TRIBUNALE DI MILANO – Ordinanza 01 agosto 2019
Straniero – Accoglienza dei richiedenti protezione internazionale – Disposizione inserita dal decreto-legge n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni, nella legge n. 132 del 2018 – Previsione che il permesso di soggiorno per richiesta di asilo, rilasciato al richiedente protezione internazionale, non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica. – Decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142
Con ricorso ex artt. 28 d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150 e 44 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, nonché ex art. 702 bis c.p.c., il signor H A , nato a il , ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano il Comune di Milano e il Ministero dell’Interno, chiedendo, previa occorrendo rinvio alla Corte Costituzionale, la dichiarazione di invalidità e l’accertamento del carattere discriminatorio del rifiuto opposto dal Comune di Milano alla iscrizione del ricorrente nell’anagrafe della popolazione residente.
A sostegno delle proprie richieste, il ricorrente ha premesso:
– di aver fatto ingresso in Italia il 16 novembre 2015 e di aver fatto richiesta di protezione internazionale;
– in attesa della individuazione dello Stato membro competente all’esame della sua domanda, il 16 ottobre 2018 ha ottenuto permesso di soggiorno c.d. Dublino con validità sino al 15 gennaio 2019 (doc. 1 prodotto dal ricorrente);
– di aver quindi ottenuto, ed essere tuttora in possesso, di permesso di soggiorno per richiesta asilo valido sino al 14 luglio 2019 (doc. 2 prodotto dal ricorrente);
– di aver sempre alloggiato presso, ove abitualmente dimora;
– di aver fatto domanda al Comune di Milano di iscrizione anagrafica di residenza al predetto indirizzo;
– di aver ricevuto dal Comune la comunicazione datata 29 ottobre 2018 di “annullamento pratica iscrizione anagrafica” così motivata: “con l’entrata in vigore in data 5 ottobre 2018 del d.l. n. 113/2018 (Disposizioni in materia di iscrizione anagrafica – art. 13) si comunica l’annullamento della Sua pratica di residenza in quanto il permesso di soggiorno per richiedenti protezione internazionale non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del d.P.R. n. 223/1989 e dell’art. 6, comma 7, d. lgs. n. 286/1998” (doc. 3 prodotto dal ricorrente);
– di avere interesse concreto e attuale a ottenere una pronuncia di accertamento del carattere discriminatorio del rifiuto di iscrizione all’anagrafe opposto dal Comune di Milano e del proprio diritto all’iscrizione anagrafica in quanto “non varrebbe invocare l’art. 13, comma 1, lettera b) del D.L. n. 113/18 (che ha sostituito il comma 3 dell’art. 5 del D.lgs n. 142/15) secondo cui ‘l’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1 e 2’. Infatti, l’iscrizione anagrafica costituisce un diritto soggettivo volto a identificare la persona sancendone l’appartenenza a una comunità locale; questa sua funzione non può essere sostituita dalla mera garanzia di erogazione dei servizi. E tanto basterebbe a sorreggere l’interesse ad agire del ricorrente. Comunque, la mancanza di iscrizione anagrafica comporta, pur in presenza della citata norma, il venir meno o la difficoltà di esercizio di molteplici diritti. Si consideri in particolare quanto segue:
a) La norma citata (art. 13, comma 1, lett. b) DL 113/18) riguarda solo l’erogazione servizi pubblici, non i rapporti con i privati che hanno evidente interesse a identificare la persona (ad es. nel caso di stipulazione di un contratto) anche mediante l’indicazione del luogo di residenza anagrafica. La mancanza di iscrizione anagrafica pregiudica quindi il richiedente asilo nella sua libertà contrattuale che è invece garantita a parità di condizioni con il cittadino italiano a tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti, ai sensi dell’art. 2, comma 2, TU immigrazione.
b) A ciò si aggiunga che la norma, anche per quanto riguarda i servizi pubblici, appare incompleta perché – pur garantendo l’accesso ai servizi – nulla dice in ordine alle modalità paritarie o meno di accesso, sicché sono già stati segnalati casi di amministrazioni che, ai fini di servizi comunali quali mensa o trasporto scolastico, applicano ai richiedenti asilo domiciliati nel comune la tariffa massima prevista per i non residenti.
c) Qualora la domanda di protezione sfoci in un accoglimento, il ricorrente avrebbe un rilevantissimo danno derivante dal mancato computo del periodo trascorso come richiedente asilo (periodo che può estendersi fino a uno o due anni, talvolta di più) al fine dell’esercizio di tutti quei diritti che sono collegati alla durata della residenza: in primo luogo il diritto alla acquisizione della cittadinanza (art. 9 della Legge 5 febbraio 1992 n. 91 che collega la maturazione del requisito alla ‘residenza legalè); in secondo luogo i diritti sociali quali l’accesso alla edilizia popolare (cfr., ad es. l’art. 22, c. l, lettera b) L.R. Lombarda 8.7.16 n.16 recante ‘Disciplina regionale dei servizi abitativì che prevede il requisito della ‘residenza anagraficà nella Regione da almeno 5 anni), l’accesso al cd. reddito di cittadinanza (cfr. art. 2, comma 1, lett. a) del Decreto Legge 28 gennaio 2019 n. 4 recante ‘Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e pensionì che prevede il requisito della residenza in Italia per almeno 10 anni), l’accesso alle prestazioni regionali che sono normalmente collegate, in tutte le Regioni, alla residenza continuativa in Regione da un certo numero di anni.
d) riferimento normativo al ‘luogo di domiciliò quale luogo di erogazione dei servizi, espone poi gli interessati a contestazioni e a ostacoli pratici che rendono l’accesso ai servizi da parte dei richiedenti asilo enormemente più difficile: si consideri che mentre l’iscrizione anagrafica è soggetta a una procedura di controllo da parte degli enti locali nei 45 giorni successivi alla domanda (cfr. art. 18 bis D.P.R. 223/89), la ‘dichiarazione di domiciliò ai sensi dei commi l e 2 dell’art. 5 Dlgs n. 142/15 è atto del tutto unilaterale, che può prescindere dalla dimora abituale e che per di più è rivolto ad un ufficio (la Questura) diverso dal Comune, tenuto alla erogazione dei servizi: è quindi agevole prevedere che l’ente locale potrà opporre ostacoli rifiutandosi di fare affidamento sulla dichiarazione del ricorrente di essere domiciliato in uno o altro Comune. Si consideri inoltre che ad oggi non risulta emanata da nessuna amministrazione alcuna circolare esplicativa che preveda l’equiparazione tra domicilio e residenza, mentre disposizioni come quella relativa alla iscrizione al centro per l’impiego continuano a fare riferimento alla sola residenza anagrafica (art. 11 lettera c del D.Lgs. 14 settembre 2010 n. 150 in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive che pone i servizi per l’impiego a disposizione di tutti i ‘residenti sul territorio italianò) con conseguente impossibilità del richiedente asilo di accedere al lavoro, in violazione dell’art. 25 del Decreto Legislativo 19 novembre 2007 n. 251, il quale dispone che ‘I titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria hanno diritto di godere del medesimo trattamento previsto per il cittadino italiano in materia di lavoro subordinato, lavoro autonomo, per l’iscrizione agli albi professionali, per la formazione professionale, compresi i corsi di aggiornamento, per il tirocinio sul luogo di lavoro e per i servizi resi dai centri per l’impiego di cui all’art. 4 del decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469’.
e) Diversi statuti comunali prevedono poi diritti di partecipazione popolare all’amministrazione locale, diritti dei quali il richiedente asilo non iscritto all’anagrafe resterebbe invece privo.
f) Inoltre, in base alla nuova normativa, lo straniero titolare di permesso di soggiorno per richiesta di asilo – non disponendo della carta d’identità – ha l’onere di esibire copia della domanda di protezione internazionale o copia della successiva dichiarazione di domicilio fatta presso la Questura. Così al fine di accedere ai servizi (ad esempio per accedere al Servizio Sanitario Nazionale) o a fronte di qualsiasi necessità di identificazione, mentre per gli altri stranieri regolarmente soggiornanti è sufficiente esibire la carta di identità lo straniero titolare di permesso di soggiorno per richiesta di asilo sarà tenuto a esibire quest’ultimo documento per attestare il suo domicilio: il che indirettamente viola l’obbligo di riservatezza delle informazioni concernenti le domande di protezione internazionale, previsto dall’art. 37 Decreto Legislativo 28 gennaio 2008 n. 25, in attuazione dell’articolo 48 della Direttiva 2013/32/UE recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale.”
Il ricorrente ha quindi chiesto di accertare il carattere discriminatorio del diniego alla iscrizione anagrafica, per violazione del principio di parità di trattamento tra cittadini italiani e stranieri, in materia di iscrizioni anagrafiche, stabilito dall’art. 6, comma 7, d.lgs. n. 286/1998 e art. 15 d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, nonché per violazione del principio paritario, sotto il profilo della nazionalità, stabilito dall’art. 3 Cost., dall’art. 14 CEDU, dall’art. 43 d.lgs. n. 286/1998. La discriminazione è stata prospettata anche rispetto a stranieri in possesso di una diversa tipologia di permesso di soggiorno.
In via autonoma, ha chiesto di accertare l’illegittimità del rifiuto del Comune alla sua iscrizione all’anagrafe dei residenti e di ordinare al Ministero dell’Interno, e per esso al Sindaco del Comune di Milano nella sua qualità di ufficiale del governo per l’esercizio delle funzioni di ufficiale dell’anagrafe ai sensi dell’art. 3 1. 24 dicembre 1954, n. 1228, di procedere all’iscrizione. Qualora necessario il ricorrente ha altresì domandato “la previa rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett a), n. 2, d.l. 4 ottobre 2018 n. 113, convertito in l. 1° dicembre 2018 n. 132, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 16 e 77 della Costituzione, nonché all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione ai seguenti parametri interposti: artt. 8 e 14 CEDU, art. 2 Protocollo 4 CEDU, artt. 2 e 6 TUE, artt. 15, 18, 21, 34 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 6, paragrafo 6, e art. 7 della direttiva 2013/33/UE e artt. 12 e 26 del Patto internazionale per i diritti civili e politici”.
Nelle more della instaurazione del contraddittorio, hanno depositato congiunto atto di intervento ex art. 105, comma 1, c.p.c. la ASGI – Associazione degli studi giuridici sull’Immigrazione e la associazione Avvocati per Niente Onlus deducendo la natura collettiva della discriminazione, come emergente dalla posizione assunta dal Comune di Milano (doc.2) e dal Ministero dell’Interno con la circolare n. 15 del 18 ottobre 2018, illustrativa delle modifiche legislative qui in rilievo (doc.3), nonché aderendo alla prospettazione del ricorrente quanto alla natura discriminatoria del diniego all’iscrizione anagrafica.
Hanno concluso con richiesta di accertare e dichiarare il carattere discriminatorio dei comportamenti tenuti dal Ministero dell’Interno (nella emanazione della circolare n. 15/2018, nella parte in cui ha comunicato ai prefetti e agli altri destinatari della stessa che i richiedenti asilo non hanno più diritto alla iscrizione anagrafica per effetto della entrata in vigore dell’art. 13 d.l. 113/2018) e dal Sindaco del Comune di Milano nella sua qualità di ufficiale della anagrafe, nel diniego di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo.
Si sono inoltre costituiti i convenuti resistenti Ministero dell’Interno e Comune di Milano.
Con comparsa del 14 giugno 2019, si è costituito il Ministero degli Interni eccependo, in via pregiudiziale, il difetto di interesse ad agire del ricorrente. A detta del Ministero, infatti, una pronuncia giurisdizionale favorevole e, prima ancora, l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente non produrrebbero alcuna utilità effettiva in capo al ricorrente, a cui è comunque garantito l’esercizio dei diritti e delle facoltà rispetto alle quali l’iscrizione nell’anagrafe è strumentale. Ciò in quanto l’art. 13 d.l. n. 113/2018, dopo aver escluso che il permesso di soggiorno per richiesta d’asilo costituisca titolo per l’iscrizione anagrafica, dispone comunque che l’accesso ai servizi previsti dal d.lgs. n. 142/2018 e a quelli erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti debba essere assicurato nel luogo di domicilio del richiedente asilo, senza che la residenza – la cui individuazione presuppone, appunto, l’iscrizione anagrafica – possa acquisire qualsivoglia rilievo. Ancora, sempre in via pregiudiziale, il Ministero dell’Interno ha eccepito l’inammissibilità dell’azione in materia di discriminazione, in quanto proposta in assenza dei presupposti di legge. Quella disciplinata dall’art. 28 d.lgs. n. 150/2011 è un’azione tipica, esperibile unicamente nei casi tassativi indicati dal primo comma mediante rinvio all’art. 44 d.lgs. n. 286/1998 (azione civile contro la discriminazione “per motivi razziali, etnici, linguistici, nazionali, di provenienza geografica o religiosi”), senza che nessuno di queste ipotesi tassative di discriminazione possa ravvisarsi nel caso di specie: secondo la difesa dell’amministrazione, infatti, il fattore che ha sorretto il provvedimento di diniego di iscrizione è esclusivamente lo status di richiedente asilo del ricorrente, non assumendo rilievo alcuno la sua razza, la sua etnia, la sua lingua, la sua religione, la sua nazionalità o la sua provenienza geografica.
Rispetto agli intervenuti volontari, la difesa del Ministero ha rilevato l’insussistenza del presupposto dell’art. 5 d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215 e, con riferimento alle sole censure rivolte alla circolare del ministero, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, l’incompetenza per territorio di questo Tribunale in favore del Tribunale di Roma ai sensi degli artt. 19 e 25 c.p.c. e l’assenza di ragione di connessione con le domande del ricorrente H A .
Con riferimento a tali ultime domande, la difesa del Ministero ha quindi concluso con la richiesta di dichiarare l’incompetenza territoriale a favore del Tribunale ordinario di Roma.
Nel merito, invece, ha chiesto di respingere tanto il ricorso quanto le domande svolte dagli intervenienti poiché entrambe inammissibili e comunque infondate.
Con comparsa depositata del 12 giugno 2019, si è costituito il Comune di Milano, eccependo in via preliminare il difetto di legittimazione passiva del Sindaco quale organo di vertice dell’amministrazione comunale, ricordando che la tenuta dei registri di stato civile e di popolazione è compito del Sindaco nella sua qualità di ufficiale del governo. Ha quindi rivendicato la legittimità del suo operato poiché, a seguito dell’introduzione dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, come interpretato dalle circolari del Ministero dell’Interno del 18 ottobre 2018 (doc.3) e 18 dicembre 2018 (doc.4), egli era vincolato a negare l’iscrizione anagrafica del richiedente. Pertanto, la natura vincolata del diniego d’iscrizione escluderebbe, secondo quanto sostenuto dal Comune, il carattere discriminatorio dell’azione amministrativa e determinerebbe, il rigetto dal ricorrente.
La difesa del Comune ha inoltre richiamato le pronunce dì merito che hanno ritenuto di adottare un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, introdotto dall’art.13 d.l. n. 113/2018, convertito in l. n. 132/2018, e ha chiesto di “adottare ogni più opportuna decisione circa la possibile interpretazione costituzionalmente orientata” della citata norma. In subordine ha sollecitato la rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità” dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015 per contrasto con gli artt. 2, 3 e 10 Cost.”
All’udienza del 26 giugno 2019, acquisita nuova documentazione dalle difese del ricorrente e del Ministero (giurisprudenza e provvedimenti di altre autorità comunali sulla questione), dopo ampia discussione tra le parti, questo giudice si è riservato di decidere.
1. Interesse ad agire del sig. A .
Come noto, l’interesse ad agire richiede non solo l’accertamento di una situazione giuridica, ma anche che la parte prospetti l’esigenza – di ottenere un risultato utile, giuridicamente apprezzabile, e non conseguibile senza l’intervento del giudice.
Secondo il consolidato insegnamento della Suprema Corte, l’interesse ad agire, previsto quale condizione dell’azione dall’art. 100 c.p.c., va identificato in una situazione di carattere oggettivo derivante da un fatto lesivo, inteso in senso ampio, di un diritto che, senza l’intervento del giudice resterebbe sfornito di tutela, con conseguente danno per l’attore. Da ciò consegue che tale interesse deve avere necessariamente carattere attuale, poiché solo in tal caso trascende il piano di una mera prospettazione soggettiva assurgendo a giuridica ed oggettiva consistenza, (cfr., ex multis, Cass. n. 24434/2007, n. 2617/2006, n. 17815/2005, n. 685/93).
Rinviando, per un maggiore approfondimento, ai paragrafi dedicati alla situazione giuridica soggettiva vantata dal ricorrente e alla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, basti qui rilevare che il sig. A vanta un effettivo interesse ad agire che scaturisce dall’impossibilità di vedersi iscritto all’anagrafe del Comune in cui ha stabilito la propria dimora abituale.
L’intervento del giudice, infatti, si dimostra indispensabile per rimediare alla lesione che la condotta dell’amministrazione ha cagionato al diritto soggettivo di iscrizione anagrafica, il cui corretto soddisfacimento sarebbe capace di garantire al ricorrente un’utilità ulteriore rispetto a quella derivante dall’accesso ai servizi e dall’esercizio dei diritti e delle facoltà rispetto alle quali l’iscrizione nell’anagrafe è strumentale. L’iscrizione anagrafica, infatti, è direttamente collegata alla dignità personale e sociale dell’individuo, alla sua capacità di identificazione, appartenenza e, in senso più ampio, integrazione con la comunità locale, che a loro volta costituiscono passaggi indispensabili per la concretizzazione del progetto fondante la nostra Costituzione, ossia assicurare all’individuo – legalmente presente nel territorio italiano – una vita libera e degna.
Ancora, la mancata iscrizione anagrafica comporta un immediato – e non meramente ipotetico o futuro – nocumento in capo al ricorrente laddove esclude a priori il computo del periodo trascorso come richiedente asilo (periodo che può estendersi ben al di là dei sei mesi per cui viene inizialmente rilasciato il permesso di soggiorno in questione) al fine dell’esercizio di tutti quei diritti che sono collegati alla durata della residenza. Qualora la domanda di protezione venga accolta – ossia nell’ipotesi che costituisce la ragione naturale per cui la disciplina sull’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale è stata introdotta prima nell’ordinamento sovranazionale e poi in quello italiano -, il ricorrente vedrebbe inoltre indebitamente frustrati diritti quali quello alla acquisizione della cittadinanza (art. 9 l. 5 febbraio 1992, n. 91, che collega la maturazione del requisito alla “residenza legale”), oppure altri diritti sociali – non ricompresi tra quelli per cui il d.l. n. 113/2018 ha affermato la rilevanza del mero domicilio – quali, ad esempio, l’accesso alla edilizia popolare (si veda l’art. 22, comma 1, lett. b), l.r. Lombardia 8 giugno 16, n. 16 recante “Disciplina regionale dei servizi abitativi” che prevede il requisito della “residenza anagrafica” nella Regione da almeno 5 anni) o l’accesso al “Reddito di cittadinanza” (art. 2, comma 1, lett. a), d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 recante “Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e pensioni” che prevede il requisito della residenza in Italia per almeno 10 anni).
Deve, pertanto, ritenersi sussistente l’interesse ad agire in capo al sig. A .
2. Presenza dei presupposti per l’esercizio dell’azione antidiscriminatoria.
Ai sensi dell’art. 43, comma 1, d.lgs. n. 286/1998: ” […] costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.
In più, ai sensi del successivo comma 2: “In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, Io discriminino ingiustamente”.
Quest’ultima ipotesi, dunque, appare ravvisabile nel caso di specie: in presenza di una disciplina generale, dettata dall’art. 6, comma 7, d.lgs.n. 286/1998 che prevede il trattamento uguale di cittadini italiani e stranieri legalmente residenti ai fini dell’iscrizione anagrafica, l’ufficiale dell’anagrafe del Comune di Milano ha negato l’iscrizione all’attuale ricorrente in quanto straniero titolare di un permesso di soggiorno come richiedente asilo. Ciò in applicazione della normativa speciale sub art. 13, comma 1, lett. a), n. 2), d.l. n. 113/2018, che – interpretata conformemente a quanto risulta dalla relazione introduttiva alla legge di conversione del decreto, oltre che alle circolari ministeriali esplicative della nuova disciplina – preclude in toto l’iscrizione di tali soggetti all’anagrafe dei residenti.
E’ così riscontrabile uno dei presupposti per l’esercizio dell’azione antidiscriminatoria, sussistendo un trattamento ingiustificatamente differenziato in considerazione della nazionalità del richiedente l’iscrizione: se il ricorrente fosse italiano, la sua iscrizione non sarebbe stata negata. Considerato come la condotta dell’amministrazione sia espressione dell’unica interpretazione possibile della summenzionata previsione derogante al principio di eguale trattamento di cittadini italiani e stranieri in relazione all’iscrizione anagrafica, l’azione antidiscriminatoria si rivela il corretto contesto in cui sollevare la questione di legittimità costituzionale relativa all’4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2) d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018, il cui accoglimento non solo priverebbe di fondamento normativo l’azione dell’anagrafe comunale, ma costituirebbe dimostrazione inconfutabile del carattere discriminatorio dell’azione amministrativa (Cass. civ., Sez. un., 29 aprile 2016, n. 7951).
Ancora, non esclude la configurazione di una discriminazione sulla base dell’origine nazionale il fatto che la mancata iscrizione anagrafica non riguardi tutti gli stranieri, ma solo quelli titolari di permesso di soggiorno per richiesta di asilo: ciò non impedisce che l’azione amministrativa posta in essere dall’anagrafe del Comune di Milano colpisca sistematicamente solo ed esclusivarnente degli stranieri, proprio per il loro essere stranieri, compromettendo il soddisfacimento di un loro diritto e dando luogo a un trattamento più sfavorevole rispetto a quello assicurato ai cittadini italiani.
Da ciò, dunque, la sussistenza dei presupposti per il ricorso allo strumento processuale preposto alla repressione delle condotte discriminatorie.
3. Legittimazione passiva del Comune di Milano.
Il Comune di Milano (pur senza formulare sul punto specifica domanda conclusiva) ha rilevato il proprio difetto di legittimazione passiva precisando che il Sindaco, quale organo di vertice dell’amministrazione comunale, è estraneo ai compiti e alle funzioni connesse alla tenuta dei registri della popolazione residente.
Va rilevato che, come riconosciuto dalla stessa difesa, sono stati evocati in giudizio sia il Comune di Milano in persona del Sindaco pro tempore, sia il Sindaco nella sua qualità di ufficiale del governo per l’esercizio delle funzioni di ufficiale dell’anagrafe ai sensi dell’art. 3 l. n. 1228/1954; e il Sindaco si è costituito in tale duplice veste.
Ciò consente di ritenere correttamente instaurato il contraddittorio, oltre che con il Ministero dell’Interno, anche con il Sindaco nella sua qualità di Ufficiale del Governo, al quale sono riferibili gli atti compiuti in tale veste, quale è il diniego all’iscrizione all’anagrafe dei residenti.
4. Legittimazione attiva delle associazioni.
Il Ministero ha eccepito la inammissibilità dell’intervento di ASGI e di Avvocati per niente Onlus.
L’intervento, qualificato in via principale dalle parti come “intervento litisconsortile o adesivo autonomo”, è svolto come azione antidiscriminatoria collettiva ex art. 5 d.lgs. n. 215/2003 diretta, a far accertare e dichiarare il carattere discriminatorio del comportamento del Ministero dell’Interno “consistente nella emanazione della circolare n. 15/2018” e ordinare al Ministero “di revocare o modificare la predetta circolare”.
In questi termini, come posto in evidenza dalla difesa del Ministero, le censure rivolte alla circolare ministeriale n. 15/2018 esulerebbero dalla giurisdizione del giudice ordinario.
Va tuttavia considerato che l’intervento è stato spiegato anche come “mero intervento adesivo dipendente a sostegno delle domande proposte dal sig. A ” ed in questa prospettiva è pienamente ammissibile.
5. Diritto vantato dal ricorrente.
Il diritto soggettivo all’iscrizione anagrafica è la situazione giuridica soggettiva di cui è titolare il ricorrente e di cui lo stesso lamenta una lesione a fronte della condotta discriminatoria dell’amministrazione. La qualificabilità di tale posizione come diritto soggettivo consegue della definizione dell’ordinamento delle anagrafi della popolazione residente come strumento giuridico-amministrativo di documentazione e conoscenza, predisposto tanto nell’interesse dell’amministrazione, quanto nell’interesse dei privati. Infatti, all’esigenza di conoscere la popolazione residente, espressione di un interesse pubblico, fa da contraltare l’interesse individuale ad ottenere le certificazioni anagrafiche necessarie per l’esercizio dei diritti civili e politici e, in generale, per provare la residenza e lo stato dì famiglia (così Cass. civ., Sez. un., 19 giugno 2000, n. 449). Il carattere vincolato dei poteri amministrativi in materia di iscrizioni anagrafiche, poi, fuga ogni dubbio sulla natura del suddetto interesse privato: l’assenza di discrezionalità e l’attività di mero accertamento demandata all’amministrazione esclude la configurabilità di interessi legittimi in capo ai singoli individui, i quali saranno di conseguenza titolari di diritti soggettivi.
D’altra parte, la lettura della disciplina concernente l’ordinamento delle anagrafi della popolazione residente dimostra come l’iscrizione anagrafica non sia solamente un diritto per il soggetto che abbia dimora abituale in un comune italiano, ma costituisca un obbligo (art. 2 l. n. 1228/1954) la cui violazione viene punita tramite l’applicazione di una sanzione amministrativa (art. 11 L. n. 1228/1954).
Trova così conferma il duplice interesse (privatistico e pubblicistico) perseguito con l’iscrizione anagrafica, da cui discende la duplice natura (rispettivamente, diritto e obbligo) della situazione giuridica di cui è titolare il soggetto che soddisfi i requisiti previsti dalla legge per procedere all’iscrizione anagrafica.
Per espresse previsioni normative tale ragionamento è estendibile anche agli stranieri e, quindi, assume piena rilevanza per il caso di specie.
Guardando infatti agli stranieri che, a seguito di immigrazione dall’estero, abbiano deciso di stabilire la propria dimora abituale in un comune italiano, da un lato, l’art. 6, comma 7, d.lgs. n. 286/1998 riconosce la titolarità del diritto all’iscrizione anagrafica “alle medesime condizioni dei cittadini italiani”, fissando come naturale presupposto quello della regolarità della presenza sul territorio nazionale. Ciò è ulteriormente confermato dal regolamento attuativo del Testo Unico sull’Immigrazione (d.P.R., n. 394/1999), ai sensi del cui art. 15 le iscrizioni e le variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate nei casi e secondo i criteri previsti dalla L. n. 1228/1954 e dal regolamento anagrafico della popolazione residente (d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223).
Dall’altro lato, la 1. n. 1228/1954 conferma la configurabilità di un obbligo di iscrizione anagrafica anche in capo ai migranti, dedicando una specifica disciplina all’ipotesi di violazione di questo obbligo con l’introduzione di una sanzione amministrativa più elevata rispetto a quella prevista per i cittadini italiani (art. 11).
L’obbligo di iscrizione anagrafica dello straniero legalmente soggiornante è poi confermato anche dal regolamento di attuazione della l. n. 1228/1954, il quale espressamente richiede allo straniero che trasferisce la residenza dall’estero di comprovare, all’atto della dichiarazione di trasferimento, la propria identità mediante l’esibizione del passaporto o di documento equipollente (art. 14, comma 1, d.P.R. n. 223/1989). Quest’ultima documentazione, dunque, si aggiunge a quella che deve in ogni caso accompagnare la dichiarazione di trasferimento, volta a dimostrare la configurabilità di una dimora abituale nel comune di interesse, nonché – per lo straniero – la sua regolare presenza sul territorio italiano.
Alla luce del quadro appena descritto, l’iscrizione anagrafica si dimostra un passaggio necessario, anche per lo straniero, sia al fine del soddisfacimento di un diritto sia per l’adempimento di un obbligo giuridico, entrambi caratterizzanti il rapporto che si instaura con l’autorità pubblica.
6. Rilevanza.
A fronte del summenzionato quadro normativo generale, la disciplina speciale introdotta dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2), d.l. n. 113/2018 e la sua conformità alla Costituzione acquisiscono immediata rilevanza ai fini della risoluzione del caso concreto.
Ai sensi del suddetto art. 13, comma 1, lett. a), n. 2), infatti: “dopo il comma 1 [dell’art. 4, d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142 ], è inserito il seguente: «1-bis. Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 [ossia, il permesso di soggiorno per i richiedenti asilo] non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”.
Tanto l’amministrazione comunale quanto quella ministeriale hanno riconosciuto, da parte loro, come questa disposizione non lasci alcun margine di discrezionalità al Sindaco, in qualità di Ufficiale dell’anagrafe, dovendosi essa interpretare come introduzione di un diniego generalizzato di iscrizione anagrafica per gli stranieri legalmente soggiornanti sul territorio italiano a titolo di richiedenti asilo.
L’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, come introdotto dall’art. 13 d.l. n. 113/2018, dunque, racchiude una deroga, chiara e univoca, tanto alle norme generali in materia d’iscrizione anagrafica, quanto a quelle dedicate agli stranieri dal Testo Unico sull’Immigrazione, rispetto alle quali prevale, oltre che come norma speciale, anche in quanto norma più recente. Al diritto di iscrizione anagrafica riconosciuto dall’art. 6, comma 7, d.lgs. n. 286/1998 agli stranieri legalmente soggiornati, in via generale e in parità di condizioni con i cittadini italiani, fa così eccezione il divieto di iscrizione per la particolare categoria degli stranieri richiedenti asilo.
Il fatto che l’ufficiale dell’anagrafe non avrebbe potuto agire in altro modo se non negando l’iscrizione all’anagrafe del richiedente asilo è, poi, conseguenza delle indicazioni fornite dal Ministero dell’Interno con le proprie circolari n. 15/2018 e n. 0083774/2018, vincolanti per gli ufficiali dello stato civile ai sensi dell’art. 9, comma 1, d.P.R. 396/2000, ed entrambe univoche nel sostenere l’interpretazione per cui, successivamente all’entrata in vigore del d.l. n. 113/2018, al richiedente asilo sarebbe sempre preclusa l’iscrizione anagrafica.
Dunque, l’applicazione dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, come introdotto dall’art. 13 d.l. n. 113/2018 costituisce la sola ragione del diniego dell’iscrizione anagrafica del sig. A . come traspare anche dalla motivazione stessa del provvedimento contestato: “con l’entrata in vigore in data 5 ottobre 2018 del D.L. n. 113/2018 (Disposizioni in materia di iscrizione anagrafica – l’art. 13)”, “il permesso di soggiorno per richiedenti protezione internazionale non costituisce più titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del D.P.R. 223/89 e dell’art. 6, comma 7, del D.Lgs n. 286/1998”.
D’altra parte, è fuori di dubbio che il caso di specie sia sussumibile nella disciplina introdotta dal d.l. n. 113/2018.
Prima di tutto, il sig. A era qualificabile al momento di presentazione della domanda di iscrizione anagrafica (ed è tuttora), ai sensi dell’art. 2 d.lgs. n. 142/2015, come richiedente asilo, avendo presentato domanda di protezione internazionale su cui non è ancora stata adottata una decisione definitiva.
L’avere presentato domanda di asilo ha poi comportato il rilascio di apposito permesso di soggiorno, atto a garantire la permanenza legale dello straniero nel territorio fino a che la summenzionata decisione definitiva sul suo status non venga adottata.
Irrilevante, ai fini della presente questione, è il fatto che inizialmente (16 ottobre 2018 – 15 gennaio 2019) fosse stato rilasciato un permesso di soggiorno ed. “Dublino”, e solo successivamente (15 gennaio 2019 -14 luglio 2019) un permesso di soggiorno per richiesta asilo. Infatti, il permesso di soggiorno cd. “Dublino” è pur sempre un permesso di soggiorno rilasciato al richiedente protezione internazionale nei cui confronti, però, sia stata attivata la procedura per la determinazione dello Stato competente alla presa in carico della domanda di protezione.
Dunque, lo si ribadisce, il sig A è richiedente asilo, così come lo era al momento di presentazione della domanda di iscrizione anagrafica, e proprio tale qualifica ha impedito l’accoglimento dell’istanza dallo stesso presentata al Comune di Milano.
Proprio la data di presentazione della domanda preclude, da parte sua, ogni dubbio quanto all’applicabilità al caso di specie della novella del 2018 sotto il profilo dell’efficacia temporale: come dimostrato dal Comune (doc. 1), l’istanza è stata sottoscritta e presentata il 22 ottobre 2018, ossia successivamente all’entrata in vigore del d.l. n. 113/2018 (5 ottobre 2018).
A ultima conferma della rilevanza, per l’ipotesi in analisi, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2) d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018, si segnala come il sig. A abbia accompagnato la propria domanda di iscrizione non solo con la presentazione del proprio permesso di soggiorno quale richiedente asilo, documento che sarebbe dovuto essere idoneo a dimostrare l’identità e la legalità del soggiorno del richiedente, ma con ulteriore documentazione atta ad avvalorare la sua regolare presenza sul territorio italiano e, soprattutto, a dimostrare di avere stabilito dimora abituale nel Comune di Milano (codice fiscale; contratto di comodato stipulato tra Regione Lombardia e l’ente ” ” avente ad oggetto l’immobile di ; dichiarazione di assenso del titolare del contratto a ospitare il richiedente nell’immobile di , con copia del documento di identità; dichiarazione di ospitalità sottoscritta dal presidente di e riferita al richiedente).
Documentazione che, però, ha perso ogni rilievo stante l’automatismo del diniego di iscrizione frutto della sola qualifica del sig. A come richiedente asilo e, dunque, frutto dell’applicazione del suddetto art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015.
Perciò, ad avviso di questo giudice, la questione di costituzionalità dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2) d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018, è rilevante e, come si vedrà in seguito, non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 77, 117, comma 1, Cost.
La caducazione della previsione introdotta dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 113/2018, infatti, pur non comportando la reintroduzione della disciplina di favore prevista dall’art. 5 bis d.lgs. n. 142/2015, consentirebbe ai richiedenti asilo di procedere all’iscrizione anagrafica alle medesime condizioni degli altri stranieri regolari e, prima ancora, dei cittadini italiani, conformemente a quanto previsto dall’art. 6, comma 7, TUI e alla normativa in materia di iscrizione anagrafica (1. n. 1228/1954 e relativo regolamento di attuazione).
7. Impossibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata.
Come noto, qualora una disposizione sia suscettibile di essere interpretata secondo il canone della c.d. interpretazione costituzionalmente orientata, il giudice deve applicarla in tal senso ed evitare di sollevare la questione di legittimità alla Corte costituzionale. Tale insegnamento è stato peraltro ribadito da ultimo dalla Corte nella pronuncia con cui ha dichiarato l’inammissibilità delle questioni sollevate da alcune regioni proprio con riferimento a talune disposizioni del d.l. n. 113/2018, tra cui anche l’art. 13: “La doverosa applicazione del dato legislativo in conformità agli obblighi costituzionali e internazionali potrebbe rivelare che il paventato effetto restrittivo rispetto alla disciplina previgente sia contenuto entro margini costituzionalmente accettabili. Diversamente questa Corte potrà essere adita in via incidentale, restando ovviamente impregiudicata, all’esito della presente pronuncia, ogni ulteriore valutazione di legittimità costituzionale della disposizione in esame.” (Corte cost., sent. 20 giugno 2019, dep. 24 luglio 2019, n. 194, par. 7.8).
Occorre, dunque, operare il preliminare vaglio di interpretabilità in conformità alla Costituzione della disposizione che questo giudice deve applicare nel caso di specie e, a tale fine, non si può prescindere da un’analisi del confronto tra il testo oggi vigente e quello in vigore prima della promulgazione del d.l. n. 113/2018 non solo dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, ma altresì degli artt. 5 e 5 bis del medesimo testo di legge.
Proprio sulla base del criterio di interpretazione sistematica, invero, alcuni tribunali hanno ritenuto possibile una applicazione in conformità alla Costituzione dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2) d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018. Hanno cioè ritenuto che, nonostante tale disposizione sia di difficile comprensione, alla luce del quadro normativo, costituzionale ed eurounitario di riferimento, essa debba essere intesa nel senso di escludere che il permesso di soggiorno per richiesta di asilo costituisca di per sé titolo per l’iscrizione automatica all’anagrafe basata sulla sola domanda di protezione e sull’inserimento nella struttura di accoglienza, senza che ciò preluda comunque in toto la possibilità di iscrizione anagrafica di questa categoria di stranieri (in tal senso Trib. Firenze, ord. 18 marzo 2019, giud. Carvisiglia; Trib. Bologna, ord. 2 maggio 2019, giud. Betti; Trib. Genova, ord. 20 maggio 2019, giud. Di Sarno).
Il Tribunale di Firenze, in particolare, ha specificato che le modifiche normative introdotte con il d.l. n. 113/2018 implicano che il permesso di soggiorno in Italia per richiesta di asilo non è (più) titolo idoneo a comprovare la regolarità del soggiorno ai fini dell’iscrizione anagrafica, ma che tale condizione giuridica può essere provata attraverso altri documenti che attestino l’avvio del procedimento volto al riconoscimento della fondatezza della pretesa di protezione, quali il c.d. “modello C3” oppure il documento nel quale la questura attesta che il richiedente ha formalizzato l’istanza di protezione internazionale.
In definitiva, secondo questa impostazione, dall’intervento normativo di cui al d.l. n. 113/2018 non può desumersi un divieto di iscrizione anagrafica per il richiedente asilo ma, solamente, l’abrogazione della modalità semplificata di iscrizione all’anagrafe per i richiedenti asilo prevista dall’art. 5 bis d.lgs. 142/2015, introdotto dalla l. n. 46/2017.
Questa impostazione non appare però condivisibile.
Da un lato, infatti, non vi è dubbio – anche ai sensi del primo comma dell’art. 4 d.lgs. 142/2015 – che il permesso di soggiorno per richiesta asilo costituisca documento di riconoscimento e di attestazione della permanenza sul territorio nazionale del migrante a qualsiasi fine.
Dall’altro lato, a voler ritenere corretta l’impostazione poc’anzi descritta, non si comprenderebbe l’utilità dell’introduzione del nuovo comma I bis dell’art. 4 d.lgs. 142/2015. Al fine di far venir meno la procedura semplificata di iscrizione all’anagrafe per il richiedente asilo sarebbe infatti stato sufficiente abrogare l’art. 5 bis d.lgs. 142/2015 e, conseguentemente, l’iscrizione all’anagrafe del richiedente asilo sarebbe stata garantita dalla procedura ordinaria prevista dal combinato disposto del d.P.R. n. n. 223/1989, e dell’art. 6, comma 7, d.Igs. n. 286/1998.
Dalla lettura del comma 1 bis dell’art. 4 d.lgs. n. 142/2015 non può dunque ricavarsi il significato secondo cui per l’iscrizione anagrafica il richiedente asilo deve fornire all’amministrazione comunale un documento diverso dal permesso di soggiorno; si desume, invece, la contrarietà dell’ordinamento all’iscrizione anagrafica di chi è regolarmente sul territorio italiano in forza di un permesso di soggiorno per richiesta di asilo. E ciò secondo un’interpretazione letterale, sistematica e teleologica, che tenga in considerazione la (chiara) “intenzione del legislatore”.
Quest’impostazione è condivisa, inoltre, dal Tribunale di Trento che, nell’ordinanza dell’11 giugno 2019, ha rigettato la domanda cautelare proposta da un richiedente asilo volta a ottenere la propria iscrizione nel registro anagrafico del comune di Bolzano motivando in questi termini: “[…] il giudicante osserva che la norma di cui all’art. 4 comma 1 bis della legge 142/2015, così come modificata dall’art. 13 del d.l. 113/2018 introduce un regime di carattere peculiare per i richiedenti protezione internazionale, permettendo agli stessi di avere un permesso di soggiorno temporaneo, nell’attesa della definizione della loro domanda di protezione internazionale.
Lo straniero si trova, così, in una posizione di permanenza sul territorio italiano, in virtù di regolare temporaneo titolo di soggiorno, costituente anche documento di identità, ma al contempo, la situazione di incertezza sulla sua futura condizione di soggetto meritevole di protezione internazionale o meno ha fatto ritenere al legislatore di non farlo iscrivere nel registro anagrafico della popolazione residente, garantendo al medesimo, però, l’accesso ad una serie di diritti, che tutelano la sua persona, nell’attesa dell’esito del procedimento volto al riconoscimento della protezione internazionale.
La norma si presenta, pertanto, a carattere speciale, rispetto a quella di cui all’art. 6 comma VII del Testo Unico in materia di immigrazione e risulta dettata per far fronte al dilagante fenomeno migratorio, garantendo ai richiedenti protezione la possibilità di soggiornare sul territorio italiano, con la garanzia di avere la possibilità di accesso ad una serie di servizi e prestazioni di natura assistenziale.
In questo senso, si ritiene che il parametro di interpretazione estensiva, proposto da parte della ricorrente, con riferimento al suddetto art. 6 comma VII del Testo Unico in materia di immigrazione, che prevede il diritto degli stranieri ad avere l’iscrizione anagrafica nel Comune di residenza, risulti ultroneo rispetto alla palese chiarezza della relativa normativa richiamata, di cui all’art. 4 comma 1 bis della legge 142/2015, così come modificato dall’art. 13 del d.l. 113/2018, che esclude, per tabulas la possibilità per il richiedente protezione di ottenere l’iscrizione anagrafica nel comune, ove è di fatto residente.
Inoltre, si deve osservare che una interpretazione della suddetta norma, in senso costituzionalmente orientato, può effettuarsi alla condizione che il testo normativo da applicare non venga del tutto stravolto, nel suo significato palese, altrimenti effettuare operazione di tal fatta, equivarrebbe a rendere non applicabili norme, espungendole di fatto dall’ordinamento giuridico, atto questo vietato all’operatore giuridico, dovendo, semmai, il giudice sollevare questione di legittimità costituzionale, per violazione dei parametri della Carta fondamentale” (Trib. Trento, ord. 11 giugno 2019, giud. Tamburrino; di analogo tenore, Trib. Trento, ord. 15 giugno 2019, giud. Alinari).
L’esito di rigetto della domanda cui perviene il Tribunale di Trento non è però condiviso da questo giudice, dal momento che la disciplina prevista dal d.lgs. n. 142/2015 – così come risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 113/2018 – è discriminatoria e presenta profili non conformi ai dettami costituzionali. Ciononostante, nel rispetto del ruolo del legislatore e della divisione dei poteri che conforma il nostro ordinamento, non è possibile per il giudice forzare il dato letterale e far dire alla legge qualcosa di ulteriore e diverso rispetto al suo significato linguistico, neppure nell’apprezzabile intento di ricondurlo entro parametri costituzionalmente accettabili.
Occorre dunque interrogarsi sulla questione preliminare riguardante la corretta interpretazione della norma in esame, tenendo conto dei suddetti criteri letterali, sistematici e teleologici.
Innanzitutto pare, a questo giudice, incontrovertibile la chiara intenzione di negare tout court la possibilità di iscriversi alle liste anagrafiche allo straniero in possesso del solo permesso di soggiorno per richiesta di asilo, emergente – oltre che dall’inequivoco tenore letterale della disposizione, di cui si diceva – da un’interpretazione sistematica della complessiva disciplina, come risultante dalla recente modifica legislativa. A tal fine, basti qui osservare che se non fosse invero preclusa in toto l’iscrizione anagrafica del richiedente asilo, non avrebbe senso quanto (oggi) previsto dall’art. 13, comma 1, lett. b), n. 1, d.l. n. 113/2018, che ha modificato l’art. 5, comma 3, d.lgs. n. 142/2015. In base a quest’ultima previsione, l’accesso ai servizi garantiti ai richiedenti asilo sulla base del d.lgs. n. 142/2015 è oggi assicurato nel luogo del domicilio e non più nel luogo di residenza: se per i richiedenti asilo fosse ancora possibile l’iscrizione all’anagrafe, non si comprenderebbe l’utilità e il significato di tale novella.
Né può trascurarsi il chiaro intento legislativo che sorregge una tale interpretazione.
A tal fine è sufficiente menzionare i lavori preparatori alla legge di conversione del d.l. n. 113/2018 (Atto del Senato della Repubblica n. 840 del 2018) in cui si chiarisce che “L’articolo 13 prevede che il permesso di soggiorno per richiesta asilo non consente l’iscrizione all’anagrafe dei residenti, fermo restando che esso costituisce documento di riconoscimento. L’esclusione dall’iscrizione all’anagrafe non pregiudica l’accesso ai servizi riconosciuti dalla legislazione vigente ai residenti asilo (iscrizione al servizio sanitario, accesso al lavoro, iscrizione scolastica dei figli, misure di accoglienza) che si fondano sulla titolarità del permesso di soggiorno. L’esclusione dall’iscrizione anagrafica si giustifica per la precarietà del permesso per richiesta asilo e risponde alla necessità di definire preventivamente la condizione giuridica del richiedente”; nonché le circolari del Ministero dell’Interno del 18 ottobre 2018, n. 15 e del 18 dicembre 2018, n. 0083774, vincolanti per gli ufficiali dello stato civile ai sensi dell’art. 9, comma 1, d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, ed entrambe univoche nel sostenere l’interpretazione secondo cui, successivamente all’entrata in vigore del d.l. n. 113/2018, al richiedente asilo è preclusa l’iscrizione anagrafica.
Ebbene, nell’interpretazione di un atto normativo (e in particolare di un atto normativo ‘giované, come quello di cui si discute) non può prescindersi da una attenta ricostruzione dei lavori preparatori e di quella che era l’intenzione del legislatore in quel momento, anche sulla base delle dichiarazioni esternate dagli esponenti politici: questi dati forniscono, infatti, la chiave di lettura di quello che è stato l’intendimento dei rappresentanti democraticamente legittimati a comporre il potere legislativo.
Nell’ipotesi sottoposta all’esame di questo giudice, il testo di legge è estremamente recente (il d.l. n. 113/2018 è stato invero emanato il 4 ottobre 2018 e convertito in legge il 1° dicembre 2018) e la volontà politica del legislatore è perfettamente intellegibile. Ne sono ben consapevoli anche i sostenitori di un’interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione in esame, come ben emerge dalla motivazione dell’ordinanza del Tribunale di Firenze citata. L’iter argomentativo del Tribunale di Firenze muove, infatti, dall’idea di svalutare il criterio storico dell’interpretazione, ossia quel criterio che si fonda sulla ricostruzione della volontà dei soggetti che hanno materialmente partecipato al procedimento legislativo. La tesi è quella di valorizzare la voluntas legis in senso obiettivo:
ciò che conta, cioè, non è l’interesse che intendeva perseguire il redattore della norma, ma la volontà che si desume dal testo normativo, dal sistema giuridico in cui la norma è inserita, e dalla finalità di tutela che risulta dalla norma stessa. Una impostazione che poggia invero sull’assunto secondo cui nell’operare una interpretazione aderente all’”intenzione del legislatore”, ai sensi dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile, deve farsi riferimento all’intenzione del legislatore obiettivata nella norma: l’interprete non può, dunque, ritenersi vincolato a cercare un significato conforme alla ‘volontà politicà di cui la norma è, storicamente, un prodotto; la legge, una volta approvata, “si stacca” dall’organo che l’ha prodotta e non viene più in rilievo come una ‘decisioné legata a ragioni e fini di chi l’ha voluta, ma come un testo legislativo inserito nell’insieme dell’ordinamento giuridico” (Trib. Firenze, ordinanza citata, par. 2).
Tuttavia, è stato di recente segnalato come l’idea della voluntas legis obiettiva possa tradursi in un espediente atto a legittimare delle decisioni antidemocratiche, sostituendo la valutazione del giurista, non democraticamente legittimato, a quella del legislatore.
Per essere fedeli al principio democratico, la volontà soggettiva del legislatore che ha emanato la disposizione da interpretare è un dato che, a parere di questo giudice, non può essere ignorato, tanto più se ci si colloca in un tempo vicino a quello in cui è intervenuta la promulgazione della disposizione. Tale principio è tanto più stringente quando anche gli altri criteri interpretativi – in particolar modo quello letterale e quello sistematico, cui si faceva riferimento in precedenza – depongono nel senso di individuare un unico, preciso significato della disposizione normativa: quello che nega al richiedente asilo, tout court, la possibilità di iscriversi alle liste anagrafiche.
La norma che univocamente si trae dall’analisi della disposizione di cui all’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, come introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 113/2018, tuttavia – come si diceva – è in grado di vulnerare i diritti costituzionalmente tutelati del richiedente asilo che si evidenzieranno di seguito.
8. Non manifesta infondatezza.
Come già anticipato, la disposizione che questo giudice deve applicare per decidere il caso sottoposto alla sua attenzione dal ricorrente è l’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, come introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 113/2018, convertito nella legge 132/2018. Tale disposizione appare però in contrasto con gli artt. 2, 3, 10, 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 2, § 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (di seguito, Cedu), nonché in riferimento agli artt. 14 Cedu e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881.
Oltre ai vizi di legittimità costituzionale che attengono al contenuto dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, appare però opportuno affrontare in via preliminare un motivo di illegittimità procedurale attinente al procedimento legislativo con cui la disposizione censurata è stata introdotta.
Il d.l. n. 113/2018 – e, specificamente, l’art. 13, co. 1, lett. a), n. 2 di tale decreto, che ha introdotto l’art. 4, comma l bis, d.lgs. n. 142/2015 – appare invero radicalmente affetto da illegittimità per la carenza dei requisiti stabiliti dall’art. 77, secondo comma, Cost., così come interpretati dall’evoluzione della giurisprudenza costituzionale.
8.1. Art. 77 Cost.
La Corte costituzionale da almeno trent’anni ha mostrato un crescente impegno nel ripristinare l’equilibrio istituzionale nell’uso della decretazione d’urgenza: un percorso che ha inizialmente riguardato le note decisioni sul divieto di reiterazione del decreto legge non convertito entro i termini sanciti dall’art. 77 Cost., e che si è esteso poi in un sindacato sempre più penetrante con riferimento tanto ai presupposti di necessità e urgenza, quanto ai limiti della sua emendabilità in sede di conversione.
La Corte ha in particolare evidenziato in plurime occasioni che la mancanza evidente del presupposto dei casi straordinari di necessità e urgenza rende incostituzionale il ricorso al decreto legge, e che tale vizio non è sanato dalla successiva conversione in legge (cfr., ex multis, Corte cost. senti. nn. 29/1995, 154/2015, e, più di recente, nn. 99 e 137 del 2018; sulla inidoneità della legge di conversione a sanare il vizio, cfr. seni. n. 171/2007).
Nel caso di specie, difetta una motivazione circa la necessità e urgenza di introdurre il divieto di iscrizione all’anagrafe per chi permanga legittimamente sul territorio nazionale in attesa di ricevere risposta alla propria richiesta di asilo. Le scarne indicazioni circa il profilo di necessità e urgenza che ha mosso il Governo a introdurre per mezzo di decreto legge le disposizioni che compongono il Titolo I del d.l. 113/2018 (Disposizioni in materia di rilascio di speciali permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario nonché in materia di protezione internazionale e di immigrazione) attengono alle seguenti ragioni: assicurare l’effettività dei provvedimenti di rimpatrio di coloro che non hanno titolo a soggiornare nel territorio nazionale; assicurare l’accurato svolgimento delle istanze di riconoscimento e della concessione della cittadinanza in costante incremento in conseguenza della crescita della popolazione straniera; assicurare la massima accuratezza nell’istruttoria avviata per la valutazione di tali istanze in ragione dell’accresciuta minaccia terroristica internazionale e dei preoccupanti fenomeni di contraffazione dei documenti dei Paesi d’origine prodotti dai richiedenti; assicurare adeguate politiche di prevenzione della minaccia terroristica anche connessa al fenomeno dei cosiddetti foreign fighters.
Anche a voler ritenere che queste esigenze siano tutelabili attraverso il ricorso alla decretazione d’urgenza, è però evidente come la disciplina prevista con l’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2, d.l. 113/2018 non incida in alcun modo sulla sicurezza nazionale, sull’efficacia dei provvedimenti di rimpatrio di chi permane sul territorio italiano senza titolo, ovvero sulla necessità di svolgere un’accurata istruttoria delle istanze di riconoscimento o di concessione della cittadinanza. Del resto, una volta stabilito che i titolari di permesso per richiesta di asilo permangono legittimamente sul suolo nazionale, il fatto che essi possano o meno iscriversi all’anagrafe dei residenti in alcun modo ostacola le esigenze di tutela che la decretazione d’urgenza intende garantire. Anzi, a ben vedere, una corretta prospettazione sulle liste dell’anagrafe di chi effettivamente permane in un determinato Comune altro non farebbe che facilitare l’azione dell’ente territoriale e degli organi di sicurezza.
Inoltre, anche a voler ritenere che la disciplina prevista dalla disposizione in esame afferisca a una più efficiente ed efficace gestione del fenomeno migratorio, essa costituisce una incisiva riforma, coinvolgente delicate scelte di natura politica e giuridica, che avrebbe richiesto un adeguato dibattito parlamentare, possibile solo ove si fossero seguite le ordinarie procedure di formazione della legge ex art. 72 Cost.
Dibattito parlamentare che, per effetto del “voto di fiducia” posto in entrambi i rami del Parlamento in occasione delle votazioni della legge di conversione, è stato totalmente escluso anche solo in relazione a eventuali proposizioni di emendamenti della normativa da approvare.
Oltre al difetto dei requisiti di necessità e urgenza, la disposizione di cui all’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2 d.l. 113/2018 si pone altresì in contrasto con il requisito di omogeneità del contenuto del decreto legge. Tale contenuto, invero, secondo l’art. 15, co. 3. 1. 40/1998 “deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo” e, ancorché la disposizione da ultimo citata, essendo di rango ordinario, non assurga direttamente a parametro di legittimità costituzionale, essa tuttavia “costituisce esplicazione della ratio implicita nel secondo comma dell’art. 77 Cost., il quale impone il collegamento dell’intero decreto-legge al caso straordinario di necessità e urgenza” (Corte cost., sent. n. 22 del 2012, n. 3.3. del Considerato in diritto).
L’intero decreto legge n. 113/2018 appare privo della necessaria omogeneità dato che prevede disposizioni su materie del tutto diverse fra loro che attengono, indifferentemente, alla disciplina dei casi di permesso di soggiorno per motivi umanitari, al contrasto dell’immigrazione illegale, al contrasto al terrorismo e alla criminalità mafiosa, alla riorganizzazione dell’amministrazione civile del Ministero dell’interno e al funzionamento dell’agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.
8.2. Art. 2 Cost.
Quanto alle censure relative al contenuto della disposizione di cui all’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2), d.l. n. 113/2018, convertito nella l. n. 132/2018, la questione di legittimità costituzionale appare, ad avviso di questo giudice, non manifestamente infondata in relazione, in primo luogo, all’art. 2 Cost.
Come già ampiamente argomentato, la disposizione in questione, nell’unica lettura ammissibile, comporta il diniego generalizzato del diritto di iscrizione anagrafica per gli stranieri legalmente soggiornanti sul territorio italiano in qualità di richiedenti asilo.
La Corte Costituzionale ha oramai da tempo abbracciato una concezione dell’art. 2 Cost. quale “norma di apertura”, idonea a ricondurre sotto la garanzia costituzionalmente prevista per i diritti inviolabili anche ipotesi non esplicitamente contemplate nella Legge fondamentale, o che non siano direttamente desumibili dalle stesse. Vero punto di svolta è stata la pronuncia C. cost., 18 dicembre 1987, n. 561, che ha riconosciuto come “fondamentale” il diritto alla libertà sessuale, non presente in Costituzione, seguita da altre decisioni a conferma, come quelle che hanno ricondotto all’art. 2 Cost., ex pluribus, il diritto sociale all’abitazione (C. cost., 7 aprile 1988, n. 404 e ID., 19 novembre 1991, n. 419), il diritto alla vita (C. cost., 27 giugno 1996, n. 223 e ID., 10 febbraio 1997, n. 35), il diritto di abbandonare il proprio paese (C. cost., 17 giugno 1992, n. 278), il diritto all’identità personale (C. cost., 3 febbraio 1994, n. 13; ID., 23 luglio 1996, n. 297; ID., 11 maggio 2001, n. 120; ID., 21 dicembre 2016, n. 286), il diritto al rispetto e alla libera esplicazione della personalità (C. cost., 30 luglio 1997, n. 283), il diritto alla famiglia (C. cost., 22 novembre 2013, n. 278).
La Corte ha così suggerito un carattere dinamico dell’inviolabilità, che muta al mutare della società, con un’apertura dei diritti inviolabili che non significa però una loro indeterminatezza, dovendo e potendo essere ricompresi nel loro novero solo quelli che siano riconducibili al cuore del progetto costituente, ossia quello di predisporre per ciascun consociato le condizioni per il conseguimento di una vita libera e degna.
Così, la dignità umana diventa tratto comune o, meglio, punto di arrivo di questi diritti inviolabili.
La centralità della persona, d’altronde, trova diretto riscontro nel testo della norma che, nell’individuare i soggetti a cui i diritti inviolabili devono essere riconosciuti, non fa riferimento all’individuo in quanto partecipe di una determinata comunità politica, ma in quanto essere umano, parlando di riconoscimento e garanzia, da parte della Repubblica, dei diritti fondamentali dell’uomo (così, C. cost. 105/2001).
Che la dignità umana e, quindi, i diritti necessari alla sua garanzia non spettino solo ai cittadini trova inconfutabile conferma nei principi di eguaglianza e di parità sociale contenuti nel successivo art. 3 Cost. Prima di tutto, la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto come “il testuale riferimento dell’art. 3, comma 1, Cost. ai soli cittadini non esclude […] che l’eguaglianza davanti alla legge sia garantita agli stessi stranieri dove si tratti di assicurare la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo” (così, testualmente, C. cost. 54/1979; vedasi anche, C. cost. 120/1967; ID., 21/1968; ID., 104/1969; ID., 144/1970; ID., 177/1974; ID., 244/1974 e ID., 490/1988) o che “quando venga in gioco il riferimento al godimento dei diritti inviolabili dell’uomo il principio costituzionale di eguaglianza in generale non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero” (C. cost. 62/1994).
I diritti inviolabili, dunque, rappresentano campo privilegiato di applicazione del principio di uguaglianza, così da assicurare una loro pari titolarità al cittadino e allo straniero.
Questo riconoscimento in favore dello straniero non ha però impedito alla Corte di specificare ulteriormente la questione, affermando come “tra cittadino e straniero, benché uguali nella titolarità di certi diritti di libertà, esistano differenze di fatto che possano giustificare un loro diverso trattamento nel godimento di quegli stessi diritti” (C. cost. 104/1969).
Da un lato, dunque, l’espressione “certi diritti” demarca l’esigenza di discernere tra diritti inviolabili spettanti solo al cittadino e diritti spettanti al cittadino e allo straniero, dall’altro, assume rilevanza l’esigenza di distinguere tra titolarità – estesa a tutti – e godimento – differentemente modulabile – di un diritto inviolabile.
In quest’ottica, la Corte ha introdotto il concetto di “nucleo irriducibile” dei diritti inviolabili che, per i diritti non limitati ai cittadini, deve essere sempre e comunque riconosciuto a tutti (C. cost. 252/2001). L’accesso e il godimento di quella porzione di diritto involabile che eccede questo ‘nucleò, invece, ricadono nel margine di discrezionalità spettante al legislatore: in questo caso, la differenza di trattamento tra cittadino e straniero è ammissibile, ma, ad ogni modo, deve restare circoscritta entro il limite per cui la disparità di trattamento non sconfini nell’irragionevolezza.
Rinviando l’approfondimento su tale profilo al successivo punto riguardante la non manifesta infondatezza del contrasto con l’art. 3 della novella del 2018, in questa sede non resta che evidenziare come il diritto all’iscrizione anagrafica ricada tra i diritti che hanno come punto di approdo ultimo quello della dignità umana, nella sua dimensione individuale e sociale.
L’iscrizione anagrafica, infatti, diventa presupposto dell’identificazione di se stessi anche e soprattutto mediante lo sviluppo di un senso di appartenenza con la comunità locale presso cui si decide di fissare la propria stabile dimora. Senso di appartenenza che, dunque, è prodromico all’inserimento dell’individuo nella società al cui interno egli può avere pieno e libero svolgimento della propria personalità, come riconosciuto dall’art. 2 Cost.
L’iscrizione anagrafica, quindi, diventa passo essenziale di quel processo di integrazione a cui sono chiamati tanto lo straniero quanto la società presso cui egli si stabilisce: anche qualora si tratti di uno straniero richiedente asilo, a fronte dell’innegabile regolarità della sua presenza sul territorio italiano per tutto il tempo necessario alla definizione della sua richiesta. Questo in considerazione del fatto che, al di là delle tempistiche tutto fuorchè istantanee con cui può essere definito il suo status, la transitorietà è legittimamente riferibile solo al suo status di richiedente asilo, ma non alla sua presenza sul suolo italiano: l’intera disciplina dell’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, infatti, non può che ritenersi strutturata attorno all’ipotesi dello straniero che sia effettivamente titolare del diritto d’asilo, per il quale il processo di integrazione (e la presenza sul territorio italiano) costituisce un fluire ininterrotto che inizi quale richiedente e continui quale titolare di protezione internazionale.
Infine, anche da un punto di vista simbolico, negare l’iscrizione anagrafica significa lasciare l’individuo al margine della collettività stessa, confinandolo in un “non luogo” giuridico e sociale che appare sicuramente come un limite alla libera e dignitosa crescita della sua personalità e che difficilmente può ritenersi compatibile con l’impegno alla partecipazione alla vita economica, sociale e culturale che lo stesso legislatore individua come momento saliente del processo di integrazione (art. 4 bis TUI). Basti pensare che l’iscrizione anagrafica è condizione per il rilascio della carta di identità: un documento che, anche su un piano meramente evocativo, esprime una maggiore identificazione con la comunità in cui ci si inserisce rispetto al solo permesso di soggiorno che, invece, comunica sempre e comunque una sensazione di estraneità.
Diventa così irrilevante il fatto che l’accesso ai servizi sociali generalmente erogati in base alla residenza – e, dunque, all’iscrizione anagrafica – venga ora garantito in base al domicilio, poiché il divieto di iscrizione anagrafica lede un diritto autonomo e presupposto rispetto a questi ulteriori diritti sociali.
Allo stesso modo, la suesposta violazione dell’art. 2 Cost. si verifica anche trascendendo dalla (tutto fuorchè trascurabile) presenza nel nostro ordinamento – già evidenziata nella precedente sezione dedicata all’interesse ad agire – di diritti sociali, a loro volta fondamentali e inviolabili, la cui titolarità deriva sempre e comunque dalla durata della residenza sul territorio italiano (diritto all’acquisto della cittadinanza, all’accesso all’edilizia popolare, all’accesso al reddito di cittadinanza, ecc.).
Tutto ciò posto, non rimane che confermare come il diritto di iscrizione anagrafica sia – fuori ogni dubbio – un diritto di cui possono essere titolari anche gli stranieri. Come già visto, infatti, tale diritto è riconosciuto, alle medesime condizioni che ai cittadini italiani, anche agli stranieri legalmente soggiornanti (cfr., in primis„ l’art. 6, comma 7, TUI), tra cui certamente ricadono anche gli stranieri richiedenti asilo titolari di apposito permesso.
D’altra parte, ciò che sembra comportare l’applicazione dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2) d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018, non è una (ragionevole) compressione del diritto in questione, conforme al principio dell’ammissibilità del diverso trattamento nel godimento dei diritti tra italiani e stranieri, quanto piuttosto una sua negazione totale in capo a una specifica categoria di stranieri, senza che possa ravvisarsi alcun margine di conservazione di un suo ‘nucleo essenzialè.
8.3. Art. 3 Cost.
La questione, anche alla luce di quanto già esposto, appare inoltre non manifestamente infondata in relazione all’art. 3 Cost. la cui applicabilità agli stranieri è pacificamente riconosciuta dalla Corte costituzionale.
All’applicabilità in astratto del principio di eguaglianza agli stranieri si aggiunge, nel caso di specie, il suo espresso riconoscimento normativo in relazione al diritto di iscrizione anagrafica: l’art. 6, comma 7, TUI introduce come regola generale, infatti, quella dell’iscrivibilità degli stranieri legalmente soggiornanti in Italia all’anagrafe della popolazione residente, alle medesime condizioni dei cittadini italiani. L’art. 4, comma l bis, d.lgs. n. 142/2015, come introdotto dall’art. 13 d.l. n. 113/2018, costituisce così una deroga a tale disciplina generale disponendo, come già argomentato, la non iscrivibilità di una particolare tipologia di stranieri legalmente soggiornati sul territorio nazionale – i richiedenti asilo – all’anagrafe della popolazione residente.
D’altra parte, tale deroga non appare capace di soddisfare i requisiti di razionalità e ragionevolezza che costituiscono i parametri tradizionalmente adottati dalla Corte per svolgere il giudizio costituzionale di eguaglianza.
Il primo comporta una verifica della coerenza tra la norma soggetta a sindacato di costituzionalità e le altre disposizioni normative nella stessa materia, così da verificare se sussista una congruità dispositiva o, invece, vi siano contraddizioni insanabili (in questo senso, C. cost., n. 10/1980).
La presenza di contraddizioni insanabili tra l’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015 e il contesto normativo in cui esso si inserisce appare, a questo punto, configurabile sotto una serie di profili, ulteriori rispetto al contrasto tra la previsione in esame e il diritto, per tutti gli stranieri legalmente presenti sul territorio, all’iscrizione anagrafica.
Primo sintomo dell’irrazionalità della norma e del trattamento differenziato che essa introduce è la sua incoerenza con le finalità perseguite dal legislatore mediante l’adozione del d.l. n. 113/2018, all’interno del quale si colloca la disposizione stessa.
Negare l’iscrizione anagrafica ai richiedenti asilo significa limitare, in primo luogo, le capacità di controllo e monitoraggio dell’autorità pubblica su una categoria di stranieri, rendendo più incerti i dati relativi alla loro presenza sul territorio e ai loro spostamenti. Ciò mal si coniuga, come detto, con le finalità perseguite dal decreto, tra cui compaiono l’esigenza di rafforzare i dispositivi a garanzia della sicurezza pubblica e il potenziamento delle misure di rimpatrio. Limitare le informazioni sulla localizzazione di una categoria di stranieri caratterizzata dalla precarietà del loro diritto di permanenza sul suolo nazionale (quanto meno secondo l’ottica seguita dal legislatore nel negare loro l’iscrizione anagrafica) non appare compatibile con tali esigenze. Questa inconciliabilità logica rende così plausibile l’assenza di giustificazioni della disciplina derogatoria introdotta con il d.l. n. 113/2018 al generale regime di uguaglianza tra italiani e stranieri nel diritto all’iscrizione anagrafica.
Tutto ciò trova ulteriore conferma se si ragiona sulla coerenza tra l’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015 e la disciplina dell’ordinamento delle anagrafi della popolazione residente. La presenza di una sanzione specificamente indirizzata a tutti gli stranieri – quindi anche i richiedenti asilo – che non procedano ad iscrizione anagrafica (art. 11 1. n. 1228/1954) altro non fa che ribadire la natura obbligatoria di tale iscrizione (art. 2 1. n. 1228/1954), che risulta così chiaramente preposta al soddisfacimento di primari interessi pubblici, tra cui proprio quello di assicurare la puntuale conoscenza dei soggetti presenti sul territorio italiano e, dunque, anche la sicurezza pubblica. E’ palese la contraddizione di una normativa che, da un lato, impedisce allo straniero di iscriversi all’anagrafe e, dall’altro, individua nell’iscrizione un obbligo rafforzato da una sanzione amministrativa, per di più senza che la disciplina del 2018 contenga una deroga espressa a tale obbligo (e a tale sanzione) per i richiedenti asilo.
Da ultimo, negare l’iscrizione anagrafica ai richiedenti asilo mostra la sua incoerenza con le finalità perseguite dal d.lgs. a 142/2015, al cui art. 4 si inserisce la modifica apportata dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 113/2018. La direttiva n. 33/2013, recepita tramite il d.lgs. n. 142/2015, mira infatti a introdurre una disciplina di garanzia e tutela per i richiedenti asilo, diretta a creare “uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia aperto a quanti, spinti dalle circostanze, cercano legittimamente protezione nell’Unione”. Di talché, gli specifici obiettivi di migliorare l’accoglienza e, soprattutto, di “garantire un livello di vita dignitoso” al richiedente asilo non sembrano affatto compatibili con l’istituzione di un non necessario ostacolo all’integrazione e al libero sviluppo individuale dello straniero qual è la negazione del diritto d’iscrizione anagrafica, come già sopra argomentato.
Passando al controllo sulla ragionevolezza dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, anch’esso dimostra l’assenza di una giustificazione al trattamento differenziato tra richiedenti asilo e cittadini italiani, nonché tra richiedenti asilo e gli altri stranieri legalmente presenti sul territorio nazionale.
In generale, possono considerarsi violative del principio costituzionale di uguaglianza le deroghe alla disciplina generale di una materia, prive di giustificazione adeguata, capaci di introdurre ipotesi ingiustificate di disparità di trattamento, per esempio imponendo sacrifici irragionevoli ad una categoria di soggetti (così C. cost., nn. 4, 24, 76/1994; e ID., 285/1995).
Prima di tutto, risulta difficile (se non impossibile) comprendere quale sia l’interesse che il legislatore ha perseguito nell’introduzione del divieto di iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo, che fornirebbe una motivazione al sacrificio imposto a questa categoria di stranieri: il diniego di iscrizione anagrafica, come già evidenziato, né apporta ulteriori garanzie alla sicurezza pubblica, né facilita l’espulsione di stranieri irregolari, né può considerarsi un passo mosso verso una più efficiente accoglienza di questi soggetti. Non si coglie quale vantaggio – anche meramente economico – derivi dunque alla Repubblica da tale previsione.
Né, d’altra parte, lo status di richiedente presenta in concreto caratteristiche tali da legittimare l’esclusione dal diritto di iscrizione anagrafica.
Per un’ultima volta, anche i richiedenti asilo sono soggetti legalmente presenti sul territorio italiano, proprio come attesta il rilascio di un apposito permesso di soggiorno. Non appare ragionevole, poi, giustificare il diniego di iscrizione anagrafica a fronte della provvisorietà del diritto di soggiorno. Prima di tutto, ad essere provvisorio è solo lo status di richiedente asilo, il quale è destinato a tramutarsi – nell’ipotesi fisiologica – in status di titolare di protezione internazionale, la cui regolare presenza sul territorio italiano prosegue, senza soluzione di continuità alcuna. D’altra parte, non sembra razionale porre a fondamento della negazione del diritto di iscrizione anagrafica la diversa ipotesi in cui lo straniero richiedente asilo si veda negata la protezione internazionale: questo, come già sottolineato, si porrebbe in contrasto con la ratio del d.lgs. n. 142/2015, che ha come obiettivo principe l’accoglienza dei richiedenti protezione, nell’ottica di una loro futura stabilizzazione, e non del loro allontanamento.
Anche da un punto di vista materiale, non risulta convincente parlare di precarietà della presenza dello straniero sul suolo italiano: il permesso di soggiorno per richiedenti asilo ha scadenza semestrale, rinnovabile fino alla decisione della domanda.
Quest’ultimo termine ricomprende non solo i tempi del procedimento amministrativo, ma anche quelli dell’eventuale impugnazione giurisdizionale del diniego. Il completamento dei procedimenti amministrativi e giudiziari, d’altro canto, non è assicurato in un breve periodo, così da rendere plausibili anche periodi molto lunghi di soggiorno, fino a tre o quattro anni. Volendo schematizzare queste tempistiche, in seguito alla presentazione della richiesta di protezione internazionale, la Commissione territoriale competente deve provvedere al colloquio personale col richiedente entro 30 giorni dal ricevimento della domanda stessa, per poi decidere entro i tre giorni feriali successivi. Tuttavia, qualora la Commissione ritenga di dover acquisire nuovi elementi, questi termini sono prorogabili di sei mesi, nonché di ulteriori nove mesi se la decisione richiede valutazioni complesse, oppure in caso di inosservanza dell’obbligo di cooperazione che grava sul richiedente ex art. 11 d.lgs. n. 25/2008, ma anche per il semplice fatto che, in un determinato frangente, risulti presentato un elevato numero di richieste. A questo punto, in casi eccezionali, il termine di conclusione del procedimento può essere esteso di altri tre mesi (art. 27, d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25).
Già solo in relazione al procedimento amministrativo è evidente come la normativa renda possibile una regolare permanenza del richiedente asilo sul territorio italiano per ben 19 mesi. A questo termine, ampiamente superiore all’anno, possono poi aggiungersi i tempi del processo di impugnazione della decisione della Commissione innanzi al giudice ordinario: la presentazione del ricorso (entro trenta giorni dalla notificazione del diniego) ha, infatti, efficacia sospensiva del provvedimento, e dà avvio a un giudizio che, ex lege, dovrebbe concludersi entro quattro mesi dalla presentazione del ricorso stesso (così art. 35 bis d.lgs. n. 25/2008). Si arriva, così, a 24 mesi anche solo applicando le tempistiche previste dal legislatore, escludendo ritardi di sorta e trascurando la possibile impugnazione innanzi alla Cassazione della decisione di primo grado, la quale – pur non avendo automatica efficacia sospensiva della pronuncia del tribunale – può essere accompagnata da apposita istanza di sospensione.
L’irragionevolezza del diniego di iscrizione anagrafica e della sua giustificazione legata alla precarietà del diritto di soggiorno sul territorio italiano (poiché limitato, in prima battuta, a sei mesi) risulta ancora più chiara se si tiene in considerazione quanto disposto dal d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, concernente il diritto di circolazione e soggiorno dei cittadini europei. L’art. 9 del decreto prevede espressamente che un cittadino europeo che intenda soggiornare per più di tre mesi sul territorio italiano debba procedere all’iscrizione anagrafica. Dunque, non si capisce quale sia la ragione per cui, in un caso, “più di tre mesi” (quindi anche solo quattro o cinque) debbano considerarsi come una finestra temporale sufficiente per escludere la precarietà della presenza dello straniero sul territorio italiano, facendo sorgere il diritto/dovere di iscrizione anagrafica, e, nell’altro caso, sei mesi – de plano incrementabili fino oltre due anni – non lo siano.
Né in concreto, né in astratto, quindi, il soggiorno del richiedente asilo può definirsi “precario” e, pertanto, la precarietà non può considerarsi causa ragionevole della differenza di trattamento – quanto al diritto di iscrizione anagrafica – tra richiedenti e cittadini, nonché tra richiedenti e altre categorie di stranieri.
Ciò posto, gli effetti di un’irragionevole e irrazionale (e, dunque, incostituzionale) deroga al principio di uguaglianza producono conseguenze concrete sulla vita di questa categoria di soggetti, già richiamate nel paragrafo dedicato all’art. 2 Cost.
Così, il diniego di iscrizione anagrafica mostra tutta la sua irragionevolezza, costituendo un ostacolo al processo di integrazione per i soli richiedenti asilo (e, dunque, anche per tutti i futuri titolari di protezione internazionale).
L’integrazione, quale processo finalizzato a promuovere la convivenza dei cittadini italiani e di quelli stranieri, nel rispetto dei valori sanciti dalla Costituzione italiana, con il reciproco impegno a partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società, non è solo un diritto per gli stranieri, ma anche un dovere, cosi come è un dovere per lo Stato italiano promuovere l’integrazione. Questo principio è diventato inconfutabile a seguito dell’introduzione dell’art. 4 bis TUI in tema di accordo di integrazione, e trova conferma, ad esempio, nella Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione di cui al decreto del Ministro dell’interno 23 aprile 2007, alla quale viene riconosciuto il ruolo di direttiva generale per l’esercizio delle attribuzioni del Ministero stesso (art. 1). Nella Carta si riconosce, appunto, come base dell’integrazione sia l’impegno dell’Italia “perché ogni persona sin dal primo momento in cui si trova sul territorio italiano possa fruire dei diritti fondamentali, senza distinzione di sesso, etnia, religione, condizioni sociali”. D’altra parte, allo straniero, si domanda pari impegno, chiedendogli di “rispettare i valori su cui poggia la società, diritti degli altri, i doveri di solidarietà richiesti dalle leggi”.
Allo stesso modo, il Piano nazionale d’integrazione dei titolari di protezione internazionale di ottobre 2017, valido per il biennio successivo, riconosce come il processo di integrazione sia un processo particolarmente delicato nei confronti dei richiedenti protezione internazionale (in considerazione della loro posizione iniziale di svantaggio e vulnerabilità) che richiede tempo, così da rendere necessario che le “attività di supporto all’integrazione siano offerte fin da subito anche ai richiedenti [asilo]”. Proprio in quest’ottica viene affermata la centralità di un rapido accesso all’alloggio e alla residenza, riconoscendo come “l’iscrizione anagrafica sia uno dei presupposti necessari per avviare e proseguire qualsiasi percorso d’inclusione sociale”.
Ciò posto, se la particolare posizione di vulnerabilità dei richiedenti asilo avrebbe potuto legittimare una deroga razionale al principio di eguaglianza predisponendo una disciplina di favore per l’iscrizione anagrafica degli stranieri (come di fatto avvenuto con l’introduzione della procedura semplificata ex art. 5 bis d.lgs. n. 142/2015, abrogata, però, sempre dall’art. 13, comma 1, lett. c), d.l. n. 113/2018), non sembra assolutamente ragionevole l’introduzione dì una disciplina di sfavore, che svantaggi questi soggetti – rispetto agli altri stranieri – nel loro processo di integrazione.
L’impossibilità di procedere ad iscrizione anagrafica, infine, impedisce o rende più difficoltoso l’esercizio di alcuni diritti sociali del richiedente asilo rispetto ai cittadini italiani e ad altre categorie di stranieri.
Si è già detto dei diritti per la cui titolarità è previsto il requisito della residenza protratta per un determinato periodo di tempo, come il reddito di cittadinanza, l’accesso all’edilizia popolare o il c.d. bonus bebè materia, vedasi anche C. cost., n. 141/2014 e ID, n. 222/2013, che hanno affermato la conformità a costituzione del requisito della residenza protratta per questo genere di prestazioni sociali). Negare l’iscrizione anagrafica significa negare – quanto meno per un certo periodo di tempo – la residenza, dando luogo ora a un’irragionevole discriminazione capace di estendere anche verso il futuro i propri effetti: il richiedente, ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale, non potrà vedersi computato, a parità di condizioni con gli italiani e con gli altri stranieri, il periodo iniziale di soggiorno legale sul territorio, allontanando nel tempo la possibilità di accedere ai diritti in analisi.
D’altra parte, anche assicurare sul luogo del domicilio “l’accesso ai servizi previsti dal presente decreto [d.lgs. n. 142/2015 e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti” (art. 13, comma 1, lett. b), d.l. n. 113/2018) non esclude la creazione di una situazione deteriore per i richiedenti asilo rispetto agli altri stranieri regolarmente soggiornanti. Mentre per questi ultimi la residenza mediante l’iscrizione anagrafica è accertata una volta per tutte in modo ufficiale dal Comune (anche con il rilascio della carta di identità), il domicilio dei richiedenti asilo è situazione oggettivamente più vaga e incerta, in conseguenza delle stesse previsioni di legge: si pensi anche solo al fatto che l’art. 5, commi 1 e 2, d.lgs. n. 142/2015 individua ben tre ipotesi di domicilio, cioè quello indicato nella domanda di protezione internazionale, quello indicato nella successiva comunicazione alla questura e quello indicato nella dichiarazione del centro di accoglienza. Una simile esibizione ogni volta potenzialmente differenziata del domicilio per accedere ai servizi generalmente predisposti per i residenti, però, diventa pratica più complessa proprio per chi sia appena arrivato nel paese e perciò abbia maggiori difficoltà, anche solo di comprensione linguistica.
Del resto, l’accesso ai servizi pubblici in base al domicilio non si dimostra capace di prevenire tutti gli ostacoli che emergono nell’ambito delle relazioni sociali. Ciò appare evidente nei rapporti tra privati, refrattari a superare la rilevanza, ai fini dell’identificazione delle parti, dell’iscrizione anagrafica: per esempio, la mancanza di una carta d’identità ostacola l’assunzione dello straniero, considerato come tale documento sia considerato fondamentale, agli occhi del datore di lavoro, per il riconoscimento del lavoratore.
In aggiunta, è evidente che nelle due ipotesi del domicilio indicato nell’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 142/2015 lo straniero titolare di permesso di soggiorno per richiesta di asilo è esposto all’onere di esibire copia della domanda di protezione internazionale o copia della successiva dichiarazione fatta presso la Questura.
Di talché, al fine di accedere ai servizi sociali, mentre agli altri stranieri regolarmente soggiornanti è sufficiente esibire la carta di identità per attestare l’iscrizione anagrafica, al richiedente asilo si chiede di esibire tale documentazione per attestare il proprio domicilio, così violando l’obbligo di riservatezza delle informazioni concernenti le domande di protezione internazionale, previsto dall’art. 37 d.lgs. n. 25/2008, in attuazione dell’articolo 48 della direttiva 2013/32/UE.
A questo punto, in riferimento all’art. 3 Cost., appare non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2) d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018, avendo adottato la sola interpretazione ammissibile della previsione in analisi, ossia quella che comporta l’esclusione in toto dei richiedenti asilo dall’iscrizione anagrafica.
8.3.1. (Segue) Art. 3 Cost.
Vale la pena notare, tuttavia, che anche una lettura dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015 che consentisse l’iscrizione anagrafica costringendo il richiedente asilo a produrre documentazione differente dal permesso di soggiorno per provare la propria identità e il proprio soggiorno legale sul suolo italiano risulterebbe, comunque, incostituzionale per violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. Essa, infatti, ingenererebbe un trattamento irrazionalmente e irragionevolmente deteriore per una categoria di stranieri rispetto alle altre, senza alcuna giustificazione. Tutto ciò a conferma della non accoglibilità dell’interpretazione conforme proposta da altri giudici e descritta al precedente paragrafo 7.
Evidente sarebbe l’irrazionalità legislativa che, nella stessa disposizione di legge (art. 4 d.lgs. n. 142/2015), da una parte qualifica espressamente il permesso di soggiorno come documento di identità e, dall’altra, nega che questo documento possa servire per l’identificazione dello straniero nella procedura di iscrizione anagrafica.
Altrettanto evidente sarebbe l’irragionevolezza dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015 anche qualora lo si ritenesse interpretabile nel senso di consentire l’iscrizione anagrafica, proprio perché non permetterebbe al richiedente di produrre quello che è il documento principale a sua disposizione per provare la propria identità e, soprattutto, la propria legale presenza sul territorio.
Quanto alla prova della propria identità, la scelta legislativa di non considerare il permesso di soggiorno potrebbe essere compensata tramite la produzione del passaporto (o di altra documentazione del paese di provenienza, non potendo naturalmente lo straniero produrre una carta di identità italiana, che presuppone proprio l’iscrizione anagrafica). E’ lo stesso art. 14 d.P.R. n. 223/1989 che, in tema di iscrizione anagrafica dello straniero, prevede che: “Chi trasferisce la residenza dall’estero deve comprovare all’atto della dichiarazione di cui all’art. 13, comma 1, lettera a), la propria identità mediante l’esibizione del passaporto o di altro documento equipollente”. Tuttavia, domandare allo straniero richiedente asilo di produrre il proprio passaporto significa applicare il principio di uguaglianza in modo cieco e incostituzionale, trattando in maniera uguale categorie di stranieri che, in realtà, si trovano in differenti condizioni concrete. Si pensi al confronto fra un migrante economico, che giunge in Italia per lavorare e risulta quindi titolare di permesso di soggiorno per motivi di lavoro, e un richiedente asilo, che giunge in Italia per sfuggire alla situazione di crisi che caratterizza la propria nazione di origine. Solo lo status di richiedente protezione internazionale, infatti, presuppone una condizione di persecuzione, guerra o, generalmente, pericolo nel paese di provenienza che ben potrebbe precludere i contatti del cittadino straniero con le autorità pubbliche e, quindi, l’ottenimento del passaporto e di altra documentazione di identità. Da ciò discende l’importanza e la ragionevolezza di consentire, proprio ai richiedenti, di provare la propria identità con il permesso di soggiorno, rilasciato in seguito a un procedimento di identificazione da parte della autorità italiane competenti, e di non fare dei richiedenti asilo l’unica categoria esclusa da tale facoltà.
Ancora, la norma trascura del tutto la particolare posizione di fragilità dei richiedenti asilo, anche rispetto agli altri stranieri legalmente presenti sul territorio italiano, abrogando una normativa di favore (art. 5 bis, d.lgs. n. 142/2015) e sostituendola con una previsione che crea incertezze sulla documentazione che i richiedenti asilo dovrebbero presentare congiuntamente alla domanda di iscrizione anagrafica. L’art. 4, comma l bis, d. lgs. n. 142/2015, come introdotto dall’art. 13 d.l. n. 113/2018, dice quale documento non può essere presentato, tacendo su cosa, invece, sarebbe ora necessario produrre per provare la propria identità e il proprio regolare soggiorno.
L’incertezza è forte, soprattutto considerata l’altra documentazione che, a una prima lettura, potrebbe ritenersi producibile: la copia della domanda di protezione internazionale presentata dallo straniero alla questura per dare inizio al relativo procedimento amministrativo, oppure la copia del Modello C3 e dei relativi allegati, cioè il modulo con cui si formula ufficialmente la domanda di protezione internazionale. A una riflessione più attenta, tuttavia, ritenere che il legislatore abbia negato la producibilità del permesso di soggiorno per consentire quella della domanda di protezione o del Modulo C3 appare fortemente irrazionale, considerato come questi. ultimi siano atti endoprocedimentali, prodromici al rilascio del permesso di soggiorno per richiesta di asilo. Non si coglie proprio il senso di non consentire la produzione di un provvedimento con chiara efficacia esterna, come riconosciuto dallo stesso art. 13, comma 1, lett. a), n. 1, per consentire invece la produzione degli atti interni, legati alla fase di iniziativa e istruttoria del procedimento, che a tale provvedimento hanno portato.
Permane, cosi, il dubbio tanto sulla documentazione che si dovrebbe produrre quanto sulla razionalità di una norma che, secondo questa interpretazione, da un lato consentirebbe ancora l’iscrizione anagrafica, ma dall’altro negherebbe – senza alcuna utilità – la possibilità di produrre il permesso di soggiorno, ossia il documento che, più di tutti, si rivelerebbe idoneo a provare identità e regolarità del soggiorno.
Tutta questa incertezza, già di per sé inammissibile nel nostro ordinamento giuridico, diviene ancor più difficilmente giustificabile quando si traduce in un inasprimento della condizione di soggetti già in posizione di particolare fragilità. Nei confronti dei richiedenti asilo – stranieri provenienti da condizioni di forte disagio e pericolo, generalmente privi delle conoscenze linguistiche, culturali e delle competenze giuridiche per capire a fondo il nostro ordinamento – una scelta di semplificazione degli adempimenti burocratici sarebbe sicuramente più corrispondente al principio di uguaglianza, piuttosto che una complicazione della loro posizione.
8.4. Art. 10 Cost.
In terzo luogo, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2) d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018 appare, ad avviso di questo giudice, non manifestamente infondata in relazione anche all’art. 10 Cost.
La normativa in questione, infatti, dà luogo a un trattamento diversificato soltanto nei confronti di una categoria di stranieri regolarmente soggiornanti, ossia proprio quelli che hanno esercitato il diritto di asilo ex art. 10, comma 3, Cost. Si noti, però, come questi ultimi siano titolari di un diritto soggettivo perfetto al soggiorno: infatti, il diritto d’asilo comporta il diritto all’ingresso e alla permanenza nel territorio dello Stato, in attesa che venga definita la propria domanda di protezione internazionale, così da evitare fin da subito il rischio che il richiedente sia nuovamente sottoposto al pericolo di violazione dei diritti umani fondamentali.
Condizione, quest’ultima, da cui lo straniero fugge e che viene in ogni caso posta alla base dell’accoglienza e del soggiorno nel nostro paese.
Il diritto d’asilo ex art. 10 Cost., poi, è un diritto soggettivo perfetto all’ingresso e al soggiorno nel territorio italiano, immediatamente azionabile anche in mancanza delle leggi ordinarie che fissino alcune condizioni per il suo esercizio (Cass. civ., Sez. Un., 12 dicembre 1996, n. 4674), che si configura come una condizione più favorevole per lo straniero richiedente asilo rispetto a quella degli altri migranti i quali, invece, sono generalmente titolari di soli interessi legittimi circa l’accesso e la permanenza sul territorio italiano.
Ciò posto, appare ancor più irrazionale e irragionevole il trattamento differenziato introdotto dall’art. 13 d.l. n. 113/2018, perché al diritto di soggiornare legalmente si accompagna il divieto di esercizio del diritto-dovere di fissare la propria residenza in un comune della Repubblica proprio per una categoria di stranieri che, per definizione, hanno abbandonato la loro residenza all’estero per chiedere di essere ammessi a rimanere nel territorio.
Senza contare il paradosso che l’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015 appare creare: come visto, negare ai richiedenti asilo l’iscrizione anagrafica significa precludere loro l’esercizio di un diritto fondamentale quando proprio l’esigenza di sottrarre tale categoria di stranieri al pericolo di lesione dei loro diritti fondamentali è presupposto per il riconoscimento del diritto di asilo.
8.5. Art. 117, comma 1, Cost.
La questione di legittimità costituzionale appare, infine, non manifestamente infondata in riferimento all’art. 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 2, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (di seguito, Cedu), nonché in riferimento agli artt. 14 Cedu e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881.
Quanto al primo profilo di censura, ritiene questo giudice che l’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. 142/2015, impedendo al titolare di permesso di soggiorno per richiesta asilo di iscriversi all’anagrafe, violi l’art. 2, § 1, Protocollo n. 4 Cedu, secondo cui “chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha il diritto di circolarvi liberamente e di fissarvi liberamente la sua residenza”.
L’iscrizione all’anagrafe, invero, costituisce l’essenza stessa del fissare la residenza in un comune dello Stato e, pertanto, negare a un soggetto (legalmente presente sul territorio nazionale) l’iscrizione all’anagrafe implica ledere il suo diritto a fissare liberamente la residenza sul territorio dello Stato.
Del resto, che il termine “residenza” utilizzato dalla disposizione della Convenzione in esame afferisca al concetto tecnico di residenza di cui all’art. 43 del codice civile italiano, e dunque nel senso rilevante ai fini del caso oggetto del presente giudizio, è desumibile dalla stessa terminologia utilizzata nell’art. 2, § 1, Protocollo n. 4 Cedu, che si differenzia rispetto al diverso vocabolo ‘domiciliò utilizzato nell’art. 8 Cedu. Il termine ‘domiciliò nell’art. 8 Cedu designa, genericamente, “lo spazio fisico determinato in cui si svolge la vita privata e familiare” (Corte edu, Giacomelli c. Italia, 2 novembre 2006, § 76), pertanto la scelta di utilizzare il differente termine “residenza” non può che essere indicativa della volontà di fare riferimento al concetto tecnico che in ciascuno Stato firmatario della Convenzione dà rilievo giuridico al luogo in cui la persona stabilisce la propria dimora abituale.
Conferma di ciò si ricava, inoltre, dall’analisi del testo della Convenzione nella versione in lingua inglese, in cui emerge la medesima distinzione tra il termine ‘homè dell’art. 8 Cedu e il vocabolo ‘residencè utilizzato, invece, nell’art. 2 del Protocollo n. 4 della Convenzione.
Peraltro, l’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. 142/2015, nell’introdurre la restrizione al diritto dei richiedenti asilo di stabilire liberamente la residenza, non rispetta neppure la riserva di legge rinforzata prevista dall’art. 2, § 1, Protocollo n. 4 Cedu.
Il diniego del diritto di stabilire liberamente la residenza sul territorio dello Stato nei confronti dei soli titolari del permesso di soggiorno per richiesta asilo è inoltre dettato da ragioni discriminatorie, risolvendosi dunque, altresì, nella violazione dell’art. 14 Cedu. Tale previsione stabilisce, infatti, che il godimento dei diritti e delle libertà riconosciute dalla Convenzione – nella specie, dell’art. 2, §1, Protocollo n. 4 Cedu – deve essere assicurato senza discriminazione di alcun tipo, tant’è che la disposizione in esame si chiude con una espressione generale che pone il divieto di discriminazione sulla base “ogni altra condizione” (“other status” secondo la versione inglese).
La novella introdotta con il d.l. n. 113/2018 introduce una discriminazione circa l’esercizio del diritto di iscrizione all’anagrafe (e dunque della libertà di fissa liberamente la residenza sul territorio dello Stato) differenziando in base allo status richiedente asilo: possono infatti iscriversi all’anagrafe tutti gli stranieri regolarmente presenti in Italia tranne i titolari del permesso di soggiorno per richiesta asilo.
Il sindacato condotto dalla Corte edu per valutare le violazioni del divieto distinzione sulla base della clausola aperta prevista dall’art. 14 Cedu si avvicina a quello compiuto dalle Corti costituzionali nazionali sulla base del principio di ragionevolezza pertanto, sono qui riproducibili gli argomenti già esposti sopra in relazione alla violazione dell’art. 3 Cost. (§ 8.2.)
Per le ragioni esposte in relazione all’art. 14 Cedu, ritiene questo giudice che l’art. comma 1 bis, d.lgs. 142/2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2, d.l. 113/2018 n rispetti infine l’art. 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici che, insieme ai citati articoli della Convenzione edu, costituisce un ulteriore parametro interposto legittimità costituzionale.
P.Q.M.
Visti gli artt. 1 l. cost. 1/1948 e 23 l. n. 87/1953, ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, rimette alla Corte Costituzionale la questione di legittimità 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, come introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018, perché, negando il diritto di iscrizione anagrafica al richiedente asilo si pone in contrasto con gli articoli 2, 3, 10, 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 2, § 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché in riferimento agli artt. 14 Cedu e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici. L’art. 13, co. 1, lett. a), n. 2 d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018, inoltre, si pone in contrasto con l’art. 77, secondo comma, Cost. per difetto dei requisiti dei casi di straordinaria necessità e urgenza, nonché del requisito di omogeneità, così come interpretati dalla giurisprudenza costituzionale.
Sospende il giudizio e dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
Ordina che la presente ordinanza sia notificata a cura della Cancelleria alle parti, al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
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