che dal fabbricato “principale” del fondo si snoda una stradina che porta proprio al locale deposito, che è dunque “collegato” alla costruzione principale da opere stabili e visibili, che lo pongono in condizione “servente” rispetto a quest’ultima.
9.1.2. – La limitazione dell’indennizzo dovuto alla somma di Euro 500.000,00 non rileva, perché il risarcimento dei danni accordato ai signori Er. è notevolmente inferiore al predetto importo.
9.1.3. – Giova poi precisare che la compagnia di assicurazioni può essere tenuto a manlevare soltanto la signora Bo., cioè la “contraente”, dalle conseguenze negative derivanti dal presente giudizio, non il signor Zi., che non è parte del rapporto contrattuale intercorso con Alleanza Toro s.p.a. e comunque non è nemmeno il proprietario dell’immobile assicurato.
La domanda di garanzia impropria formulata (anche) da Fr. Zi., deve essere dunque rigettata.
9.2. – Ciò posto, nel riquadro “IV – responsabilità civile verso terzi” la signora Bo. ha dichiarato di voler estendere la “tutela” all’ipotesi contraddistinta dal numero “03”, cioè “solo proprietà abitazione”.
Le norme pattizie rilevanti per il caso di specie sono quelle contenute dall’articolo 27 in poi delle condizioni di assicurazione.
L’articolo 27 prevede la copertura per ciò che l’assicurato sia tenuto a pagare, “quale civilmente responsabile ai sensi di legge, a titolo di risarcimento (capitale, interessi e spese) di danni involontariamente cagionati a terzi per morte o lesioni personali” … “in conseguenza di un fatto accidentale verificatosi in relazione ai rischi per i quali è prestata l’assicurazione”.
L’articolo 28.2, relativo alla “proprietà dell’abitazione” (cioè proprio alla voce richiesta da An. Bo.), precisa che “l’assicurazione vale per la responsabilità civile derivante all’Assicurato per i danni di cui debba rispondere in proprio” e “comprende la responsabilità civile: a) per i danni conseguenti alla proprietà degli spazi adiacenti di pertinenza del fabbricato …; c) derivante all’Assicurato nella sua qualità di committente per i danni verificatisi durante l’esercizio di lavori di straordinaria manutenzione”.
Poiché è stato già scritto che An. Bo. deve essere considerata “committente” dell’opera richiesta a Vi. An. Fr. e che il locale il cui tetto doveva essere ristrutturato deve essere considerato “pertinenza” (in senso civilistico. Non possono pertanto essere prese in considerazione le deduzioni della difesa di Alleanza Toro s.p.a. contenute nella propria memoria di replica, che riguardano una nozione di “pertinenza” valida soltanto ai fini urbanistici) dell’abitazione indicata nella polizza “Master casa”, si devono esaminare le contestazioni della compagnia di assicurazioni in ordine all’aumento del rischio e alla qualificabilità dei lavori commissionati alla vittima come “di straordinaria manutenzione”.
9.3. – Gli articoli 52 e 55 delle condizioni di assicurazione si occupano della prima questione posta da Alleanza Toro s.p.a., rinviando alla disciplina degli articoli 1892 – 1894 e 1898 c.c..
La terza chiamata in giudizio ha sostenuto che l’esecuzione di lavori di straordinaria manutenzione “senza le necessarie autorizzazioni e dunque, senza le necessarie verifiche da parte delle autorità amministrative, costituisce circostanza che aggrava il rischio e che necessita di accettazione da parte dell’assicuratore o che comunque deve essere comunicata all’assicuratore” (si veda la pagina 4 della comparsa di costituzione e risposta di Alleanza Toro s.p.a.).
Tale essendo la specifica difesa formulata da Alleanza Toro s.p.a. (che solo nella memoria depositata il 16 febbraio 2013 ha contestato che i lavori fossero di straordinaria manutenzione), si osserva che, testualmente, il contratto di assicurazione non prevede una causa di esclusione in caso di lavori effettuati in mancanza della necessaria autorizzazione amministrativa.
La compagnia di assicurazioni evocata in giudizio ha comunque evidenziato che An. Bo. non ha osservato il canone della buona fede contrattuale e che quindi doveva comunque quantomeno segnalarle l’esistenza di lavori senza autorizzazione amministrativa.
9.3.1. – L’aggravamento del rischio consiste in un aumento delle possibilità di verificazione dell’evento assicurato, dovuto ad una situazione di eccezionale gravità, tale da alterare l’equilibrio tra il rischio e il premio oltre il limite della normale alea contrattuale (cfr. Cass. Civ. n. 2115/1996: “Di aggravamento del rischio, in relazione ad un uso del veicolo difforme da quanto dedotto nel contratto di assicurazione, può parlarsi, per gli effetti di cui all’art. 1898 c.c., solo ove ricorra una situazione non transitoria ed eccezionale, ne’ ricollegabile a comportamenti in concreto assunti dall’assicurato o dal conducente di un veicolo sottoposto ad assicurazione, e dovuta a circostanze nuove ed imprevedibili, che esponga a particolari pericoli la circolazione del mezzo assicurato”). Inoltre, nel caso in cui vi sia l’aggravamento, l’assicuratore può recedere dal contratto, entro un mese dal giorno in cui comunque ha avuto conoscenza dell’aggravamento medesimo (art. 1898 c. II c.c.).
Tale volontà non è stata espressa da Alleanza Toro s.p.a., la quale tuttavia, a parere di chi scrive, ha invocato l’applicazione dell’articolo 1898 c. IV c.c., il quale stabilisce che, ove il sinistro si verifichi prima dello spirare dei termini per la comunicazione e per l’efficacia del recesso, “l’assicuratore non risponde qualora l’aggravamento del rischio sia tale che egli non avrebbe consentito l’assicurazione se il nuovo stato delle cose fosse esistito al momento del contratto; altrimenti, la somma dovuta è ridotta”.
Non essendovi stata cioè comunicazione dell’effettuazione di lavori senza autorizzazioni amministrative, non potevano decorrere i termini per il recesso; quindi il sinistro denunciato da An. Bo. si è verificato nei termini presi in considerazione dall’articolo 1898 c. IV c.c..
La sopra cennata norma prevede la possibilità per la compagnia di assicurazioni di non pagare l’indennizzo (o di corrisponderlo in maniera ridotta rispetto a quanto è stato stabilito nel contratto) soltanto ove si provi che il contratto di assicurazione non sarebbe stato stipulato “se il nuovo stato delle cose fosse esistito al momento del contratto” o comunque sarebbe stato previsto un premio più elevato.
Alleanza Toro s.p.a. non ha però preso posizione su tale elemento, affermando – in sostanza – che l’assicurazione non può operare solo in quanto è mancata la comunicazione circa l’aggravamento del rischio.
Intesa la questione in questi termini, allora, l’eccezione di Alleanza Toro s.p.a. deve essere respinta, perché non è stato provato in giudizio nè che la terza evocata in giudizio, ove lo stato di cose venutosi a determinare fosse stato presente al momento della stipulazione del negozio giuridico, non avrebbe contrattato, né che avrebbe preteso un premio più elevato (cfr. Cass. Civ. n. 20011/2016: “Premesso che la previsione dell’art. 1898 c.c. non considera qualsiasi mutamento delle circostanze, ma solo “quei mutamenti che aggravano il rischio in modo tale che, se il nuovo stato di cose fosse esistito e fosse stato conosciuto dall’assicuratore al momento della conclusione del contratto, l’assicuratore non avrebbe consentito l’assicurazione o l’avrebbe consentita per un premio più elevato”, deve ritenersi che l’esclusione dell’indennizzo (prevista dal 5. co. dell’art. 1898 c.c.) non possa operare in difetto del positivo accertamento – da compiere in concreto e in relazione alle specifiche circostanze del caso – circa il fatto che, conosciuto il nuovo stato delle cose, l’assicuratore non avrebbe concluso il contratto (cfr. Cass. n. 2566/1978); un siffatto accertamento è mancato nel caso in esame, in cui la Corte si è limitata a rilevare che il rischio era aumentato “in modo notevole”, con un’affermazione che non può valere come implicito apprezzamento della ricorrenza di condizioni sufficienti ad escludere l’indennizzo (tanto più per il fatto che non contiene la contestuale valutazione circa la ricorrenza dell’ipotesi alternativa della riduzione della somma dovuta)”).
9.3.2. – Si osserva comunque che la realizzazione di lavori di straordinaria manutenzione rientra appieno nell’alea prevista dalle parti, e il fatto che tali lavori siano o meno cominciati con le necessarie autorizzazioni amministrative non altera di per sé il rischio assicurato. In altri termini, l’autorizzazione amministrativa non varia il rischio assicurato (cioè il rischio che in occasione dei lavori vi siano dei danni alle persone), che invece dipende dalle concrete modalità in cui l’attività viene espletata. Ovviamente l’autorizzazione edilizia è necessaria, ma la sua mancanza, ai limitati fini che qui rilevano, non aggrava né diminuisce il rischio assicurato.
9.3.3. – E’ dunque infondata l’eccezione di inoperatività della polizza a causa dell’aggravamento del rischio assicurato.
9.4. – E’ stato già scritto che Alleanza Toro s.p.a., nella propria memoria depositata il 16 febbraio 2013, ha sostenuto che i lavori svolti da Vi. An. Fr. su commissione (anche) di An. Bo. non erano “di straordinaria manutenzione”, perché si trattava di innalzare la copertura di un capanno, “con conseguente aumento dei volumi”.
Il Comune di Roccella Ionica ha concesso ad An. Bo. un permesso di costruire in sanatoria in data 16 dicembre 2008, senza specificare nel predetto provvedimento che si trattava di lavori di straordinaria manutenzione; tuttavia i due convenuti hanno allegato anche una “verifica di ammissibilità” sottoscritta dai tecnici del Comune di Roccella Ionica, in cui l’intervento è stato qualificato come di “manutenzione straordinaria” (si veda la documentazione presente all’interno del fascicoletto depositato dai due convenuti il 14 marzo 2013).
Tale valutazione deve essere presa in considerazione anche in questa sede, in quanto comunque proveniente organi qualificati dalla pubblica amministrazione deputata al controllo del corretto sviluppo edilizio del territorio.
9.4.1. – A mente dell’articolo 3 c. I lett. b) del D.P.R. n. 380/2001 nella sua formulazione vigente ratione temporis, per “interventi di manutenzione straordinaria” si intendono “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”.
In altri termini, affinché si possa configurare un intervento di manutenzione straordinaria occorre che non venga modificata la destinazione d’uso e che non venga alterata la volumetria della costruzione.
Quanto al primo punto, non risulta che con la ristrutturazione del tetto si dovesse modificare la destinazione d’uso già impressa al locale.
Indubbiamente, come ha precisato An. Pi. (si veda il verbale redatto dagli ispettori del lavoro e datato 15 ottobre 2008), l’intervento sul tetto era volto ad aumentarne la pendenza, tanto che il suo colmo doveva essere innalzato e all’uopo erano stati già realizzati dei muretti in blocchi di cemento, visibili dalle fotografie relative allo stato dei luoghi al momento del sinistro presenti all’interno del rapporto degli ispettori del lavoro datato 27 maggio 2009.
Si trattava quindi della demolizione della preesistente copertura e della sua nuova posa in opera dopo avere aumentato la pendenza del tetto.
Tale opera, volta evidentemente a favorire il deflusso delle acque piovane dal tetto verso il suolo, non determina però un aumento di volumetria rilevante ai fini che qui interessano, così come hanno precisato i due convenuti mediante il richiamo, che chi scrive ritiene pertinente, al dictum espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 14932/2008: la modificazione della copertura della modesta costruzione sopra descritta, infatti, risolvendosi esclusivamente in un miglioramento delle caratteristiche del tetto, non determina un aumento di volumetria dell’interno suscettibile di per sè di autonoma utilizzazione.
Si giunge a tale convincimento in considerazione del fatto che, come hanno scritto gli ispettori del lavoro nel loro rapporto datato 27 maggio 2009, il locale – deposito era composto da un solo vano, dalle fotografie presenti negli atti di causa si comprende che non si tratta di una costruzione particolarmente estesa e l’altezza dal suolo della “nuova” copertura era di circa 3,60 metri. Non vi sono pertanto indizi tali da far pensare alla possibilità che i signori Zi. e Bo. potessero ricavare altro spazio interno in concreto utilizzabile grazie all’aumento di pendenza del tetto.
9.5. – Insomma, poiché l’evento descritto nell’atto di citazione rientrava tra quelli indennizzabili in base al contratto di assicurazione stipulato da An. Bo., costei deve essere tenuta indenne da Alleanza Toro s.p.a. per ogni conseguenza negativa derivante dall’esito del presente giudizio, in punto di capitale (rivalutato), interessi e spese (anche legali), a mente di quanto dispone l’articolo 27 delle condizioni di assicurazione.
10. – Spese di lite.
10.1. – Per determinare la regolamentazione delle spese di lite, occorre premettere che Fe. e Fe. Er. sono vittoriosi nei confronti di Fr. Zi. e An. Bo., sia quanto alle domande proposte con l’atto di citazione, sia con riguardo alle richieste inizialmente formulate da Ad. Fr. e Al. Er..
In caso di accoglimento della domanda è necessario determinare le spese di lite tenuto conto del valore del decisum e non di quello del disputatum.
Poiché sarebbe necessario a tal fine “dividere” le somme riconosciute ai signori Er. in proprio da quelle liquidate in qualità di eredi di Ad. Fr. e Al. Er., si osserva che operando in tal modo si individuerebbe, nell’ambito della tabella n. 2 allegata al d.m. n. 55/2014, lo scaglione da Euro 5.200,00 a Euro 26.000,00 (che dovrebbe essere utilizzato per due liquidazioni). Tuttavia, in considerazione del fatto che gli interventori, pur depositando atti difensivi separati rispetto agli attori, hanno comunque sostenuto essenzialmente le medesime argomentazioni, soprattutto quando Fe. e Fe. Er. si sono costituiti anche in qualità di eredi dei terzi interventori volontari, appare congrua un’unica liquidazione in base ai valori medi dello scaglione da Euro 26.000,01 a Euro 52.000,00, a carico solidale dei due convenuti e in favore solidale dei due signori Er., in proprio e nella predetta qualità. Le spese di lite devono essere distratte ex art. 93 c.p.c. in favore dell’avv. Pa. Ma., la quale ha reso la dichiarazione di cui alla predetta norma sia per gli attori che per i terzi interventori volontari.
10.2. – Quanto al rapporto tra i convenuti e Alleanza Toro s.p.a., poiché la domanda di manleva proposta da Fr. Zi. è infondata, costui è soccombente nei confronti della terza chiamata in giudizio, mentre An. Bo. è vittoriosa.
In caso di rigetto di una domanda sarebbe necessario liquidare i compensi di avvocato in base al valore di questa.
Nel caso di specie si può comunque individuare (per la domanda proposta da Fr. Zi.) lo scaglione indeterminabile “basso”, cioè quello da Euro 26.000,01 a Euro 52.000,00 poiché, anche se le questioni affrontate dalle parti sono state numerose, per ciò che concerne il rapporto di garanzia non si ravvisa una particolare complessità delle stesse.
Dunque Fr. Zi. deve rifondere in favore di Alleanza Toro s.p.a. le spese di lite sostenute da quest’ultima, mentre la compagnia di assicurazioni deve essere condannata al pagamento delle medesime in favore di An. Bo. (le cui spese non imponibili vengono riconosciute per la metà, poiché sono state poste in essere anche nell’interesse del soccombente Fr. Zi.).
P.Q.M.
Il Tribunale di Locri, Sezione Civile, in persona del giudice unico dott. Giuseppe Cardona, definitivamente pronunciando sulle domande proposte nel presente giudizio da Er. Fe. e Er. Fe., in proprio e in qualità di eredi degli interventori volontari Fr. Ad. e Er. Al., contro Zi. Fr. e Bo. An., nonché nei confronti di Alleanza Toro s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattese, così provvede:
1) accoglie per quanto di ragione la domanda di risarcimento dei danni avanzata dai due attori – interventori volontari nei confronti dei due convenuti e per l’effetto condanna Zi. Fr. e Bo. An., in solido tra loro, al pagamento
1.1) in favore di Er. Fe., in proprio e nella qualità, della somma di Euro 13.848,34, devalutata alla data del 1° agosto 2008 e quindi rivalutata anno per anno in base agli indici Istat Foi dalla predetta data fino alla pubblicazione della sentenza, oltre interessi legali sugli importi via via annualmente rivalutati dal 1° agosto 2008 fino al soddisfo;
1.2) in favore di Er. Fe., in proprio e nella qualità, della somma di Euro 13.848,34, devalutata alla data del 1° agosto 2008 e quindi rivalutata anno per anno in base agli indici Istat Foi dalla predetta data fino alla pubblicazione della sentenza, oltre interessi legali sugli importi via via annualmente rivalutati dal 1° agosto 2008 fino al soddisfo;
2) rigetta la domanda formulata da Zi. Fr. nei confronti di Alleanza Toro s.p.a.;
3) accoglie la domanda di garanzia impropria proposta da Bo. An. e per l’effetto dichiara che Alleanza Toro s.p.a. è tenuta a manlevare Bo. An. da quanto da quest’ultima pagato (per sorte capitale, interessi, rivalutazione e spese) a Er. Fe. e a Er. Fe. per effetto della presente pronuncia;
4) condanna Zi. Fr. e Bo. An., in solido tra loro, a rifondere in favore solidale di Er. Fe. e Er. Fe., in proprio e nella qualità, le spese di lite sostenute da questi ultimi, liquidate in Euro 7.254,00 per compensi e in Euro 467,00 per spese non imponibili, oltre rimborso spese forfettarie del 15% sui compensi, c.p.a. e i.v.a. come per legge, distratte ex art. 93 c.p.c. in favore dell’avv. Pa. Ma.;
5) condanna Zi. Fr. a rifondere in favore di Alleanza Toro s.p.a. le spese di lite sostenute da quest’ultima, liquidate in Euro 7.254,00 per compensi, oltre rimborso spese forfettarie del 15%, c.p.a. e i.v.a. come per legge;
6) condanna Alleanza Toro s.p.a. a rifondere in favore di Bo. An. le spese di lite sostenute da quest’ultima, liquidate in Euro 7.254,00 per compensi e in Euro 5,00 per spese non imponibili, oltre rimborso spese forfettarie del 15% sui compensi, c.p.a. e i.v.a. come per legge.
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