TRIBUNALE DI NAPOLI – Sentenza 18 dicembre 2013, n. 21579
Lavoro subordinato – Contratto a tempo determinato – Illegittima apposizione del termine – Conseguenze risarcitorie
Ragioni di fatto e di diritto della decisione
Con ricorso depositato in data 20.3.13 l’istante ha premesso in fatto: 1) di aver lavorato alle dipendenza di P.I. s.p.a. dal 2.7.12 al 3.7.12, con la qualifica ufficiale “E” – addetto junior 2) che tale assunzione era stata ufficializzata mediante la sottoscrizione di un contratto di lavoro a tempo determinato; 3) che nel contratto in parola P.I. aveva indicato, quale ragione giustificante l’apposizione del termine, la sola formula: “ai sensi dell’art. 2 comma 1 bis del D.lgs. 368/2001 così come modificato dalla legge 23 dicembre 2006 n. 266”.
A tale ultimo riguardo, nel contestare i presupposti di applicabilità della normativa in questione al caso di specie e, più in generale, la sua stessa compatibilità con il quadro legislativo comunitario e nazionale in materia di contratti a termine, il ricorrente ha quindi dedotto:
a) la assenza di una effettiva ragione obiettiva indicata in contratto alla base della assunzione;
b) che era stato superato il limite percentuale dei lavoratori assumibili a termine, da calcolarsi in relazione ai soli addetti al servizio postale;
c) che non erano calcolabili i lavoratori in mandato sindacale o elettivo o che comunque non prestavano servizio ed i dipendenti con contratto dirigenziale;
c) che la predetta assunzione aveva comunque determinato il superamento del limite percentuale imposto ai contratti a tempo determinato nel settore delle poste, calcolato col metodo c.d. full time equivalente;
d) che la disposizione era incostituzionale per assenza di uno specifico criterio di calcolo della percentuale dei lavoratori assumibili a termine;
e) che la assunzione poteva essere effettuata solo nel settore recapito;
f) che mancava la valutazione dei rischi ex l. 626/94.
Tanto premesso chiedeva che il giudice volesse dichiarare la illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato, la natura a tempo indeterminato del rapporto e condannare la convenuta alla sua reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate e vittoria spese, con distrazione.
Ritualmente costituitasi in giudizio, P.I. s.p.a. ha invece contestato quanto rappresentato in ricorso ed ha chiesto il rigetto della domanda di controparte sull’assunto della risoluzione tacita del contratto, della piena legittimità del termine apposto al contratto oggetto di lite, avendo la società datrice di lavoro rispettato tutti i requisiti previsti dall’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001 e non potendosi ravvisare alcuna incompatibilità della norma in questione con la disciplina comunitaria, ovvero alcun profilo di illegittimità costituzionale della stessa.
All’odierna udienza questo giudice pronunciava sentenza, con lettura alle parti presenti in udienza del dispositivo e delle ragioni di fatto e di diritto.
Disponeva il prosieguo del giudizio per la determinazione delle conseguenze economiche.
Il contratto in esame è stato concluso ai sensi dell’art. 2 comma 1- bis del d.lgs. n. 368/2001, così come modificato dalla legge 23 dicembre 2005 n. 266 (legge finanziaria 2006), che prevede: “Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche quando l’assunzione sia effettuata da imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al 15 per cento dell’organico aziendale, riferito al 1º gennaio dell’anno cui le assunzioni si riferiscono. Le organizzazioni sindacali provinciali di categoria ricevono comunicazione delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui al presente comma”.
Il comma 1 cui si rimanda prevede: “E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato quando l’assunzione sia effettuata da aziende di trasporto aereo o da aziende esercenti i servizi aeroportuali ed abbia luogo per lo svolgimento dei servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci, per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al quindici per cento dell’organico aziendale che, al 1° gennaio dell’anno a cui le assunzioni si riferiscono, risulti complessivamente adibito ai servizi sopra indicati. Negli aeroporti minori detta percentuale può essere aumentata da parte delle aziende esercenti i servizi aeroportuali, previa autorizzazione della direzione provinciale del lavoro, su istanza documentata delle aziende stesse. In ogni caso, le organizzazioni sindacali provinciali di categoria ricevono comunicazione delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui al presente articolo”.
La stessa è previsione speciale rispetto alla regola vigente nella materia de qua. Il legislatore ha inteso tipizzare, nei limiti che saranno di seguito precisati, solo per alcuni ambiti settoriali (prima solo trasporto aereo, successivamente servizi postali), la ragione giustificativa della stipulazione dei contratti a termine, con ciò prescindendo da quelle ragioni “di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, altrimenti prescritte per la normalità delle ipotesi di contratto a tempo determinato ex art. 1 del d.lgs 368/2001, così ponendo una (parziale) presunzione iuris et de iure.
L’art. 1, comma 1, del citato d.lgs e l’art. 2, utilizzano la stessa locuzione introduttiva (“E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto….”), ma si integrano con due previsioni alternative, all’interno delle quali la previsione di un termine è comunque legittima: la prima disposizione costituisce un’ipotesi di carattere generale, mentre la seconda è applicabile solo per determinati e specifici settori di impresa (nello stesso senso Cass. Sez. L, Sentenza n. 11659 del 11/07/2012; Sez. L, Sentenza n. 13221 del 26/07/2012).
Deve rilevarsi come l’art 2, comma 1-bis, non appare determinare violazione, in relazione al primo ed unico contratto, degli obblighi e dei principi di cui alla direttiva 1999/70/Ce.
È ravvisabile un abbassamento del livello generale di tutela, atto a ritenere la violazione della clausola 8 della direttiva 1999/70/Ce solo nell’ipotesi di abbassamento generale del livello di tutela e non in ipotesi di suo abbassamento solo rispetto ad una categoria di lavoratori (Sentenza Kiriaki Angelidaki, procedimento C-378/07, della Corte di Giustizia del 23 aprile 2009, punti 146 e 145). La circostanza che l’abbassamento del livello di tutela sia circoscritto determina che si è fuori dell’ambito di applicazione della clausola 8. Inoltre la C.g.u.e. ha affermato che l’art. 2, comma 2-bis”perseguiva uno scopo distinto da quello consistente nel garantire l’attuazione dell’accordo quadro nell’ordinamento nazionale” e che, più precisamente, esso “mirava a consentire alle imprese operanti nel settore postale un certo grado di flessibilità allo scopo di garantire (…) un funzionamento efficace delle diverse operazioni postali rientranti nel servizio universale” (cfr. Ordinanza “Vino” dell’ 11.11.2010, causa C- 10/2010).
L’introduzione dell’art. 2, comma 1-bis ha liberalizzato, entro specifici limiti, la stipulazione del primo contratto a termine da parte delle imprese concessionarie di servizi postali, con previsione di precisi limiti temporali e quantitativi. Ne deriva che si è pertanto (primo ed unico contratto) al di fuori dei limiti di cui alla clausola 5, paragrafo 1, lettere a-c, che prevede misure ostative necessarie per il solo rinnovo (intendendosi per tale la proroga e la successione di contratti) dei contratti a termine. A nulla rileva a detti fini il 7° considerando della direttiva 1999/70 (“l’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato basata su ragioni oggettive è un modo di prevenire gli abusi”), posto che i considerata non sono il testo precettivo della direttiva, ma servono solo a spiegarne le finalità e le disposizioni normative, aiutando a chiarirne i precetti. La C.g.u.e. ha ricordato infatti come il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato sulla sola base di una disposizione generale, senza relazione con il contenuto concreto dell’attività considerata, non consente di stabilire criteri oggettivi e trasparenti atti a verificare se il rinnovo di siffatti contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, e se esso sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e necessario a tale effetto (Sent Angelidaki, punto 100, e sentenze Adeneler e a., punto 74, e Del Cerro Alonso, punto 55, nonché l’ordinanza Vassilakis e a., cit., punto 93). Se ne può quindi trarre la conseguenza che la causale al I contratto è finalizzata alla causale obbligatoria dei rinnovi. Nel caso di specie, vertendosi in tema di primo ed unico contratto, la causalità del termine non è necessaria da un punto di vista ordina mentale Europeo. Inoltre la stessa clausola 5 della Direttiva 1999/70/Ce consente di differenziare le causali e le sanzioni in maniera tale da tener conto delle esigenze di settori e/o categorie specifiche di lavoratori.
Da un punto di vista di conformità interna della disposizione in esame ai precetti della Carta costituzionale, il giudice delle leggi, con la sentenza dell’8 luglio 2009 n. 214, ha ritenuto la conformità rilevando che “… la norma censurata costituisce la tipizzazione legislativa di un’ipotesi di valida apposizione del termine. Il legislatore, in base ad una valutazione -operata una volta per tutte in via generale e astratta- delle esigenze delle imprese concessionarie di servizi postali di disporre di una quota (15 per cento) di organico flessibile, ha previsto che tali imprese possano appunto stipulare contratti di lavoro a tempo determinato senza necessità della puntuale indicazione, volta per volta, delle ragioni giustificatrici del termine. Tale valutazione preventiva ed astratta operata dal legislatore non è manifestamente irragionevole. Infatti, la garanzia alle imprese in questione, nei limiti indicati, di una sicura flessibilità dell’organico, è direttamente funzionale all’onere gravante su tali imprese di assicurare lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali, nonché la realizzazione e l’esercizio della rete postale pubblica i quali «costituiscono attività di preminente interesse generale», ai sensi dell’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261 (Attuazione della direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio). In particolare, poi, in esecuzione degli obblighi di fonte comunitaria derivanti dalla direttiva 1997/67/CE, l’Italia deve assicurare lo svolgimento del c.d. “servizio universale” (cioè la raccolta, il trasporto, lo smistamento e la distribuzione degli invii postali fino a 2 chilogrammi; la raccolta, il trasporto, lo smistamento e la distribuzione dei pacchi postali fino a 20 chilogrammi; i servizi relativi agli invii raccomandati ed agli invii assicurati: art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 261 del 1999); tale servizio universale «assicura le prestazioni in esso ricomprese, di qualità determinata, da fornire permanentemente in tutti i punti del territorio nazionale, incluse le situazioni particolari delle isole minori e delle zone rurali e montane, a prezzi accessibili a tutti gli utenti» (art. 3, comma 1); l’impresa fornitrice del servizio deve garantire tutti i giorni lavorativi, e come minimo cinque giorni a settimana, salvo circostanze eccezionali valutate dall’autorità di regolamentazione, una raccolta ed una distribuzione al domicilio di ogni persona fisica o giuridica (art. 3, comma 4); il servizio deve esser prestato in via continuativa per tutta la durata dell’anno (art. 3, comma 3). Non è, dunque, manifestamente irragionevole che ad imprese tenute per legge all’adempimento di simili oneri sia riconosciuta una certa flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto a tempo determinato. Si aggiunga che l’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001 impone alle aziende di comunicare ai sindacati le richieste di assunzioni a termine, prevedendo così un meccanismo di trasparenza che agevola il controllo circa l’effettiva osservanza, da parte datoriale, dei limiti posti dalla norma…..”
“La norma censurata si limita a richiedere, per la stipula di contratti a termine da parte delle imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste, requisiti diversi rispetto a quelli valevoli in generale (non già l’indicazione di specifiche ragioni temporali, bensì il rispetto di una durata massima e di una quota percentuale dell’organico complessivo). Pertanto il giudice ben può esercitare il proprio potere giurisdizionale al fine di verificare la ricorrenza in concreto di tutti gli elementi di tale dettagliata fattispecie legale.”.
Tale impostazione di fondo merita di essere condivisa.
Alla luce della stessa, deve essere verificata la specifica doglianza avanzata del ricorrente circa il mancato rispetto della clausola di contingentamento ed indicazione della percentuale dei lavoratori a tempo indeterminati, degli assumibili a termine e degli assunti a termine.
Preliminarmente deve rilevarsi come la disposizione di cui all’art. 2, commi 1 ed 1-bis, non rende la fattispecie del tutto slegata dall’art. 1, che rimane applicabile nel resto.
Infatti l’art. 1 (si riporta il testo derivante dalle modifiche di cui alla Legge 23 dicembre 2005, n. 266, alla Legge 24 dicembre 2007, n. 247, ed al Decreto Legge 25 giugno 2008, n. 112, come convertito, perché la modifica è irrilevante ai fini della ricostruzione della materia) prevede:
Il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato.
1. E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro.
2. L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma l.
3. Copia dell’atto scritto deve essere consegnata dal datore di lavoro al lavoratore entro cinque giorni lavorativi dall’inizio della prestazione.
4. La scrittura non è tuttavia necessaria quando la durata del rapporto di lavoro, puramente occasionale, non sia superiore a dodici giorni.
L’art. 2 prevede solo ragioni di carattere tecnico, organizzativo o sostitutivo che, in presenza del rispetto degli ulteriori limiti posti, sono, ex lege, tipiche ma non deroga alla necessità della indicazione per iscritto che si tratta di contratto a termine e dalla necessità di consegna di detto atto nei 5 giorni lavorativi dall’inizio della prestazione: infatti lo stesso art. 2 indica la disciplina come aggiuntiva, con ciò facendo chiaramente intendere che essa si aggiunge alla disciplina ordinaria.
Rimane esegeticamente il problema se sia necessaria la indicazione delle ragioni, che nel caso di specie si limiterebbe alla indicazione esplicita del rispetto del limite percentuale delle assunzioni (numero degli assumibili a termine e posizione del lavoratore nell’ordine delle assunzioni) che sostanzierebbe la specificazione della ricorrenza della causale giustificatrice, normativamente tipizzata, della sua assunzione: tale problema sarà esaminato nel prosieguo (cfr pagg. 13 e 14).
Deve rilevarsi preliminarmente come l’onere della prova in ordine alla sussistenza dei presupposti applicativi idonei a giustificare l’utilizzazione del relativo contratto dovesse gravare, quale fatto costitutivo della fattispecie applicata, sul solo datore di lavoro (v. Cass. civ. – Sez. L, Sentenza n. 10607 del 19/07/2002, pur se relativamente alla previgente disciplina di cui alla legge n. 230 del 1962): la convenuta deve quindi dimostrare di aver rispettato la durata massima dei contratti e non aver superato la quota percentuale consentita.
Il primo requisito è incontestato.
Quanto al secondo deve rilevarsi quanto segue.
L’art 2, comma 1-bis prevede: Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche quando l’assunzione sia effettuata da imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al 15 per cento dell’organico aziendale, riferito al 1º gennaio dell’anno cui le assunzioni si riferiscono. Le organizzazioni sindacali provinciali di categoria ricevono comunicazione delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui al presente comma.
Il comma 1 dell’art 2 prevede un ulteriore requisito costituito dallo svolgimento di solo alcuni specifici servizi (servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci).
Di contro nel comma 1-bis dell’art 2 vengono in rilevo solo due concetti:
1) Impresa (derivante dalla espressione: imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste);
2) Azienda (derivante dalla espressione: 15 per cento dell’organico aziendale).
Quanto al primo deve rilevarsi che la disposizione consente la assunzione da parte di imprese aventi una specifica caratteristica: essere concessionarie nel settore poste. La disposizione quindi consente la assunzione da parte della impresa purché sia concessionaria in detto settore. Da tale limite non è evincibile una delimitazione del personale assumibile (ad esempio nel solo servizio postale) venendo in rilievo il solo concetto di imprenditore che, per quanto tale, si organizza come meglio ritiene (autonomia imprenditoriale), essendo solo sufficiente che sia concessionario del servizio postale. D’altro canto non sarebbe seriamente sostenibile che la assunzione in settore della impresa diverso da quello postale non avrebbe influenza in quest’ultimo, rientrando nella predetta autonomia imprenditoriale il potere dell’imprenditore di spostare personale da un servizio, settore, azienda, ad altro per garantire le esigenze di funzionamento del servizio postale. In una parola rientra nella autonomia imprenditoriale la scelta del settore dove assumere a termine e distribuire il personale nella maniera più opportuna per garantire le esigenze di funzionamento del servizio postale.
Diverso ed opposto il ragionamento per il concetto di azienda.
L’organico aziendale cui la norma fa riferimento è nel solo settore delle poste. La espressione azienda ovviamente non può essere mera ripetizione del concetto di impresa, posto che nella medesima disposizione sono usati due termini aventi diverso significato (impresa ed azienda): ove la disposizione avesse voluto riferire il 15% a tutto il personale assunto, avrebbe fatto riferimento all’organico della impresa. La azienda è un complesso organizzato di beni o servizi tesi ad una specifica produzione, nel caso di specie indicata dal legislatore con il riferimento al solo settore postale: la circostanza che la convenuta sia organizzata non in aziende distinte (bancaria, assicurativa, postale, etc), è fatto rientrante nella autonomia imprenditoriale, ma la diversa scelta organizzativa effettuata da un soggetto privato (la convenuta), non è atta ad orientare la interpretazione del testo normativo: non è la interpretazione di una disposizione normativa, che in quanto tale è generale ed astratta e quindi applicabile alla generalità dei soggetti, che deve tener conto delle scelte imprenditoriali della convenuta, ma le scelte imprenditoriali che devono operare nell’ambito delle previsioni normative. Il calcolo del 15% deve quindi essere effettuato solo in relazione agli addetti al servizio postale.
Detta interpretazione è imposta da una lettura testuale della norma, tenuto conto del disposto di cui agli artt. 2089 c.c. (nozione di imprenditore), 2555 c.c. (nozione di azienda) e 2556 c.c. (che contrappone in concetto di impresa a quello di azienda). I concetti non sono sovrapponibili e sono distinti (nozioni poste alla base del diritto commerciale) per cui, proprio in forza dell’art 12, comma 1, delle disposizioni sulla legge in generale, non possono che avere un significato diverso e non già rutto di una valutazione giudiziale, ma normativa (artt 2089 e 2555 c.c.).
Neppure detta interpretazione svuota di significato la differenza tra i commi 1 ed 1-bis dell’art 2: nel primo, nell’ambito delle aziende di trasporto aereo o da aziende esercenti i servizi aeroportuali, vi è una ulteriore limitazione nell’ambito delle aziende (servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci ), insussistente nell’ipotesi di cui al comma 1-bis che si riferisce solo all’organico aziendale .
La convenuta può quindi assumere nel settore, azienda, servizio che meglio ritiene, ma non può superare il 15% degli addetti al servizio postale. Una diversa interpretazione priverebbe di significato la distinzione normativa impresa/azienda e sarebbe in radicale antitesi con le finalità indicate sia dalla Corte costituzionale che dalla Corte di giustizia: si finirebbe infatti col giustificare una norma di favore non già in ragione delle esigenze del servizio postale (settore di cui alla clausola 5, paragrafo 1, della direttiva 1999/70/Ce), ma della sola qualifica soggettiva di concessionaria ed in maniera del tutto slegata dalle esigenze tenute in considerazione dalla norma. Semplificano, ove una impresa di rilevantissime dimensioni divenga concessionaria del servizio postale, la stessa potrebbe assumere a temine in relazione a tutto il personale in servizio e non in relazione al solo servizio postale, finendosi col precarizzare in misura maggiore o minore i rapporti non in relazione alle esigenze del servizio stesso, ma in relazione alle sole dimensioni della impresa.
Inoltre la impresa operante nel servizio postale come concessionaria, ma plurisettoriale, come la convenuta, verrebbe a godere di un margine di flessibilità ben maggiore delle imprese concorrenti operanti negli altri settori (ad esempio bancario) in maniera non connessa alle esigenze dell’organico aziendale postale, ma solo per la ragione di essere concessionaria del servizio postale. Analogamente a quanto ricordato per il concetto di impresa, potrebbe spostare personale dal settore postale ad altro ed assumere a termine nel settore postale, così godendo di una flessibilità maggiore in relazione agli altri settori.
Esemplificando la convenuta vedrebbe raddoppiata la percentuale degli assumibili a termine per la causale “postale” in ragione degli addetti ad altri settori e potrebbe utilizzarli negli altri settori, vedendo raddoppiato, per i dati di cui in appresso, il margine di flessibilità normativamente stabilito a causa dello svolgimento del servizio postale: appare chiaro che l’unica interpretazione compatibile con gli arresti delle Corti superiori deve valorizzare il concetto di azienda settore delle poste derivante dalla diversità del significato dei concetti di impresa ed azienda.
Il limite quantitativo è evincibile dai bilanci che si riferiscono al 31 dicembre dell’anno antecedente, ovvero al giorno immediatamente antecedente quello in relazione al quale il limite annuale deve essere fissato ed in particolare dalla Relazione finanziaria annuale, punto 2.1.3, che indica gli addetti ai servizi postali per varie tipologie il cui totale, calcolato full time equivalent, è il seguente:- 31.12.2010 n. 48.133 addetti agli uffici postali;.
Si hanno quindi le seguenti unità assumibili, ritenendosi il dato al 31.12 sovrapponibile a quello all’1 gennaio:- 2010: 7.219,95 unità.
Detti dati devono ritenersi attendibili perché partecipa al Consiglio di Amministrazione un giudice della Corte dei Conti (cfr. art. 5 del D.L. 1 dicembre 1993, n. 487, convertito, con modifiche, con legge 29 gennaio 1994 n. 71, con cui l’Ente “Poste Italiane” è stato assoggettato al controllo della Corte dei conti nelle forme previste dall’art. 12 della legge n. 259 del 1958) ed il bilancio è collegato al bilancio dello Stato (artt. 10 e 15 del D.Lgs. 261/99), per cui i controlli devono ritenersi particolarmente penetranti ed atti a renderlo particolarmente attendibile, tanto che la convenuta è addirittura Stato ai fini della applicazione verticale discendente del diritto UE (C.g.u.e., sentenza 12.12.13, procedimento C-361/12, C.)
Perché di assunzione legittima si tratti è necessario che l’istante sia stato assunto nell’ambito del predetto scaglione consentito, posto che la stessa convenuta ha dichiarato la assunzione di dipendenti ex art. 2, comma 1- bis, in misura ben maggiore (8.944 nel 2011 corrispondenti a 8.275 FTE; cfr relazione annuale 2012, pag 50).
E’ appena il caso di ricordare che -al fine di provvedere all’esatto calcolo dell’organico aziendale- la regola è prevista dal d.lgs 61/2000, recante “Attuazione della direttiva 97/81/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES”. L’art. 6, con il disciplinare i criteri di computo dei lavoratori a tempo parziale, ha stabilito il principio generale in base al quale, “In tutte le ipotesi in cui, per disposizione di legge o di contratto collettivo, si renda necessario l’accertamento della consistenza dell’organico, i lavoratori a tempo parziale sono computati nel complesso del numero dei lavoratori dipendenti in proporzione all’orario svolto, rapportato al tempo pieno così come definito ai sensi dell’articolo 1; ai fini di cui sopra l’arrotondamento opera per le frazioni di orario eccedenti la somma degli orari individuati a tempo parziale corrispondente a unità intere di orario a tempo pieno.”
La convenuta ha quindi, in linea generale, assunto a termine in misura ben maggiore dei limiti consentiti.
Nel caso di specie però non è stato contestato puntualmente che l’istante fosse il 5122° assunto, come espressamente allegato in memoria di costituzione, per cui deve ritenersi provato provato, nel caso di specie, il rispetto del limite quantitativo previsto dall’art 2, comma 1-bis (ovvero che la assunzione del ricorrente sia stata effettuata nello scaglione consentito), con nullità del termine per omesso rispetto del limite quantitativo di cui all’art 2, comma 1-bis.
In ogni caso però è nulla la causale appositiva del termine.
Nel regime di cui alla legge 28 febbraio 1987, n. 56, la facoltà delle organizzazioni sindacali di individuare ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro è subordinata dall’art. 23 alla determinazione delle percentuali di lavoratori che possono essere assunti con contratto a termine sul totale dei dipendenti; pertanto, non è sufficiente l’indicazione del numero massimo di contratti a termine, occorrendo altresì, a garanzia di trasparenza ed a pena di invalidità dell’apposizione del termine nei contratti stipulati in base all’ipotesi individuata ex art. 23 citato, l’indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, sì da potersi verificare il rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine. L’onere della prova dell’osservanza di detto rapporto è a carico del datore di lavoro, in base alle regole di cui all’art. 3 della legge 18 aprile 1962, n. 230, secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro (Cass. 6010/09 ed in maniera identica 839/10).
La ratio posta alla base della previgente disciplina (art. 23 citato) e dell’art. 2, comma 1- bis, è identica perché entrambe le disposizioni pongono la indicazione del numero percentuale dei lavoratori quale contrappeso a tutela contro la eccessiva precarizzazione (sull’art. 23 cfr Cass. 26989/05) ed anche nell’ipotesi di cui all’art. 2 è necessaria la forma scritta, la indicazione ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, la consegna dell’atto scritto dal datore di lavoro al lavoratore nel quale sono specificate le ragioni giustificatrici entro cinque giorni lavorativi dall’inizio della prestazione. Unica peculiarità rispetto alla ipotesi generale di cui all’art. 1 è costituita dalla circostanza che la ipotesi dell’art 2, comma 1-bis, ovvero assunzione di un lavoratore in quei limiti numerici, è valida ragione di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo (tipizzazione legale). Ne deriva che la causale giustificatrice non si esaurisce nella dizione “assunzione ex art 2, comma 1-bis” o altra equivalente, ma deve dare conto, come l’art 1, della ricorrenza della causale giustificatrice di cui all’art. 2, comma 1-bis. Detta conclusione è testualmente indicata nell’art 2 che la definisce “Disciplina aggiuntiva” e non sostitutiva. La disciplina è aggiuntiva non nel senso di prevedere ulteriori condizioni legittimanti l’apposizione del termine e concorrenti rispetto a quella posta dalla previsione generale di cui all’art. 1 del medesimo D.Lgs, ma nel senso di aggiuntiva di una ulteriore ed autonoma condizione legittimante, nelle specifiche ipotesi previste: quale aggiuntiva essa concorre con le ipotesi legittimanti di cui all’art 1, comma 1. Quale disciplina aggiuntiva prevede una ulteriore, specifica e concorrente ipotesi legittimante, ma non deroga all’art. 1: permane quindi l’onere di indicazione e specificazione per iscritto della causale giustificatrice che, nel caso che interessa è quella di cui all’art 2, comma 1-bis. La convenuta avrebbe allora dovuto indicare nel contratto di assunzione non solo che la assunzione era effettuata ex art. 2, comma 1-bis, ma anche il numero dei lavoratori assumibili a termine per l’anno di riferimento ed il numero del lavoratore assumendo, giustificando così la ricorrenza della causale legittima, ovvero specificandone, ex art 1, comma 2, le ragioni.
Opinare diversamente significa svuotare completamente di significato l’art 1, comma 2, nel caso di specie perché la ratio della disposizione indicata è proprio cristallizzare le ragioni della assunzione in un documento atto a consentirne la verifica (la ratio in forza della quale si richiede l’indicazione per iscritto, all’atto della assunzione, dello specifico motivo legittimante l’apposizione del termine, è stata correttamente rinvenuta, dalla giurisprudenza, proprio nell’esigenza di consentire il rigoroso esame anche giurisdizionale circa la reale esistenza -sin dall’origine- delle condizioni giustificanti il ricorso a tale eccezionale tipo negoziale, assicurando al contempo la trasparenza e l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto: v., ad esempio, Cass. civ. – Sez. L, Sentenza n. 1931 del 27/01/2011).
Nella vigenza dell’art 23 della legge 28 febbraio 1987 n. 56, che aveva riconosciuto alle organizzazioni sindacali la facoltà di individuare ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro previa determinazione delle percentuali di lavoratori che potevano essere assunti a tempo determinato sul totale dei dipendenti (disciplina simile all’art 2, comma 1-bis), la stessa Corte di Cassazione aveva ritenuto come “non (fosse) sufficiente l’indicazione del numero massimo di contratti a termine, occorrendo altresì, a garanzia di trasparenza ed a pena di invalidità dell’apposizione del termine nei contratti stipulati in base all’ipotesi individuata ex art. 23 citato, l’indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, sì da potersi verificare il rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine.” (v. Cass. civ. – Sez. L, Sentenza n. 6010 del 12/03/2009).
Ne deriva quindi la nullità della causale appositiva del termine in ragione della omessa specificazione della causale suddetta, ai sensi del combinati disposto artt. 2, comma 1- bis e 1, commi 2 e 3, del D.Lgs. n. 368/01.
Circa la possibilità di dichiarare la nullità dell’intero contratto (art 1419, comma 1 c.c.) si deve rilevare che il D.Lgs 368/01 deve essere interpretato alla luce della legge delega (n. 422/00) e che la stessa (art 1 co 1 dell’all. B) ha consentito la adozione del decreto delegato solo per adeguare l’ordinamento al diritto comunitario (direttiva 1990/70/CE, come modificata) il quale sul punto recepisce integralmente, allegandolo, l’accordo CES-UNICE-CEEP del 18.3.99. A detto accordo si deve quindi fare riferimento per interpretare la normativa in esame. Nel Preambolo dell’accordo si legge l’espresso richiamo al Contratto a tempo indeterminato come forma comune dei rapporti di lavoro. Si deve quindi rilevare che la nullità del termine apposto al contratto non può inficiare l’intero negozio perché lo stesso non si riferisce ad un elemento principale del negozio giuridico, a cui inerisce e non vi è connessione inscindibile tra il termine e le altre clausole contrattuali (come per esempio se si trattasse di contratto a termine per prestazioni che normalmente non possono trovare collocazione presso la convenuta). Il riferimento che si deve fare nel valutare la possibile nullità dell’intero contratto è alla funzione del contratto, alla volontà oggettivizzata nel regolamento contrattuale e non una indagine psicologica (cosi già Cass. 180/47, da ultimo Cass. civ., Sez.II, 05/05/2003, n.6756: In tema di contratti, agli effetti della disposizione contenuta nell’art. 1419 c.c. sulla nullità parziale, la prova che le parti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte affetta da nullità, con conseguente estensione della invalidità all’intero contratto, deve essere fornita dall’interessato ed è necessario al riguardo un apprezzamento in ordine alla volontà delle parti quale obiettivamente ricostruibile sulla base del concreto regolamento di interessi, rimesso al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente e razionalmente motivato); si deve quindi verificare se il contratto, rispetto agli interessi nel concreto perseguiti, fosse utile all’atto della sua stipula (cass. Sent. n. 536/67). In questo senso è evidente la non estensibilità della nullità atteso che la clausola nulla (quella relativa al termine) non era essenziale al perseguimento dello scopo nel concreto perseguito (acquisizione della prestazione di un portalettere).
Non resta quindi che dichiarare la nullità del termine apposto al contratto in atti e valevole per il periodo dall’1.2.02 al 30.4.02 e per l’effetto dichiarare che inter partes intercorre un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con decorrenza dall’inizio del rapporto (nello stesso senso Cass. Civ.SS.UU Sent n. 12985/08).
Passando, da ultimo, alla considerazione delle conseguenze patrimoniali derivanti dall’illegittima apposizione del termine, avuto riguardo alla regola contenuta nell’art. 32, comma 5 del Collegato lavoro, occorre prendere atto che, con tale disciplina, il legislatore ha inteso limitare il pagamento dovuto al lavoratore ad una indennità omnicomprensiva comunque destinata ad assorbire ogni ulteriore profilo risarcitorio e non certo ad aggiungersi a questo. Del pari, siffatta previsione, in quanto sganciata dall’effettivo danno subito dal ricorrente, esclude la possibilità di invocare l’aliunde perceptum.
La compatibilità di detta disposizione con l’assetto di cui al diritto dell’Unione europea, proposta da questo giudice con la Ordinanza C.C. contro P.I. S.p.a. (procedimento C-361/12), è stata parzialmente decisa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con sentenza 12.12.13 ed in particolare in relazione alla sola disposizione transitoria di cui al comma 7 dell’articolo in esame (la Corte non ha risposto in relazione a tutte le questioni proposte).
La Corte, oltre a rilevare la natura giuridica di Stato della convenuta ai fini della applicazione del diritto dell’Unione ha statuito quanto segue. Le conseguenze della interruzione illegittima del rapporto di lavoro rientrano nell’ambito di applicazione della Clausola 4 della direttiva 1999/70/Ce. Infatti la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che la nozione di «condizioni di lavoro» include l’indennità che un datore di lavoro è tenuto a versare ad un lavoratore a causa dell’illecita apposizione di un termine al contratto di lavoro perché è corrisposta ad un lavoratore a causa del rapporto di lavoro che lo lega al suo datore di lavoro. Dal momento che è dunque versata a causa dell’impiego, essa rientra nella nozione di «condizioni di lavoro» (punti 37 e 38 della sentenza indicata). Sulla scorta del solo principio di uguaglianza/non discriminazione, previsto dalla Clausola 4 della Direttiva 1999/70/Ce, non si può ritenere violata la parità di trattamento, perché non appaiono direttamente comparabili la tutela prevista per la illegittima interruzione dei contratti a tempo indeterminato ex art 18 l. 300/70, formulazione ante riforma c.d. Fornero, e quella dovuta per l’ipotesi di illegittima interruzione dei contratti a termine (punti 44 e 45 della Sentenza). Le conseguenze della illegittima interruzione del rapporto di lavoro a termine non trova quindi tutela sulla scorta della sola Clausola 4.
La Corte ha però evidenziato che la clausola 8, punto 1, dell’accordo quadro dispone che «[g]li Stati membri e/o le parti sociali possono mantenere o introdurre disposizioni più favorevoli per i lavoratori di quelle stabilite nel presente accordo». È ciò che è stato fatto dall’Italia al momento della adozione del D.Lgs. n. 368/01 per cui la stessa ha scelto di equiparare le sue situazioni (dal combinato disposto delle summenzionate clausole 4, punto 1, e 8, punto 1, risulta che queste legittimano gli Stati membri che lo desiderino a introdurre disposizioni più favorevoli ai lavoratori a tempo determinato e, pertanto, ad assimilare, in un’ipotesi come quella in discussione nel procedimento principale, le conseguenze economiche della illecita conclusione di un contratto di lavoro a tempo determinato a quelle che possono derivare dalla illecita interruzione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato). Dunque è applicabile la Clausola 4 della direttiva 1999/70/Ce, e la situazione di cui è causa si trova sotto tutela della clausola predetta, in ragione della equiparazione/assimilazione operata dall’Ordinamento interno. La stessa è stata effettuata dallo Stato, con una equiparazione in alto della tutela per il prestatore di lavoro a termine. Non di obbligo di diritto europeo dunque si tratta ma di opzione interna in tal senso, che ricade pur sempre nell’ambito di applicazione della Clausola 4, per come espressamente statuito dalla C.g.u.e. e che potrebbe determinare, in relazione all’ipotesi di cui al comma 7 dell’art. 32, alla non applicazione della predetta disposizione per violazione della clausola 4 (in combinato con la clausola 8, punto 1): infatti, visto il livello delle fonti, la equiparazione operata fino alla data di entrata in vigore della predetta disposizione, non può essere lesa da fonte di rango subordinato (la legge interna). Fino alla entrata in vigore della legge n. 183/10, che ha introdotto l’art. 32 comma 7, le due situazioni sono equiparabili, per scelta interna, e rientranti dell’ambito di applicazione della clausola 4, per cui l’assetto normativo interno, ferma restando la sua successiva modificabilità nei limiti di cui alla Clausola 8, punto 3, non può essere modificato con effetto retroattivo, andando ad incidere su una situazione giuridica coperta dalla tutela di cui alla Clausola 4 e dunque sulla operatività della stessa. Detta opzione interpretativa trova ulteriore conferma nel punto 49 della sentenza C. (Considerata la soluzione fornita alla quarta e alla quinta questione, non è necessario pronunciarsi sulle questioni prima, seconda, terza e sesta) posto che per la Corte la risposta fornita consente di ritenere assorbita anche la questione relativa alla ammissibilità di una norma con efficacia retroattiva (cfr in particolare la 6° questione: Se i principi generali del vigente diritto [dell’Unione] della certezza del diritto, della tutela del legittimo affidamento, dell’uguaglianza delle armi del processo, dell’effettiva tutela giurisdizionale, [del diritto] a un tribunale indipendente e, più in generale, a un equo processo, garantiti dall’articolo 6, [paragrafo 2, UE] (così come modificato dall’articolo 1[, paragrafo] 8, del Trattato di Lisbona e al quale fa rinvio l’articolo 46 [UE]) – in combinato disposto con l’articolo 6 della [CEDU] e con gli articoli 46, 47 e 52, [paragrafo] 3, della [Carta] – debbano essere interpretati nel senso di ostare all’emanazione da parte dello Stato italiano, dopo un arco temporale apprezzabile (9 anni), di una disposizione normativa, quale il comma 7 dell’articolo 32 della legge n. 183/10[, che] alteri le conseguenze dei processi in corso danneggiando direttamente il lavoratore a vantaggio del datore di lavoro e che l’efficacia ripristinatoria sia proporzionalmente ridotta all’aumentare della durata del processo, sin quasi ad annullarsi). Appare chiaro che, se l’effetto del pronunciamento della Corte non fosse del tutto analogo a quello che sarebbe stato conseguente ad una risposta positiva a detto quesito, la C.g.u.e. avrebbe dovuto pronunciarsi.
Tanto è detto al fine di spiegare la successiva e consequenziale opzione interpretativa in relazione alla compatibilità del comma 5 dell’art 32 con la Clausola 4. È indubbio che quella operata dall’art 32, commi 5 e 6 (nonché 7) costituisce una riduzione del livello di tutela, operata in applicazione dell’Accordo quadro.
Infatti si tratta di misura nazionale intesa a garantire che l’obiettivo perseguito dalla direttiva 1999/70/Ce possa essere raggiunto, comprese le misure che, successivamente alla trasposizione propriamente detta, completino o modifichino le norme nazionali già adottate (Sentenza della C.g.u.e. del 23 aprile 2009, Kiriaki Angelidaki, C-378/07, punto 131).Una normativa non potrebbe essere considerata contraria a detta clausola nel caso in cui la reformatio in peius che essa comporta non fosse in alcun modo collegata con l’applicazione dell’accordo quadro. Ciò avverrebbe qualora detta reformatio in peius fosse giustificata non già dalla necessità di applicare l’accordo quadro, bensì da quella di promuovere un altro obiettivo, da essa distinto (sentenza Angelidaki punto 135).
Si è al di fuori della applicazione dell’accordo quadro in ipotesi di promozione di un altro obiettivo, da essa distinto e conforme ai principi fondamentali del diritto dell’Unione.
Infatti restano irrisolti i dubbi interpretativi già avanzati da questo giudice nella predetta causa C. ed in specie i seguenti:
Se sia contrari[a] al principio di equivalenza una disposizione di diritto interno che, nella applicazione della direttiva 1999/70/CE, preveda conseguenze economiche, in ipotesi di illegittima sospensione nella esecuzione del contratto di lavoro, con clausola appositiva del termine nulla, diverse e sensibilmente inferiori rispetto [alle] ipotesi di illegittima sospensione nella esecuzione del contratto di diritto civile comune, con clausola appositiva del termine nulla.
Se sia conforme all’ordinamento europeo che, nell’ambito di sua applicazione, la effettività di una sanzione avvantaggi il datore di lavoro abusante, a danno del lavoratore abusato, di modo che la durata temporale, anche fisiologica, del processo danneggi direttamente il lavoratore a vantaggio del datore di lavoro e che l’efficacia ripristinatoria sia proporzionalmente ridotta all’aumentare della durata del processo, sin quasi ad annullarsi.
Se, nell’ambito di applicazione dell’ordinamento europeo ai sensi dell’articolo 51 della [Carta], sia conforme all’articolo 47 della Carta ed all’articolo 6 CEDU che la durata temporale, anche fisiologica, del processo danneggi direttamente il lavoratore a vantaggio del datore di lavoro e che l’efficacia ripristinatoria sia proporzionalmente ridotta all’aumentare della durata del processo, sin quasi ad annullarsi.
La valutazione però deve essere operata in concreto, posto che è necessario, perché sia rilevante nel presente giudizio, un danno effettivo, ovvero un sensibile scostamento tra la tutela di diritto comune e quella accordata dal comma 5 dell’art 32 della L. n. 183/10, cosa che sovente avviene, ad esempio, nell’ipotesi in cui la reintegra venga disposta per la prima volta in grado di appello.
Nel caso di specie la questione appare irrilevante, posto che anche a ritenere che l’art 32, comma 5, confligga con i predetti principi, ovvero la finalità perseguita non rientri tra le legittime finalità di politica sociale che consentono la regressione delle tutele, (di tal chè sarebbe ipotizzabile la perdurante operatività della precedente tutela perché conforme alla clausola 4, in combinato disposto con la Clausola 8, punto 1, in assenza di regressione consentita. Detta situazione sarebbe valutabile direttamente dal giudice interno, senza necessità di remissione alla Corte costituzionale, venendo in rilievo la diretta operatività della Clausola 4), all’istante, in concreto, spetterebbero le retribuzioni dal 10.10.12, ovvero un anno e due mesi di retribuzioni circa (cfr messa in mora), in una misura assai vicina alla misura massima della indennità risarcitoria per cui non può ritenersi una significativa riduzione del livello generale di tutela (nel prosieguo si analizzerà il problema previdenziale).
Deve infatti tenersi conto che, da un punto di vista risarcitorio, la restitutio in integrum dovrebbe tener conto di tutte quelle variabili e minori costi conseguenti alla mancata effettuazione della prestazione lavorativa.
Se detta valutazione non è operabile da un punto di vista di diritto interno, per i noti principi civilistici conseguenti al risarcimento del danno ed oneri della prova connessi, nel caso di specie la comparazione deve essere effettuata da un punto di vista ordinamentale europeo.
In questo ambito i poteri valutativi sono ben più ampi spettando al giudice verificare, tenuto conto dell’insieme dei fattori, come emergenti in concreto (ex plurimis, sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a., da C 302/11 a C 305/11, indicata dalla stessa C.g.u.e. della sentenza C.), se la disuguaglianza sia giustificata. Nel caso di specie lo scostamento appare senza dubbio, per le predette ragioni giustificato.
Neppure depone in senso diverso il testo della disposizione interpretativa dell’art. 32, comma 5, ovvero l’art. 1, comma 13, della legge n. 92/12.
Ai sensi della predetta norma la disposizione di cui al comma 5 dell’articolo 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro.
La disposizione introduce l’elemento nuovo delle conseguenze contributive (assente nella formulazione dell’art 32 comma 5), ma sul punto deve ritenersi coinvolga il solo risarcimento del danno sub specie di versamento della riserva matematica o ordinario risarcimento del danno, in ipotesi di prescrizione contributiva.
Infatti con la declaratoria di nullità del termine il contratto è ab origine a tempo indeterminato; inoltre il rapporto giuridico, tra datore di lavoro ed INPS, nonché tra lavoratore ed INPS, è diverso e distinto da quello regolamentato dalla disposizione in esame. Occorre infatti tenere distinto il rapporto previdenziale-assicurativo, che riguarda da un lato il lavoratore (e il datore di lavoro), dall’altro l’ente previdenziale alla cui gestione quegli è iscritto.. Tale principio di “automaticità delle prestazioni”, con riguardo ai sistemi di previdenza e assistenza obbligatorie, trova applicazione non già, come afferma il remittente, “solo in quanto il sistema delle leggi speciali vi si adegui”, ma – come si esprime l’art. 2116 cod. civ. – “salvo diverse disposizioni delle leggi speciali”: il che significa che potrebbe ritenersi sussistente una deroga rispetto ad esso solo in presenza di una esplicita disposizione in tal senso. Detto principio costituisce una fondamentale garanzia per il lavoratore assicurato, intesa a non far ricadere su di lui il rischio di eventuali inadempimenti del datore di lavoro in ordine agli obblighi contributivi, e rappresenta perciò un logico corollario della finalità di protezione sociale inerente ai sistemi di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti(Corte costituzionale, sentenza n. 374/97).
Il principio dell’automatismo contributivo trova il suo fondamento nell’art. 38, comma 2, della Costituzione della Repubblica italiana (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 87 del 1970) ed ha l’effetto di rendere indipendente il rapporto contributivo intercorrente tra ente previdenziale e datore di lavoro rispetto all’altro, di tipo prestazionale, tra l’ente e l’assicurato, (Cass. 31.1/20.4.2002, n. 5767/02).
Ne deriva dunque che la disposizione interpretativa in esame, che riguarda unicamente il risarcimento del lavoratoreovvero ciò che era disciplinato dall’art 32, comma 5, in una controversia che coinvolge solo datore di lavoro e lavoratore, riguarda il solo danno contributivo e non il versamento contributivo, ove non prescritto. Quanto alla misura della indennità risarcitoria, la stessa, deve essere stabilità in una misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, ovvero tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’impresa, anzianità di servizio del prestatore di lavoro, comportamento e condizioni delle parti. Tenuto conto che sono conosciuti i requisiti da 1 a 3 (i primi due in misura massima e l’ultimo in misura minima) appare equo fissare la misura della stessa in otto mensilità di retribuzione.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Non definitivamente pronunciando nella causa civile di cui in epigrafe, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa e reietta, così provvede:
1) dichiara la nullità dell’ apposizione del termine al contratto di lavoro impugnato e per l’ effetto dichiara che inter partes intercorre un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con decorrenza dal primo giorno lavorativo;
2) condanna la convenuta al pagamento in favore del ricorrente delle retribuzioni infratempotralmente maturate da oggi alla effettiva riammissione in servizio, con interessi legali e rivalutazione monetaria sulle somme ricapitalizzate di anno in anno dal dì del dovuto all’effettivo soddisfo;
3) condanna la convenuta al pagamento in favore del ricorrente di una indennità risarcitoria pari a 8 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
4) condanna la convenuta al pagamento delle spese legali dell’istante che si liquidano in E. 1500,00 oltre IVA e CPA, se dovute.
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