TRIBUNALE DI RAVENNA – Ordinanza 06 maggio 2021, n. 97
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento – Applicazione della tutela reintegratoria – Condizioni – Accertamento della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento. – Legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), art. 18, settimo comma.
Motivi
1 – Fatto e processo a quo.
Con ricorso C.E. S.r.l. proponeva opposizione ai sensi dell’art. 1, comma 51 della legge n. 92/2012 avverso l’ordinanza che, a conclusione della prima fase del c.d. rito Fornero, aveva disposto la reintegra di M.P., licenziato tre volte nel giro di alcuni mesi, una delle quali per giustificato motivo oggettivo, le altre due per giusta causa.
In particolare:
1. Il primo è un licenziamento per giusta causa: procedimento disciplinare iniziato con missiva del 9 ottobre 2018, sanzione comminata con missiva del 22 ottobre 2018;
2. Il secondo è un licenziamento per giustificato motivo oggettivo: procedura iniziata con la comunicazione preliminare del 12 ottobre 2018; licenziamento comminato con missiva del 22 novembre 2018;
3. Il terzo è ancora un licenziamento per giusta causa: procedimento disciplinare iniziato con missiva del 28 gennaio 2019; sanzione comminata con missiva del 12 febbraio 2019.
In questa sede di opposizione C.E. S.r.l. concludeva domandando «Si chiede che l’ill.mo Tribunale – Giudice del Lavoro – adito competente per la fase di opposizione ex art. 1, commi 51° – 57°, legge n. 92/2012, contrariis rejectis e previa ogni declaratoria meglio vista, voglia, in riforma della ordinanza opposta, – respingere siccome infondate in fatto e in diritto le domande proposte nella precedente fase dal ricorrente nei confronti della C.E. S.p.A. e, pertanto, rigettare il ricorso e le domande tutte, anche successivamente proposte; condannare conseguentemente il sig. M.P. alla restituzione in favore della C.E. S.p.A. della somma a lui corrisposta, come documentato in atti, in esecuzione della ordinanza qui opposta, provvisoriamente esecutiva, ovvero per i titoli ad essa conseguenti per un totale di euro 94.495,10 (pari a un lordo di euro 128.355,00) oltre a quelle che dovesse ulteriormente corrispondere per lo stesso titolo, ovvero della diversa somma e del diverso titolo che eventualmente risulterà dovuto, con i conguagli fra le diverse poste che dovessero necessitare, con interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo; nel caso di accoglimento di taluna domanda dell’odierno opposto, voglia comunque (salvo gravame) limitarla ai minimi indennitari».
C.E. S.r.l. precisava nell’atto di non impugnare le statuizioni contenute nell’ordinanza opposta relativamente alle decisioni sui due licenziamenti per giusta causa ritenuti in prime cure illegittimi, con la conseguenza che l’oggetto attuale del giudizio rimane esclusivamente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
M.P. si costituiva con memoria proponendo una domanda riconvenzionale, anche in punto di esatta determinazione dell’indennità allo stesso spettante in seguito all’esercizio dell’opzione in luogo della effettiva reintegra («…condannare CFS al pagamento della somma di euro 8.977,50 a titolo integrazione per la opzione esercitata dal sig. Patrizi alla reintegra nel posto di lavoro»).
La causa veniva rimessa una prima volta alla Corte costituzionale per una questione di legittimità in via incidentale relativa al 7° comma dell’art. 18, nella parte in cui tale disposizione regolamenta la massima tutela prevista in ipotesi di licenziamento per giusta causa.
La norma prevedeva, infatti, che il giudice «Può altresì applicare la predetta disciplina [ossia quella di cui al 4° comma dell’art. 18, ossia la tutela reale attenuata] nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».
La Corte costituzionale, con sentenza n. 59 del 2021 dichiarava «l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma.
Il fascicolo veniva riassunto dal lavoratore in data 19 aprile 2021 e le parti si ripresentavano entrambe all’udienza odierna, insistendo ciascuna per le conclusioni già rassegnate prima della sospensione.
Rivalutati gli atti di causa, alla luce delle motivazioni svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 59 del 2021, si ritiene sussista ancora un problema di costituzionalità nel 7° comma dell’art. 18 (norma da applicare nel caso di specie), con la conseguenza che deve essere nuovamente sollevata una diversa ed ulteriore (rispetto a quella già accolta) questione di costituzionalità in via incidentale.
La stessa attiene alla qualifica di “manifesta” che l’insussistenza del fatto di licenziamento per motivo oggettivo connesso ad una ragione c.d. “economica” deve avere per condurre alla reintegra.
Tale questione non veniva proposta con l’ordinanza precedente (7 febbraio 2019) e, pertanto, può (deve, non ritenendosi la questione manifestamente infondata) essere sollevata in questa ulteriore sede incidentale.
2 – L’oggetto del giudizio di costituzionalità: la norma.
L’oggetto dell’ordinanza di rimessione è l’attuale versione dell’art. 18, 7° comma, legge n. 300/1970.
La norma prevede che il giudice «applica altresì la predetta disciplina [ossia quella di cui al 4° comma dell’art. 18, ossia la tutela reale attenuata] nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma».
3 – I parametri.
Si ritiene che tale disposizione ordinaria sia in contrasto con alcuni parametri costituzionali. In particolare si tratta delle seguenti disposizioni:
art. 3, 1° comma Cost.;
articoli 1, 4, 35 Cost.;
art. 3, 2° comma Cost.;
art. 24 Cost.
4 – La questione.
Si dubita della legittimità costituzionale dell’art. 18, 7° comma, legge n. 300/1970 laddove prevede che, in ipotesi in cui il giudice accerti l’insussistenza di un fatto posto a fondamento di un licenziamento per G.M.O. “economico”, non debba sempre applicare la tutela reintegratoria (come fa quando accerta l’inesistenza di un fatto soggettivo di licenziamento, ma anche in materia di licenziamenti collettivi), dovendo ulteriormente andare a distinguere l’ipotesi in cui l’insussistenza in questione è manifesta (nella quale – ora – deve applicare la tutela in forma specifica), dall’ipotesi in cui l’insussistenza è “non manifesta”, nella quale applica solo la tutela monetaria del 5° comma, senza reintegra.
La questione si pone con riferimento a numerose norme costituzionali.
Il fulcro della questione ruota attorno all’art. 3, 1° comma della Costituzione, sotto vari profili, dal mancato rispetto del principio di uguaglianza (rispetto a due diverse ipotesi omogenee in cui il legislatore ha previsto la reintegra), al cattivo uso della discrezionalità normativa, che si risolve nel conio di una disciplina irragionevole, fondata su un criterio illogico e indeterminato, passando per la violazione del diritto di azione del lavoratore, giungendosi sino all’ingiusto bilanciamento dei valori costituzionali in materia e alla violazione del precetto di uguaglianza sostanziale di cui al 2° comma dell’art. 3.
Verranno individuati una serie di vizi e di problematiche che scaturiscono dalla particella normativa “manifesta” contenuta nel 7° comma dell’art. 18.
Le stesse sono invero numerose, ma soprattutto sono strettamente connesse tra loro, posto che l’inserimento di un elemento estraneo ad una determinata tradizione giuridica in un corpo normativo complesso quale è il diritto dei licenziamenti è stato in grado di apportare una pluralità di situazioni di aporia normativa, così determinando nello stesso momento una serie di lesioni ad una molteplicità di valori e garanzie costituzionali.
5 – Rilevanza della questione.
La questione è rilevante in quanto la norma censurata viene in diretta ed immediata applicazione nel caso di specie, posto che il giudizio a qua verte su un licenziamento per G.M.O. in relazione al quale deve svolgersi (nella seconda fase del c.d. rito Fornero) un nuovo giudizio circa la sussistenza o meno del fatto di G.M.O. economico.
Valutazione che, tuttavia, secondo la normativa così come applicata dal diritto vivente, non sarebbe sufficiente (in ipotesi di accertata insussistenza del fatto) per concludere il giudizio con la reintegra (domanda principale del lavoratore), essendo chiamato il giudice ulteriormente a discernere quello che, in tesi, si ritiene essere l’indiscernibile.
La data di assunzione del ricorrente (anno 2001, anteriore al 7 marzo 2015) e i requisiti dimensionali dell’impresa (con circa cinquanta dipendenti in media) importano l’applicazione dell’art. 18, legge n. 300/1970 (che, infatti, non è in contestazione tra le parti e non è stata oggetto di specifico motivo di opposizione).
Va, inoltre, evidenziato che, nel caso di specie, il lavoratore, all’esito della prima fase per lui vittoriosa del giudizio ex legge n. 92/2012, art. 1, commi 47 ss., avendo egli ottenuto la reintegra, ha esercitato il diritto di optare per l’indennizzo monetario (quindici mensilità), trasformando la reintegra in un risarcimento del danno.
Non si può qui ritenere che l’esercizio di tale opzione valga, in senso contrario, a privare di rilevanza la questione nel giudizio a quo, posto che, comunque, anche la scelta tra l’applicazione della tutela del 5° e quella del 4° comma “indennitarizzata” dalla scelta del lavoratore, conduce a conseguenze diverse in punto di quantum risarcitorio e, dunque, conserva, comunque, una specifica e decisiva rilevanza.
Infatti, solo applicando il 4° comma al risarcimento ordinario andrebbe aggiunto il quid pluris di risarcimento proprio della monetizzazione della reintegra, altrimenti non spettante nell’ipotesi del 5° comma.
Evidentemente, nemmeno può rilevare in senso ostativo alla rilevanza della questione la circostanza che la tutela del 4° comma sia stata già concessa all’esito della prima fase, posto che l’esito della fase che si conclude con sentenza del Tribunale può bene essere di segno opposto rispetto a quella che si conclude con ordinanza, potendo tale giudizio avere la stessa estensione oggettiva del giudizio di prime cure ed essendo nello stesso, pertanto, pienamente (ed anzi doverosamente) riesaminabile la questione della scelta dell’applicazione del 4° o del 5° comma ai sensi del comma 7, dell’art. 18.
Come visto, C.E. S.r.l. ha impugnato la statuizione relativa al licenziamento per G.M.O., che residua quale oggetto del giudizio a quo.
Nel ricorso in opposizione si mette grande enfasi difensiva sulla graduazione delle tutele in caso di licenziamento economico illegittimo, puntandosi apertamente sull’insussistenza del presupposto della “manifesta” insussistenza, al fine di escludere “perlomeno” la tutela reintegratoria (pag. 34 del ricorso: «A maggior ragione, dunque, questo dovrà valere nel caso in esame in cui, ben diversamente dal contesto della sentenza commentata, il licenziamento per g.m.o. intimato da CFS al Patrizi è risultata fondato su argomenti solidi e reali in cui il minimo che si possa dire è che debba esserne esclusa la “manifesta insussistenza»”).
La questione di legittimità costituzionale, pertanto, è sicuramente rilevante nel giudizio a quo.
Sulla rilevanza della questione, infine, non può che farsi riferimento alle argomentazioni (nel senso dell’ammissibilità dell’incidente) di Corte costituzionale sentenza n. 59/2021, resa sempre in relazione allo stesso giudizio a quo.
6 – L’impossibilità di una interpretazione adeguatrice.
La norma di legge (7° comma) è chiara e inequivoca sul punto, prevedendo espressamente la necessità per il giudice di compiere – ai fini della pronuncia della tutela reintegratoria -una verifica ulteriore rispetto a quella di insussistenza del fatto di G.M.O. economico, ossia la verifica che tale insussistenza è “manifesta”.
Deve muoversi dalla premessa che il legislatore ha voluto creare (si tratta della peculiarità della riforma dell’art. 18 di cui alla legge n. 92/2012) una serie di diversi rimedi per diversi vizi del licenziamento, prevedendo varie e diversificate tutele, talvolta reintegratorie, talvolta risarcitorie e, tra queste, diverse graduazioni dell’entità del risarcimento del danno.
E nel fare questo ha espressamente differenziato la tutela per il G.M.O. economico da quella per il licenziamento per motivo soggettivo.
Prevedendo, oltre alla abrogata (in quanto incostituzionale) “facoltà” meramente potestativa di reintegra, un ulteriore elemento, pure esso essenzialmente potestativo (seppure declinato su un piano apparentemente probatorio), rappresentato dalla necessità che il “fatto” risulti (secondo la valutazione del singolo giudice del caso concreto) non solo inesistente, ma anche “manifestamente” tale.
A fronte di questo dato letterale insopprimibile, la sola interpretazione adeguatrice sarebbe una interpretazione chiaramente abrogatrice di un chiaro precetto normativo, opzione ermeneutica incompatibile con il modello accentrato di verifica di costituzionalità di cui alla suprema Carta.
La Corte di cassazione ha forgiato una interpretazione della norma de qua nel 2016 e da allora non la ha più abbandonata.
Nella lettura della S.C. tale interpretazione ha un duplice portato.
La prima è quella di richiedere un “facile” accertamento dell’inesistenza del fatto per accedere alla reintegra.
La seconda è quella che realizza uno “spacchettamento” del “fatto” di giustificato motivo oggettivo, di guisa tale da escludere elementi di esso dal nucleo essenziale dello stesso la cui mancanza sola è suscettibile di determinarne la “manifesta” insussistenza.
Circa tale ultimo aspetto si veda la pronuncia n. 14021/2016 (che cassava la sentenza d’appello), nella quale la S.C. motivava che «Si controverte di licenziamento intimato in data 2 ottobre 2012 sottoposto alla disciplina di “Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo” prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 nel testo modificato dalla legge n. 92 del 2012».
Come noto tale legge, graduando le tutele in caso di licenziamento illegittimo, ha previsto – per quanto qui interessa – al quarto comma del novellato art. 18 una tutela reintegratoria definita “attenuata” (per distinguerla da quella più incisiva di cui al primo comma), in base alla quale il giudice annulla il licenziamento e condanna il datare di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento di una indennità risarcitoria dl giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, in misura comunque non superiore a dodici mensilità; al quinto comma dello stesso articolo è prevista, invece, una tutela meramente indennitaria per la quale il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici mensilità e un massimo di ventiquattro, tenuto conto di vari parametri contenuti nella disposizione medesima.
La linea di confine tra le due tutele in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo è disegnata dal settimo comma dell’art. 18 novellato secondo la seguente formulazione testuale per cui il giudice: «Può altresì applicare la predetta disciplina (ndr. quella di cui al quarto comma) nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma».
Da più parti è stata segnalata l’incertezza di portata applicativa cui può dar luogo la norma citata che ricollega alla nozione di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo» conseguenze rilevanti quali il riconoscimento di una tutela di tipo reintegratorio in luogo di una mera compensazione economica.
Poiché il giudice “può” attribuire la cd. tutela reintegratoria attenuata tra tutte le “ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi” del giustificato motivo oggettivo esclusivamente nel caso in cui il ‘fatto posto a base del licenziamento” non solo non sussista, ma anche a condizione che detta “insussistenza” sia “manifesta”, non pare dubitabile che l’intenzione del legislatore, pur tradottasi in un incerto testo normativo, sia quella di riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungono da eccezione alla regola della tutela indennitaria in materia di licenziamento individuale per motivi economici. Ciò posto il Collegio reputa che nella specie la Corte di Appello abbia erroneamente sussunto la fattispecie concreta di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ritenuto illegittimo per violazione dei criteri di correttezza e buona fede nella scelta del lavoratore, nell’alveo delle ipotesi residuali che per legge possono dare ingresso alla tutela reintegratoria.
Infatti in tal caso non possono dirsi manifestamente insussistenti le «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa», di cui all’art. 3 della legge n. 604 del 1966, che hanno determinato la società a ridurre il personale sopprimendo un posto di lavoro tra gli autisti; anzi, posta come effettiva tale esigenza, poiché tuttavia essa riguardava posizioni lavorative omogenee e fungibili, la società non ha rispettato, nell’individuazione del M. tra gli altri, il canone che le era imposto dall’art. 1175 del codice civile, per cui tale ipotesi è riconducibile non a quella peculiare che postala un connotato di particolare evidenza nell’insussistenza del fatto posto a fondamento del recesso, bensì a quella di portata generale per la quale è sufficiente che «non ricorrano gli estremi del predetto giustificato motivo» oggettivo, con conseguente applicazione della tutela indennitaria di cui al quinto comma dell’art. 18 modificato.
Né appare percorribile la strada di una interpretazione estensiva della disposizione contenuta nell’art. 5, comma 3, della legge n. 223 del 1991, così come sostituito dall’art. 1, comma 46, della legge n. 92 del 2012, che prevede la tutela reintegratoria attenuata in caso di violazione dei criteri di scelta nelle procedure di licenziamento collettivo. Come innanzi chiarito, infatti, il riferimento della giurisprudenza ai criteri legali di selezione previsti dall’art. 5 della legge n. 223 del 1991 serve solo ad offrire uno standard idoneo a rispettare l’art. 1175 del codice civile nel caso di recesso per giustificato motivo oggettivo di personale in condizione di fungibilità di mansioni, ma non rappresenta direttamente la fonte di disciplina del licenziamento individuale plurimo, per cui ad esso non è applicabile l’apparato sanzionatorio stabilito per i licenziamenti collettivi».
Orientamento, come si vedrà nella parte dedicata all’analisi del criterio in questione, confermato a più riprese dalle sentenze della S.C.
Come già sopra accennato, sotto la prospettiva più propriamente probatoria, la S.C. richiede un “facile” accertamento dell’inesistenza del fatto per accedere alla reintegra (e in caso di mancato raggiungimento di tale requisito, la domanda di reintegra viene respinta, nonostante la prova raggiunta – anche declinata secondo il mancato assolvimento dell’onere della prova datoriale circa la sussistenza del fatto oggettivo di licenziamento – dell’inesistenza del fatto).
Infatti:
«In caso di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, il tema della ricollocazione del prestatore in ambito aziendale rientra nel cd. obbligo di “repêchage”, la cui verifica incide sul requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”, previsto dall’art. 18, comma 7, st. lav. novellato, da intendere come una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti legittimanti il recesso, che ne consenta di apprezzare la chiara pretestuosità, con accertamento di merito incensurabile, in quanto tale, in sede di legittimità. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione della Corte territoriale di riconoscere la tutela reintegratoria attenuata in un caso in cui il lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo, aveva accettato di svolgere le mansioni inferiori assegnategli, sia pure contestando l’inquadramento applicato)» (Cass. n. 298937/2019);
«6. Ciò posto, si osserva che l’indagine, che deve compiere il giudice del merito al fine di stabilire se una data fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia o meno caratterizzata dalla “manifesta insussistenza del fatto”, si compone di due momenti concettualmente distinti ma coesistenti nell’unitarietà dell’accertamento giudiziale: nel senso che, con il primo di essi, che attiene alla struttura tipica della specifica fattispecie espulsiva, il giudice è chiamato ad accertare il “fatto” del licenziamento in ciascuno degli elementi che concorrono a delinearlo, e pertanto, a procedere ad un’opera di ricognizione tanto della effettiva sussistenza di un processo di riorganizzazione o riassetto produttivo, come della necessaria sussistenza del nesso di causalità fra tale processo e la perdita del posto di lavoro ed inoltre dell’impossibilità per il datore di lavoro di ricollocare il proprio dipendente nell’impresa riorganizzata e ristrutturata (Cass. n. 24882/2017 e numerose conformi); con il secondo, il giudice è chiamato ad una penetrante analisi e valutazione di tutte le circostanze del caso concreto, quale unico mezzo per determinare l’eventuale riconduzione del fatto sottoposto al suo esame all’area di una insussistenza che deve porsi come “manifesta” e cioè contraddistinta da tratti che ne segnalano, in modo palese, la peculiare difformità rispetto alla mera assenza dei presupposti del licenziamento» (Cass. n. 7167/2019);
«L’ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo insussistente trova infatti inquadramento, rispetto ai rapporti di lavoro cui trova applicazione il vigente testo dell’art. 18, legge n. 300/1970, in due diverse fattispecie. Esse sono caratterizzate, l’una, dalla semplice non ricorrenza degli «estremi del predetto giustificato motivo obiettivo» e, l’altra, dalla «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento», che ha l’effetto, ove ricorrente, di rimettere al giudice la decisione in ordine all’applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4 cit., sulla base di una valutazione discrezionale («può») da svolgere (Cass. 2 maggio 2018, n. 10435) in forza dei principi generali in tema di tutela in forma specifica e non eccessiva onerosità della stessa (art. 2058 del codice civile) ed applicandosi altrimenti, pur nel palesarsi del vizio di maggiore gravità, la sola tutela indennitaria di cui al comma 5. Il predetto quadro normativo è stato del tutto ignorato dalla Corte d’Appello e da ciò deriva l’accoglimento dei motivi ora in esame, con rimessione al giudice del rinvio della corrispondente valutazione differenziale.
Tale valutazione, completandosi il ragionamento sopra svolto, dovrà peraltro muovere dalla ragione di illegittimità del licenziamento consistente nell’insussistenza dei motivi addotti con l’atto di recesso, in quanto come si è detto giuridicamente prevalente ed assorbente, mentre ogni ulteriore profilo fattuale non potrà che rilevare quale mero elemento di contesto, al fine di verificare complessivamente, con accertamento demandato al giudice del merito, se ricorrano i presupposti di «evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento» e di «chiara pretestuosità del recesso» (così sempre Cass. 10435/2018) che consentano eventualmente di addivenire, subordinatamente all’ulteriore valutazione discrezionale rispetto alla non eccessiva onerosità del rimedio, alla tutela (anche) reintegratoria; applicandosi altrimenti la sola tutela risarcitoria di cui al comma 5 del citato art. 18» (Cass. n. 2930/2019 che cassa la sentenza d’appello);
«I licenziamenti, secondo la Corte distrettuale, erano piuttosto illegittimi, in difetto di prova della sussistenza della ragione posta a base degli stessi (id est: l’impossibilità di reperire alcuna missione lavorativa compatibile con il livello professionale); in proposito, i giudici di merito osservavano come la società avesse proceduto ad assunzioni a termine per ricoprire posizioni lavorative, astrattamente compatibili con quelle dei lavoratori espulsi, delle quali non aveva offerto valida giustificazione; per effetto di tale accertamento, conseguiva l’applicazione della disciplina di cui al comma 5 dell’art. 18 cit., dovendosi escludere la «manifesta infondatezza» del fatto posto a base del licenziamento, in assenza di una prova positiva di insussistenza del giustificato motivo oggettivo… Il secondo motivo è infondato.
La Corte di Appello ha correttamente applicato l’art. 18, commi 5 e 7, della legge n. 300 del 1970, secondo l’interpretazione che questa Corte ha, di recente, offerto. Con la pronuncia n. 10435 del 2018 è stato chiarito che «In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la verifica del requisito della «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» previsto dall’art. 18, comma 7, st. lav., come novellato dalla legge n. 92 del 2012, concerne entrambi i presupposti di legittimità del recesso e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (cd. «repechage»); fermo l’onere della prova che grava sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966, la «manifesta insussistenza» va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti, che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso» Per quanto più di rilievo nella fattispecie di causa, la Corte ha ritenuto applicabile il regime indennitario in presenza di una «insufficienza probatoria» concernente l’adempimento dell’obbligo di repechage (cfr. in motivazione, Cass. n. 10435 cit., paragrafo 8). A detti principi, cui occorre assicurare continuità, si è attenuta la Corte di appello. I giudici di merito hanno ritenuto non raggiunta la prova della sussistenza della ragione organizzativa posta a base del licenziamento e dunque del presupposto che, unitamente all’obbligo del repechage, integra il giustificato motivo oggettivo (impossibilità di inviare in missione i lavoratori); la Corte territoriale ha osservato che, dalle risultanze istruttorie, era emersa, nell’arco temporale rilevante ai fini di causa, la stipulazione di plurimi contratti a termine per posizioni lavorative, astrattamente compatibili con quelle dei lavoratori espulsi, di cui il datore di lavoro non aveva offerto valida giustificazione; al contempo, ha considerato, anche, «la mancanza di (un) interesse della parte datoriale a mantenere in disponibilità i lavoratori (per un lungo) periodo invece che collocarli presso gli utilizzatori», pervenendo ad un giudizio conclusivo di insufficienza probatoria. In assenza della prova (positiva e/o negativa) del fatto controverso, la Corte di Appello ha applicato la regola di giudizio basata sull’onere della prova, individuando come soccombente, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966, il datore di lavoro; ha, coerentemente, ritenuto illegittimo il recesso ma, sul piano del regime sanzionatorio, ha applicato la tutela risarcitoria, escludendo la «manifesta insussistenza» del fatto posto a base del licenziamento» (Cass. n. 181/2019).
«Deve infatti rilevarsi che la sentenza impugnata ha erroneamente, automaticamente e con motivazione apodittica, equiparato la ritenuta carenza di prova in ordine alle ragioni oggettive poste a base del licenziamento con la manifesta insussistenza delle stesse, in contrasto con la lettera della legge e la giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex aliis, Cass. n. 10435/18, Cass. n. 17528/17, Cass. n. 14021/16) che ha evidenziato che la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”, di cui al comma 7 dell’art. 18, concerne entrambi i presupposti di legittimità del recesso per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore.
La “manifesta insussistenza”, in particolare, va riferita ad una chiara, evidente e facilmente verificabile (sul piano probatorio) assenza dei suddetti presupposti, mentre la sentenza impugnata difetta di una adeguata indagine al riguardo» (Cass. n. 16702/2018 che cassa la sentenza d’appello);
«Questa Corte ha già osservato che la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”, di cui all’art. 18, comma 7 st. lav. come modificato dalla legge n. 92 del 2012 art. 1, comma 42, è da intendersi come chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso, cui non può essere equiparata una prova meramente insufficiente, ovvero, è il caso si precisarlo, l’ipotesi in cui tale requisito possa semplicemente evincersi da altri elementi di per sé opinabili o non univoci, come nel caso di specie il ricorso ad ore di straordinario, normalmente legato ad esigenze contingenti (e dalla Corte di merito accertate, peraltro, come riferibili al monte ore di due soli lavoratori), cfr. Cass. n. 16702/18, Cass. n. 181/19» (6083/2021).
Dunque, la norma viene costantemente interpretata dal diritto vivente come esistente e come avente un contenuto determinato (che sarà analizzato nell’esposizione dei singoli ritenuti vizi di costituzionalità), che si ritiene incompatibile con i principi costituzionali più sopra enunciati.
7 – La non manifesta infondatezza della questione.
Occorre premettere il ragionamento di partenza per ogni questione relativa al sindacato sulle tecniche di tutela disposte dal legislatore contro i licenziamenti illegittimi, così come sintetizzato nella motivazione di Corte Cost. n. 59/2021, ossia:
«8. – Sul diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 Cost.), questa Corte ha fondato, già in epoca risalente, l’esigenza di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» le fattispecie di licenziamento (sentenza n. 45 del 1965, punto 4 del Considerato in diritto).
L’attuazione del diritto «a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991, punto 9 del Considerato in diritto) è stata ricondotta, anche di recente, nell’alveo delle valutazioni discrezionali del legislatore, quanto alla scelta dei tempi e dei modi della tutela (sentenza n. 194 del 2018, punto 9.2. del Considerato in diritto), anche in ragione della diversa gravità dei vizi e di altri elementi oggettivamente apprezzabili come, per esempio, le dimensioni dell’impresa. Si è anche rimarcato che la reintegrazione non rappresenta «l’unico possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali (sentenza n. 46 del 2000, punto 5 del Considerato in diritto).
In un assetto integrato di tutele, in cui alla Costituzione si affiancano le fonti sovranazionali (art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30) e dell’Unione europea (art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – CDFUE -, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), «molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato» (di recente, sentenza n. 254 del 2020, punto 5.2. del Considerato in diritto).
Nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore, il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento che gli compete, è vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza».
Tali principi – uguaglianza e ragionevolezza – ma non solo questi, si ritiene siano stati violati dal legislatore del 2012 con l’introduzione del criterio della “manifesta” insussistenza.
In particolare, Corte cost. n. 51/2021 (chiamata a pronunciarsi sulla sola questione della discrezionalità giudiziale – “può” – di disporre del rimedio in forma specifica nel licenziamento economico in caso di insussistenza del fatto) ha individuato, quale primo vizio censurato, una illegittima differenza di disciplina, a fronte di una parità di vizio (“insussistenza del fatto”), rispetto alla disciplina della reintegra obbligatoria prevista nel motivo soggettivo.
Secondo la Corte «In un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, annette rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria, si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte di una inconsistenza manifesta della giustificazione addotta e del ricorrere di un vizio di più accentuata gravità rispetto all’insussistenza pura e semplice del fatto.
Le peculiarità delle fattispecie di licenziamento, che evocano, nella giusta causa e nel giustificato motivo soggettivo, la violazione degli obblighi contrattuali ad opera del lavoratore e, nel giustificato motivo oggettivo, scelte tecniche e organizzative dell’imprenditore, non legittimano una diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della reintegrazione, una volta che si reputi l’insussistenza del fatto meritevole del rimedio della reintegrazione e che, per il licenziamento economico, si richieda finanche il più pregnante presupposto dell’insussistenza manifesta».
Tale parificazione circa l’obbligatorietà del rimedio (il può applicare diventa applica), mantenendo la norma invariata per il resto, si ritiene non sia stata determinata dalla circostanza che nel motivo economico vige la regola della “manifesta” insussistenza del fatto, quanto piuttosto dalla mancata impugnazione, in quell’occasione, anche di tale particella normativa da parte del giudice a quo.
Dunque, la parificazione è stata parziale ed è stata riconosciuta “nonostante” la previsione (che rimane quale elemento distintivo) del presupposto della manifesta infondatezza del fatto.
Si ritiene che le ragioni del ragionamento egualitario della Consulta debbano trovare applicazione anche circa l’ulteriore elemento discriminante il regime di tutele del licenziamento soggettivo rispetto al licenziamento per motivo economico.
Oltre a quelle ragioni di uguaglianza, poi, ve ne sono altre.
Di seguito si tenterà di illustrarle singolarmente e compiutamente.
1° Vizio: Contrasto con art. 3, 1° comma Cost. per ingiustificata disparità di trattamento tra l’ipotesi del licenziamento per motivo soggettivo e quella del G.M.O. economico.
Tertium comparationis:
art. 18, 4° comma Statuto dei lavoratori, ossia la disciplina prevista per il licenziamento per giusta causa.
Ai sensi del 4° comma dell’art. 18: «Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno dei licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall’illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In quest’ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d’ufficio alla gestione corrispondente all’attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma».
Tale disposizione va, dunque, confrontata con quella qui in esame, ai sensi della quale il giudice “applica altresì la predetta disciplina [ossia quella di cui al 4° comma dell’art. 18, ossia la tutela reale attenuata] nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».
Il confronto permette di evidenziare un trattamento irragionevolmente discriminatorio tra situazioni del tutto omogenee, per lo meno sotto i profili rilevanti ai fini della tutela da assegnare loro.
Le due fattispecie qui in confronto (4° e 7° comma art. 18) riguardano in entrambi i casi fattispecie estintive per volontà datoriale.
Si tratta di due regimi sanzionatori entrambi relativi all’ipotesi di accertamento in giudizio dell’inesistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento (e, dunque, il massimo vizio, nullità in disparte).
Dunque, due fattispecie di licenziamento in ordine alle quali (viene accertato da parte del giudice che ne) manca il fondamento, la ragione giustificativa, in modo pieno e netto, secondo le ordinarie regole civilistiche (e lavoristiche) in materia di onere della prova (che grava sulla parte che sostiene l’esistenza di un fatto) e di metro di valutazione della stessa (preponderanza probatoria, ossia c.d. «più probabile che non»).
Tuttavia, mentre nella giusta causa ciò è sufficiente (secondo il 4° comma dell’art. 18) per la declaratoria di annullamento e la reintegrazione, nel giustificato motivo oggettivo economico (grazie al 7° comma dell’art. 18) non è così.
Occorre, come indicato dalla S.C., procedere ad un ulteriore scrutinio, al fine di verificare che tale insussistenza sia anche manifesta, per (potere, ora) dovere procedere alla reintegra. E in caso di mancato raggiungimento del convincimento del giudice circa la “manifesta” insussistenza, la soccombenza sulla domanda di reintegra andrà in capo al lavoratore.
Cosi facendo la disposizione introduce (ai fini dell’accoglimento della tutela in forma specifica) un duplice effetto eccentrico rispetto alle regole generali: altera il metro di giudizio e di valutazione delle prove che il giudice deve applicare (in luogo della preponderanza probatoria si richiede una “manifesta” infondatezza) e allo stesso tempo inverte anche l’onere della prova (ponendolo a carico del lavoratore) circa i fatti che devono essere provati per accedere alla reintegra.
Come detto, se il metro di convincimento “aggravato” non viene raggiunto soccombe sul punto (reintegra) il lavoratore, a carico del quale, quindi, è indubbio che l’art. 18, 7° comma addossi un onere della prova sul punto.
Ciò va a distinguere profondamente la disciplina della tutela nei licenziamenti per motivo soggettivo da quella dei licenziamenti per G.M.O. economico.
L’effetto pratico è molto semplice: il legislatore (nell’interpretazione data dal diritto vivente) ha creato una zona in cui, ex post rispetto al fatto, pur essendo quest’ultimo ritenuto dal giudice inesistente, non spetta la tutela reale e, dunque, una zona in cui ad un accertamento positivo e completo – secondo, come detto, il criterio civilistico della preponderanza probatoria – di infondatezza del licenziamento per non essere sussistente il “fatto” fondante lo stesso, non consegue tuttavia la reintegra.
Con onere della prova di questo quid pluris (per giunta su di un fatto negativo nonché certamente non prossimo alla persona del lavoratore) in capo al licenziato (che deve dunque provare “positivamente” che il fatto – già ritenuto dal giudice insussistente – è manifestamente inesistente per ottenere la reintegra).
Non è dato, per quanto lo si cerchi, comprendere il fondamento logico-giuridico di tale diverso trattamento (oltre che, come si dirà subito oltre, del criterio in sé).
Il fondamento non è nella graduazione delle tutele in funzione della “gravità” del vizio (architrave concettuale della riforma prima del 2012, poi del 2015), posto che la violazione qui è sempre la stessa, ossia la processualmente accertata “insussistenza del fatto” e che il vizio è quello massimo, escluse le ipotesi di nullità.
Il fondamento non pare ravvisarsi nell’art. 41, 1° comma Cost., già garantito (nel bilanciamento con i diritti del lavoratore ex articoli 1, 4, 35 e 41, 2° comma Cost.) dall’ordinario assetto in materia di recesso.
Infatti, Il giudice, all’esito del consueto e collaudato giudizio di fatto (deciso con il metro della preponderanza probatoria) e di diritto, non si può certamente pronunciare sul merito delle scelte imprenditoriali (in tema di “clausole generali” in materia di “recesso”, infatti, «il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente»: art. 30, 1° comma, legge n. 183/2010), e questo con verifica in tutti e tre i (a questo riguardo) gradi di giudizio (posto che «L’inosservanza delle disposizioni di cui al precedente periodo, in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro, costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto»: art. 1, comma 43, legge n. 92/2012 che aggiunge un periodo all’art. 30, comma 1, legge n. 183/2010);
Il giudice nemmeno può valutare le ragioni ultime che stanno dietro le scelte organizzative dell’impresa e che conducono alla soppressione di un determinato posto di lavoro (anche qui diritto vivente a partire da Cass. n. 25201/2016: «Ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa; ove, però, il recesso sia motivato dall’esigenza di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli o a spese di carattere straordinario, ed in giudizio se ne accerti, in concreto, l’inesistenza, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità e la pretestuosità della causale addotta»);
Il giudice (ai fini della reintegra) deve lasciare inoltre in disparte ogni valutazione in termini di proporzione o sproporzione del licenziamento rispetto al “fatto” (questo limitatamente ai motivi soggettivi che, come si vedrà subito oltre, non sono gli unici in cui rilevano gli aspetti della soggettività e più in generale della personalità del lavoratore).
L’effetto pratico di tale disposizione è quello di porre concreti ostacoli processuali alla reintegra, sulla base non già di un criterio oggettivo, ma in via casuale, conferendo insondabili e insindacabili poteri discrezionali (qui mascherati da criterio pseudo probatorio) al giudice chiamato a valutare il caso concreto.
Uno di tali ostacoli era rappresentato dalla facoltà discrezionale che aveva il giudice di potere decidere – anche a fronte di un fatto di G.M.O. insussistente ed anzi addirittura a fronte della dimostrazione della manifesta insussistenza dello stesso – di non reintegrare il lavoratore, facoltà che è stata espunta dall’ordinamento da Corte costituzionale n. 59/2021. L’aggettivo “manifesta” si muove sullo stesso piano, ossia rimette ad una valutazione soggettiva totalmente discrezionale (questa volta, come detto, dietro una maschera pseudo probatoria), individuale e irripetibile del singolo giudice di merito una ulteriore barriera, un ulteriore ostacolo alla reintegra, una volta che già il giudice ha accertato che il fatto non sussiste e che, dunque, dovrebbe procedere alla reintegra (come fa con i motivi soggettivi inesistenti).
Pseudo probatorio perché l’aggettivo “manifesta” non dà alcun riferimento concreto e specifico, alcun metro di giudizio, alcuna misura, lasciando una discrezionalità integrale (che è un disvalore, a differenza della discrezionalità che si muove all’interno di confini ragionevolmente delimitati dal legislatore, che è al contrario il valore aggiunto della giurisdizione) scollegata da una regola probatoria predeterminata.
Questo perché – proseguendosi nella metafora impiegata da dottrina e giurisprudenza a tini descrittivi del criterio in esame – ciò che è “torto marcio” per un determinato interprete, magari per un altro è solo un “torto maturo” o addirittura un “torto acerbo” (ma attenzione: sempre di torto si tratta).
Tutto ciò, come detto, a dimostrazione dell’inesistenza del fatto già raggiunta secondo le ordinarie regole probatorie che valgono nel diritto civile e nel lavoro in tutti gli altri casi (insussistenza non manifesta del fatto che qui conduce alla sola tutela indennitaria).
Non può valere in senso contrario osservare che la tutela reintegratoria non è una strada obbligata per il legislatore, che è una scelta rimessa alla discrezionalità (peraltro come detto non illimitata) di quest’ultimo e non già impostagli dalla Carta.
Qui, infatti, la scelta è stata fatta ed è per la reintegra (Corte Cost. n. 59/2021: «… Tali elementi comuni alle fattispecie di licenziamento poste a raffronto dal rimettente, valorizzati dallo stesso legislatore nella previsione di una identica tutela reintegratoria, privano di una ragione giustificatrice plausibile la configurazione di un rimedio meramente facoltativo per i soli licenziamenti economici»).
Non si tratta di rivendicare una tutela in forma specifica in una ipotesi esclusa dal legislatore (p.e. datori sottosoglia, p.e. ipotesi di recessi ancora ad nutum).
Si tratta solo di rimuovere da una ipotesi in cui la reintegra è già stata ritenuta la forma di tutela ordinaria (insussistenza del fatto, tanto nel licenziamento per motivo soggettivo, quanto in quello oggettivo) un requisito ulteriore che appare illegittimo per una pluralità di motivi.
Dunque, alla reintegra si frappone, nel caso di G.M.O., solo un ostacolo discriminatorio rispetto alla giusta causa, con l’introduzione di un meccanismo pseudo probatorio che, peraltro e come si vedrà subito oltre, integra una disciplina irrazionale e intrinsecamente illogica.
Dunque, da questo punto di vista, si ha una ingiustificata, irrazionale ed illegittima differenziazione tra l’ipotesi dei fatti soggettivi e quella del G.M.O. economico.
Nemmeno basta ad evitare il confronto (e dunque ad escludere che all’omogeneità delle fattispecie debba conseguire omogeneità delle tutele) tra motivo soggettivo e motivo economico sostenere che si tratta di due motivi di recesso strutturalmente diversi.
Questo è sicuramente vero – oltre che nella astratta lettera della legge – di fronte a due motivi di recesso positivamente accertati come sussistenti all’esito di un completo procedimento giurisdizionale: in tale caso correttamente gli stessi producono gli effetti giuridici che l’ordinamento riconnette loro (p.e. la giusta causa esclude l’obbligo di preavviso).
Ma a fronte dell’inesistenza accertata ad opera del giudice, distinguere ancora tra motivo soggettivo ed oggettivo, soprattutto al fine di differenziarne le tutele (e in specie la reintegra), risulta ingiustificato e discriminatorio.
Sarebbe come volere sostenere che, nonostante un accertamento giudiziale dell’inesistenza di una ipotesi di giusta causa – sussistendo al contrario un giustificato motivo soggettivo – comunque non spetti l’indennità di mancato preavviso, solo perché la qualificazione datoriale di irrogazione era quella della giusta causa.
Ciò equivarrebbe a individuare un’area di intangibilità, ad opera della cognizione e decisione del giudice, della qualifica giuridica di un atto negoziale privato, che pure si accerti essere in contrasto con il dato reale.
Se i “fatti” – siano essi giuste cause o G.M.O. – non sussistono, la tutela deve essere la stessa, attribuendosi altrimenti al datore di lavoro la insindacabile facoltà, nel momento in cui decide su quali fatti basare l’atto espulsivo, ma soprattutto su come qualificare gli stessi, di condizionare, anche ex post, la tutela spettante al lavoratore.
Tra l’altro, molto spesso, nella pratica i fatti soggettivi ed oggettivi sono tutt’altro che così nettamente separati.
Ad anzi gli aspetti soggettivi rilevano anche nell’ambito dei “fatti” di G.M.O., cosi come gli aspetti organizzativi rilevano anche in tema di giusta causa.
A tale ultimo riguardo si consideri, infatti, come anche i profili soggettivi del licenziamento riguardano la funzionalità dell’organizzazione, in relazione alle conseguenze dell’inadempimento del lavoratore sul suo regolare andamento: il datore di lavoro può bene decidere di perdonare fatti che potrebbero integrare una giusta causa di licenziamento avendo riguardo sia a prognosi di futuro adempimento da parte del lavoratore, sia a prevalenti e contingenti necessità organizzative (p.e. insostituibilità di un lavoratore in un determinato momento in una determinata organizzazione).
Circa il rilievo di elementi soggettivi (che afferiscono alla persona del lavoratore, alla sua professionalità, alla sua umanità complessiva) nella vicenda estintiva per ragioni organizzative, una chiara percezione di ciò la si può avere nelle ipotesi di violazione delle regole della buona fede nella scelta dei lavoratori da licenziare in ipotesi di posizioni fungibili (che infatti è l’ipotesi che ha dato luogo a Cass. n. 14021/2016), nelle quali emergono congeniti elementi di preferenza soggettiva del datare di lavoro per certi lavoratori e, di contro, elementi di sfavore soggettivo verso altri.
Qui, come si vedrà nel paragrafo seguente, la S.C. ha ripetutamente (diritto vivente) escluso che la sola violazione dei criteri di scelta importi manifesta insussistenza del fatto, andando a regolare diversamente motivi soggettivi e motivi oggettivi proprio laddove gli stessi si avvicinano più che mai, fondandosi in entrambi i casi il licenziamento illegittimo su di una omogenea se non identica valutazione datoriale circa la persona del licenziato.
Per una ulteriore dimostrazione di tale spesso inestricabile connessione (ovviamente in presenza di licenziamenti patologici, che sono quelli che qui interessano), si consideri quanto esposto dalla stessa difesa di parte datrice nel caso di specie: «Il fatto che si fratti di g.m.o. per “motivi economici” ha pesanti ripercussioni anche sul tentativo di repechage atteso che, evidentemente, il semplice spostamento o la lievissima riduzione di un costo, contrasterebbero comunque con la finalità stessa della risoluzione e con il conseguimento del risultato atteso. Ciò non di meno il problema è stato affrontato ma si è subito arenato di fronte alla irreversibile caducazione dell’elemento fiduciario determinata dal progressivo emergere di comportamenti per i quali il ricorrente è stato sottoposto a ben due procedimenti disciplinari.
A ben vedere, si tratta di vicenda in cui gli elementi oggettivo e soggettivo presentano un singolare intreccio, così che concorrono alla valutazione finale anche elementi quali il contegno tenuto nel corso del procedimento e tutto ciò che possa comportare una definitiva caducazione dell’elemento fiduciario, con prognosi di irrecuperabilità del rapporto.
In sostanza, non potrà certo chiedersi a chiunque di “continuare a fidarsi” di chi si è dimostrato gravemente deficitario» (ricorso in opposizione, pagina 12).
In conclusione, si ritiene discriminatoria, oltre che irragionevole e illogica, una disciplina che conferisce valore discriminante in punto alla tutela ad una qualificazione formale di un fatto data da una delle parti in causa, allorquando il giudice abbia comunque accertato l’infondatezza del fatto in questione.
2° Vizio: Contrasto con art. 3, 1° comma Cost. per ingiustificata disparità di trattamento tra l’ipotesi del licenziamento individuale e quella del licenziamento collettivo, in relazione alla violazione dei criteri di scelta.
Tertium comparationis:
art. 1, comma 46, legge n. 92/2012.
A parità di licenziamento, a parità di insussistenza del fatto, a parità di violazione – il mancato rispetto dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare – la disciplina positiva in tema di licenziamenti individuali per motivo economico (ed in particolare l’art. 18, 7° comma Statuto dei lavoratori mediante l’aggettivo “manifesta”) discrimina la tutela, distinguendola da quella in materia di licenziamenti collettivi.
Per questi ultimi, infatti, anche il legislatore del 2012 ha confermato la massima sanzione, la stabilità reale, allorquando ha riscritto il 3° comma dell’art. 5 della legge n. 223/1991 prevedendo al riguardo che «In caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1 si applica il regime di cui al quarto comma del medesimo art. 18» (art. 1, comma 46, legge n. 92/2012).
L’art. 5, comma 1 prevede che «L’individuazione dei lavoratori da licenziare deve avvenire in relazione alle esigenze tecnico-produttive, ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all’art. 4, comma 2, ovvero in mancanza di questi contratti nel rispetto dei seguenti criteri in concorso tra loro: a) carichi di famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico produttive ed organizzative».
Come è noto, nell’ambito dei licenziamenti individuali non vi sono regole tipizzate da parte del legislatore in materia di criteri di scelta dei lavoratori da licenziare.
La S.C. è tuttavia ferma nel ritenere che possano di regola essere utilizzati i criteri di cui alla legge n. 223/1991, sulla base di una interpretazione in buona fede del contratto («In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, se il motivo consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare per il datore di lavoro non è totalmente libera ma comunque limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza ex articoli 1175 e 1375 del codice civile, potendo farsi riferimento, a tal fine, ai criteri di cui all’art. 5 della legge n. 223 del 1991, quali standard particolarmente idonei a consentire al datore di lavoro di esercitare il suo potere selettivo coerentemente con gli interessi del lavoratore e con quello aziendale» (per tutte Cass. n. 16856/2020).
E’ evidente, dunque, che in tema di licenziamenti individuali non si tratta di una interpretazione diretta e ineludibile di tali criteri, che però nella maggior parte delle ipotesi pratiche (ricavabili dalla giurisprudenza edita, anche di Cassazione) sono effettivamente quelli che trovano specifica applicazione.
In tema di licenziamento individuale, al contrario, l’aggettivo “manifestamente” ha condotto al risultato interpretativo ormai consolidato nel diritto vivente, di escludere la tutela in forma specifica per la violazione dei criteri di scelta.
Non solo la capostipite Cass. n. 14021/2016, ma anche le pronunce successive (Cass. n. 19732/2018; Cass. n. 1508/2021).
Ciò rende, a parere dello scrivente, evidente una disparità di trattamento tra il licenziamento individuale ed il licenziamento collettivo.
Ciò non solo quando in concreto il giudice applica nel licenziamento individuale i criteri di cui all’art. 5 legge n. 223/1991.
Ma anche quando dovesse applicare altri criteri.
Nel primo caso la ingiustizia della distinzione sarebbe solo più eclatante, avendo ad oggetto due fattispecie in cui ricorrono sempre una ipotesi estintiva per volontà datoriale del rapporto di lavoro, con identico vizio e identica tipologia di violazione (anche sotto il profilo degli stessi criteri di scelta violati).
Ma anche nel secondo caso la differenza ingiustificata di trattamento non può sfuggire, posto che viene in applicazione ad una comune ipotesi di estinzione del rapporto di lavoro per volontà datoriale, uno stesso vizio (insussistenza del G.M.O.), oltre che la stessa tipologia astratta di violazione (criteri di scelta), cambiando solo la disciplina dei singoli criteri utilizzati per la scelta.
Tale distinzione di trattamento si ritiene priva di giustificazione, essendo le due ipotesi sul punto molto più che omogenee.
Questo, peraltro, a conferma dell’insuperabilità del diritto vivente, posto che nel precedente del 2016 la disparità di trattamento in questione veniva espressamente analizzata (e superata) dalla S.C., la quale riteneva che non fosse «…percorribile la strada di una interpretazione estensiva della disposizione contenuta nell’art. 5, comma 3, della legge n. 223 del 1991, così come sostituito dall’art. 1, cc. 46, della legge n. 92 del 2012, che prevede la tutela reintegratoria attenuata in caso di violazione dei criteri di scelta nelle procedure di licenziamento collettivo. Come innanzi chiarito, infatti, il riferimento della giurisprudenza ai criteri legali di selezione previsti dall’art. 5 della legge n. 223 del 1991 serve solo ad offrire uno standard idoneo a rispettare l’art. 1175 del codice civile nel caso di recesso per giustificato motivo oggettivo di personale in condizione di fungibilità di mansioni, ma non rappresenta direttamente la fonte di disciplina del licenziamento individuale plurimo, per cui ad esso non è applicabile l’apparato sanzionatorio stabilito per i licenziamenti collettivi».
3° Vizio: Illogicità e indeterminatezza del criterio probatorio della «manifesta insussistenza».
La nozione di «manifesta insussistenza» del fatto appare mutuata dalla disciplina positiva del procedimento davanti alla Corte costituzionale ed in particolare dalle regole in tema di questioni di legittimità costituzionale in via incidentale, laddove si prevede che «L’autorità giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale o non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi della istanza con cui fu sollevata la questione, dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso» (art. 23, legge n. 87/1953).
A livello processuale civile, poi, vi sono varie norme che utilizzano tale nozione:
art. 360-bis del codice di procedura civile: «Il ricorso è inammissibile: … 2) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo»;
art. 367 del codice di procedura civile: («sospensione del processo di merito»): «Una copia del ricorso per cassazione proposto a norma dell’art. 41, primo comma, è depositata, dopo la notificazione alle altre parti, nella cancelleria del giudice davanti a cui pende la causa, il quale sospende il processo se non ritiene l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata….»;
art. 375 del codice di procedura civile: «La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia con ordinanza in camera di consiglio quando riconosce di dovere: … 5) accogliere o rigettare il ricorso principale e l’eventuale ricorso incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza»;
art. 398 del codice di procedura civile: (in materia di revocazione): «La proposizione della revocazione non sospende il termine per proporre il ricorso per cassazione o il procedimento relativo. Tuttavia il giudice davanti a cui è proposta la revocazione, su istanza di parte, può sospendere l’uno o l’altro fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronunciato sulla revocazione, qualora ritenga non manifestamente infondata la revocazione proposta».
Circa la previsione relativa alle questioni di legittimità costituzionale, va subito rimarcata la profonda differenza rispetto all’impiego che del criterio della “manifesta” infondatezza viene fatto nell’art. 18.
In relazione all’art. 23, legge n. 87/1953 l’impiego dell’aggettivo manifesta, infatti, (1) è relativo all’interpretazione del diritto e non al giudizio di fatto (per il quale l’aspetto dirimente è racchiuso nella rilevanza della questione nel giudizio a quo), (2) è una regola processuale (3) è l’unico metro di giudizio presente nel meccanismo e (4) discende inevitabilmente dalla strutturazione del giudizio di costituzionalità come accentrato (manifestamente infondata, dunque, e non semplicemente infondata, per non sostituire il singolo giudice in una valutazione – che è quella sull’infondatezza – che spetta solo alla Consulta).
Il punto 3 merita un paio di righe in più, in quanto la valutazione di “manifesta” infondatezza della questione, nella valutazione del rimettente, è l’unica che tale giudice è chiamato a compiere (e, dunque, non vi è una soglia inferiore di semplice infondatezza i cui confini vanno ricostruiti).
La valutazione della fondatezza o dell’infondatezza è invece integralmente compiuta dalla Corte, ossia da un altro organo giurisdizionale.
Per la Corte, poi, la decisione tra infondatezza “semplice” o “manifesta” ha rilievo solo procedurale (trattazione in camera di consiglio o in pubblica udienza: art. 26, legge n. 87/1953) e non incide sulla sostanza (merito) della decisione.
Del tutto diverso l’utilizzo nell’art. 18, in cui il criterio di giudizio è (1) riferito al giudizio di fatto, (2) opera in ambito sostanziale, (3) coesiste nella valutazione dello stesso giudice con l’altro metro di giudizio dell’infondatezza “semplice” o ordinaria e (4) non ha una specifica ratio logica o un fondamento filosofico che ne supportino l’esistenza (posto che già l’infondatezza processualmente accertata esprime già tutto il massimo disvalore della fattispecie rimediale, per la quale ad un determinato vizio – insussistenza del fatto – viene ricondotta una determinata tutela – la reintegra).
Si tratta, dunque, nella norma lavoristica, di una estrapolazione della sola veste nominale di tale criterio, con effetti giuridici tuttavia completamente diversi da quelli della normativa di provenienza, senza considerare le criticità che l’innesto di tale meccanismo vanno ad introdurre sulla una disciplina sostanziale e processuale preesistente, sui principi della logica e sull’ordinamento giuridico (anche dal punto di vista costituzionale) nel suo complesso.
Ancora, a livello processuale ed in particolare nel giudizio davanti alla Corte di cassazione, tale criterio è impiegato quale discrimine nella scelta tra l’utilizzo della trattazione ordinaria e l’utilizzo della procedura semplificata (camera di consiglio).
Il criterio, inoltre, è impiegato da parte del giudice in alcune scelte che la normativa di rito gli rimette circa la sospensione di processi di termini processuali.
E’ evidente, dunque, che si tratta di aspetti meramente processuali e mai sostanziali. Ed anzi, di meccanismi che non vanno mai a pregiudicare il merito di una decisione.
Va inoltre osservato come alcun utilizzo di tale criterio è presente nella parte del codice di rito (ma anche nella parte del codice civile) deputata ai mezzi di prova.
Dal 2012 nella disciplina sostanziale del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, fa irruzione il criterio della «manifesta insussistenza» del fatto, criterio che addossa al lavoratore un onere che lo stesso mai ha avuto prima e che è in grado di influire sulla tutela a quest’ultimo spettante, pur a fronte di un “fatto” di G.M.O. che si è già dimostrato insussistente.
Si ritiene che l’utilizzo in ambito sostanziale di una tale terminologia – prelevata appunto dai meandri processuali nella quale la stessa era a ragione utilizzata per regolare snodi meramente procedurali – introduca (oltre che quella ingiustificata e duplice discriminazione sopra evidenziata) una rarissima (se non unica) eccentricità nella normativa sostanziale, eccentricità che si caratterizza per essere illogica e irragionevole.
Nell’ambito sostanziale, infatti, a tale criterio il legislatore del 2012 ha attribuito una funzione discretiva della tutela applicabile in concreto al lavoratore.
Una rilevanza, dunque, di merito, di disciplina, di diritti e tutele e non un rilievo meramente processuale.
Una rilevanza, inoltre, definitiva.
Il criterio delineato dal legislatore e precisato dalla S.C. che ne ha dato la versione del “diritto vivente” risulta – a sommesso parere di chi scrive – intrinsecamente illogico.
Come detto il criterio in questione, in ambito sostanziale, rappresenta una eccentricità assoluta in materia di negozi o rapporti contrattuali.
Ossia, quando il legislatore vuole stabilire una disciplina e prevedere una tutela, soprattutto rimediale a fronte di inadempimenti o vizi contrattuali, non ancora ad una valutazione di “manifesta” violazione o di “manifesto” vizio la scelta circa gli effetti giuridici da applicare alla vicenda sostanziale, distinguendoli per giunta dagli effetti rimediali applicabili in presenza di un vizio o di un comportamento comunque sussistente ma non manifesto.
Può essere utile al riguardo pensare di applicare tale tecnica legislativa ad un qualunque altro ambito giuridico civile: si pensi ad un giudizio in materia testamentaria, nel quale vi sia un testamento olografo contestato che, se ritenuto dal giudice apocrifo condurrebbe ad una qualche tutela risarcitoria, ma se ritenuto “molto” apocrifo condurrebbe alla tutela “reale”; si pensi ad un inadempimento contrattuale, pure basato su una analoga regola: se inadempimento “semplice” spetta solo un risarcimento, se inadempimento “marcio” azione di esatto adempimento e cosi via; si pensi ad un qualunque ambito rimediale in materia contrattuale, con azioni di nullità, annullamento, rescissione, non fondate su fatti semplicemente da accertare, ma con graduazioni di tutele a seconda di accertamenti semplici e di accertamenti “manifesti”.
I risultati bizzarri e imponderabili che ne deriverebbero sono facili per tutti da immaginare. Ed il perché le discipline sostanziali (salvo l’anomalia del 2012) non utilizzino tale meccanismo è facile da intuire.
Si tratta di un criterio totalmente impalpabile e conseguentemente non è possibile rimettere le sorti di una vicenda giuridica (e delle parti che vi stanno dietro) alle incertezze applicative dei singoli giudizi in cui lo stesso dovrebbe essere applicato (la stessa Corte Cost. n. 59/2021 ha al riguardo evidenziato come per tale «evidenza conclamata del vizio … non sempre è agevole distinguere rispetto a una insussistenza non altrimenti qualificata…»).
Neppure risponde ad una qualunque logica (anche filosofica) possibile ricondurre in ambito civilistico diverse sorti decisorie a seconda che la fondatezza di una domanda (che passa ovviamente per i fatti su cui la stessa si fonda) sia “normale” o “manifesta”.
Anche nel diritto del lavoro sostanziale di fonte normativa non è dato rinvenire a livello positivo un altro utilizzo di tale criterio.
Il criterio in questione, come prima accennato, viene applicato dalla giurisprudenza ormai consolidata e insuperabile della S.C. secondo due direttrici.
La prima è quella di richiedere un “facile” accertamento dell’inesistenza del fatto per accedere alla reintegra.
La seconda è quella che si può definire dello “spacchettamento” del “fatto” di giustificato motivo oggettivo, di guisa tale da escludere elementi di esso dal nucleo essenziale dello stesso la cui mancanza sola è suscettibile di determinare la “manifesta” insussistenza del fatto.
Circa il primo aspetto, anche nelle definizioni date dalla S.C. di tale criterio emerge una problematicità definitoria.
Esse, da un lato, risultano tautologiche (nel tentativo di spiegare con sinonimi il concetto di insussistenza manifesta), mentre dall’altro è evidente che dalle stesse non si possa ricavare alcun preciso e concreto metro di giudizio idoneo a quantificare in cosa di preciso (ossia in quale percentuale esatto di convincimento) si realizzi tale “manifesta” insussistenza.
Si tenga presente al riguardo che il limite inferiore di applicazione di quest’ultimo criterio è rappresentato dalla regola generale della preponderanza probatoria, che caratterizza l’insussistenza “semplice”.
La stessa si realizza andando oltre il 50% dell’equivalenza probatoria tra esistenza e inesistenza del fatto stesso.
Dove, invece, si debba collocare l’insussistenza “manifesta” (oltre come detto l’insussistenza semplice) non è possibile comprenderlo.
Può prendersi in esame Cass. n. 7167/2019, secondo la quale “manifesta” significa “contraddistinta da tratti che ne segnalano, in modo palese, la peculiare difformità rispetto alla mera assenza dei presupposti del licenziamento”.
Si tratta della motivazione del provvedimento e non è dato capire come tale formula (qui la “peculiare difformità”) possa andare applicata senza incorrere in arbitrii di solta.
Se si trattasse di una fattispecie incriminatrice si direbbe che difetta di tassatività.
Ma anche al di fuori del diritto penale, ragioni di certezza giuridica e di uniformità di trattamento sostanziale di casi analoghi se non identici, spingono a considerare illogica una disciplina che pone nelle mani dell’interprete (e senza alcun criterio applicativo logico) la scelta totalmente discrezionale (seppure celata dietro un criterio pseudo probatorio) delle tutele spettanti ad una parte contrattuale di fronte all’inadempimento della controparte.
Si veda al riguardo – per evidenziare l’incertezza ma anche la totale discrezionalità che comporta l’applicazione del criterio coniato nel 2012 – la fattispecie decisa da Cass. n. 181/2019.
In quel caso – come si evince dalla descrizione fattane dalla S.C. – «I licenziamenti, secondo la Corte distrettuale, erano piuttosto illegittimi, in difetto di prova della sussistenza della ragione posta a base degli stessi (id est: l’impossibilità di reperire alcuna missione lavorativa compatibile con il livello professionale); in proposito, i giudici di merito osservavano come la società avesse proceduto ad assunzioni a termine per ricoprire posizioni lavorative, astrattamente compatibili con quelle dei lavoratori espulsi, delle quali non aveva offerto valida giustificazione; per effetto di tale accertamento, conseguiva l’applicazione della disciplina di cui al comma 5 dell’art. 18 cit., dovendosi escludere la «manifesta infondatezza» del fatto posto a base del licenziamento, in assenza di una prova positiva di insussistenza del giustificato motivo oggettivo».
Il ragionamento della S.C. a conferma della correttezza dell’operato della Corte distrettuale è che «I giudici di merito hanno ritenuto non raggiunta la prova della sussistenza della ragione organizzativa posta a base del licenziamento e dunque del presupposto che, unitamente all’obbligo del repechage, integra il giustificato motivo oggettivo (impossibilità di inviare in missione i lavoratori); la Corte territoriale ha osservato che, dalle risultanze istruttorie, era emersa, nell’arco temporale rilevante ai fini di causa, la stipulazione di plurimi contratti a termine per posizioni lavorative, astrattamente compatibili con quelle dei lavoratori espulsi, di cui il datare di lavoro non aveva offerto valida giustificazione; al contempo, ha considerato, anche, «la mancanza di (un) interesse della parte datoriale a mantenere in disponibilità i lavoratori (per un lungo) periodo invece che collocarli presso gli utilizzatori», pervenendo ad un giudizio conclusivo di insufficienza probatoria».
Dunque, pur in presenza – scrive la S.C. – del mancato raggiungimento della prova della ragione organizzativa posta a base del licenziamento (elemento che già potrebbe importare per qualcuno manifesta insussistenza), nonostante nell’arco temporale rilevante ai fini di causa l’azienda avesse assunto (in modo plurimo) altri lavoratori a termine per posizioni lavorative astrattamente compatibili con quelle dei lavoratori espulsi (elemento che potrebbe rafforzare in qualcuno l’idea che l’insussistenza è manifesta), viene ritenuto (peraltro sulla base di un elemento nemmeno perfettamente chiaro nella descrizione fattispecie concreta, seppure assolutamente decisivo) che manchi l’evidenza piena, la peculiare difformità, la facile verificabilità, il pretesto, considerato elemento indispensabile per accedere alla reintegra.
Orbene, si ritiene che tale decisum rappresenti un esempio lampante dell’assoluta controvertibilità del criterio in questione e della sostanziale discrezionalità assoluta che incontra il giudice nella scelta o meno di concedere la stabilità reale.
Si veda ancora Cass. n. 2930/2019 (e successive conformi), che parla(no) di una «evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento» e di «chiara pretestuosità del recesso» (così sempre Cass. 10435/2018)».
Al riguardo, non è chiaro perché – nell’ambito di decisioni di merito definitive e non di provvedimenti cautelari – la valutazione della prova dovrebbe fare riferimento a facili verifiche.
Anzi di norma nei giudizi accade esattamente il contrario, posto che è proprio attraverso difficili e complesse verifiche, sia documentali, sia testimoniali – con molti testimoni e quasi sempre con deposizioni in contrasto l’una con l’altra – spesso con ordini di produzioni documentali (quasi sempre il libro unico del lavoro) e talvolta anche con l’ausilio di consulenze tecniche, che ordinariamente è possibile giungere ad un risultato persuasivo da parte del giudice.
Probabilmente, la sola sussistenza di elementi o mezzi di prova di segno contrastante tra loro (p.e. testimonianze in contrasto tra loro) potrebbe (il condizionale è d’obbligo essendo il criterio indeterminato) essere ritenuto indice della mancanza della manifesta insussistenza. E che dire dell’uso delle presunzioni semplici: anche le stesse potrebbero (idem come sopra) essere ritenute incompatibili con il metro della facile verificabilità.
E che dire di accertamenti ontologicamente complessi e, dunque, fisiologicamente forieri di difficili verifiche: si pensi all’allegazione da parte del lavoratore di fatti relativi ad una fattispecie di codatorialità ad opera di una pluralità di imprese che si assumo facenti parte di un unitario centro di imputazione (si tratta di accertamenti estremamente difficoltosi e complessi, che richiedono quasi sempre l’escussione di numerosi testimoni e un rilevante vaglio documentale, nonché l’utilizzo di regole presuntive).
Una tale tipologia di accertamento (funzionale tra l’altro alla richiesta di un più ampio repechage all’interno del complessivo organico codatoriale) potrebbe risultare addirittura ab origine non connotata dalla “facile” verifica della “peculiare difformità” rispetto al modello legale di G.M.O.
Proprio per gestire la complessità del giudizio di fatto e per avvicinare il decisum il più possibile alla verità, è prevista la regola del libero convincimento del giudice.
Proposito che, peraltro, nel rito del lavoro è ancora più pregnante, posti i poteri istruttori assegnati al giudice dall’art. 421 del codice di procedura civile ed in particolare «l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile…» (tra cui anche «la comparizione, per interrogarle liberamente sui fatti della causa, anche di quelle persone che siano incapaci di testimoniare a norma dell’art. 246 o a cui sia vietato a norma dell’art. 247») e ciò per superare (art. 3, 2° comma Cost.) la naturale asimmetria di posizioni di partenza tra le due parti del conflitto lavorativo (le direttrici ispiratrici della riforma del 1973 del rito del lavoro sono principalmente state la velocizzazione del giudizio ed il tentativo di ridurre al minimo lo scarto tra verità processuale e verità materiale, entrambe costituzionalmente ispirate dalla regola della ricerca dell’uguaglianza sostanziale).
Ebbene, negli accertamenti di fatto in tema di G.M.O. che normalmente occupano i ruoli dei giudici del lavoro, molto spesso, solo all’esito di una ampia istruttoria, spesso molto complessa e sicuramente non “facile” (nemmeno dal punto di vista della valutazione delle prove e, dunque, dell’accertamento), quasi sempre caratterizzata da elementi probatori in contrasto tra loro e con l’uso di presunzioni semplici, è possibile comprendere se un determinato “fatto” di G.M.O. economico sussiste o non sussiste.
Tuttavia, ciò potrebbe (anche qui il condizionale è d’obbligo) non rispettare il criterio della “facilità” e, dunque, pur a fronte della prova dell’insussistenza fatto, non spetterebbe la massima sanzione.
Ma perché una situazione di accertamento “non facile”, a livello di tutela per il lavoratore, dovrebbe essere trattata diversamente da quella di un accertamento “facile”, ossia con la minore garanzia rappresentata dal risarcimento del danno, in luogo della reintegra ?
La “pretestuosità”, poi, sembra introdurre un giudizio finalistico proprio di altri scenari e discipline (v. p.e. il licenziamento discriminatorio ed il licenziamento ritorsivo, che sono comunque già regolati specificamente dalla normativa in tema, alla quale, peraltro, sempre il 7° comma dell’art. 18 opera un – parziale – riferimento: «Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo») ed appare un concetto inconferente (oltre che inserito preaeter legem) laddove si debba semplicemente accertare che un determinato fatto sussista o meno.
Circa il secondo aspetto (prima definito “spacchettamento), va richiamato quando sopra evidenziato nella parte di trattazione del vizio discriminatorio tra licenziamenti collettivi e individuali.
Come detto Cass. n. 14021/2016 (nonché le successive conformi) ritiene che in caso di violazione dei criteri di scelta il fatto non possa essere manifestamente insussistente.
Questa conclusione sarebbe appagante per le scienze dell’organizzazione aziendale, posto che lì l’interesse esclusivo sarebbe quello di verificare le scelte organizzative e, dunque, considerare esclusivamente la prospettiva dell’impresa, prospettiva nella quale non vi è troppo interesse per le sorti di chi perde il posto all’esito dei processi organizzativi e riorganizzativi.
Dal punto di vista del singolo licenziamento e del lavoratore che ne è attinto (e, dunque, del diritto del lavoro), tuttavia, non è esattamente la stessa cosa perdere o conservare il posto perché sono stati violati o rispettati i criteri di scelta.
Anzi, questa è una fase assolutamente delicata e primaria nella procedura di licenziamento, fase nella quale spesso può annidarsi una scelta in mala fede da parte del datare di lavoro.
Proprio qui poi, come detto, si concentrano gli aspetti più soggettivi – innegabili – della vicenda risolutiva oggettiva.
Elementi che avvicinano anche a livello astratto il motivo soggettivo a quello oggettivo.
Ma proprio nella fase di maggior contiguità circa gli aspetti soggettivi delle vicende estintive che vanno sotto il nome di motivi soggettivi e motivi oggettivi, legislatore e diritto vivente impongono una disciplina nettamente diversa.
E, come già evidenziato, ciò rappresenta – oltre che un ingiustificato trattamento diversificato – un elemento di illogicità e irrazionalità del criterio in questione.
Che dire poi del difetto di causalità nel G.M.O.: forse anche tale elemento potrebbe (secondo una interpretazione non vietata evidentemente dalla norma, ancorché ad oggi non ancora adottata, anche se la fattispecie decisa da Cass. n. 181/2019 pare andarci molto vicina) essere letto in modi alquanti differenti: per alcuni potrebbe rendere il fatto di G.M.O. non manifestamente insussistente (il fatto organizzativo, in fondo, rimane), per altri il fatto potrebbe essere manifestamente insussistente.
Si consideri, ancora, il decisum di Cass. n. 6083/2021: «la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”, di cui all’art. 18, comma 7, st. lav. come modificato dall’art. 1, comma 42, della legge n. 92 del 2012, è da intendersi come chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso, cui non può essere equiparata una prova meramente insufficiente, ovvero, è il caso si precisarlo, l’ipotesi in cui tale requisito possa semplicemente evincersi da altri elementi di per sé opinabili o non univoci, come nel caso di specie il ricorso ad ore di straordinario, normalmente legato ad esigenze contingenti (e dalla Corte di merito accertate, peraltro, come riferibili al monte ore di due soli lavoratori), cfr. Cass. n. 16702/18, Cass. n. 181/19»).
Tale motivazione, pur sostenendo di fare applicazione del 7° comma dell’art. 18, pare applicare correttamente le ordinarie e consolidate regole in tema di presunzioni semplici che, già secondo la lettera dell’art. 2729 del codice civile, escludono che il giudice possa ammettere presunzioni se non “gravi, precise e concordanti” («…laddove: la “precisione” va riferita al fatto noto (indizio) che costituisce il punto di partenza dell’inferenza e postula che esso non sia vago, ma ben determinato nella sua realtà storica; la “gravità” va ricollegata al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto che, sulla base della regola d’esperienza adottata, è possibile desumere da quello noto; la “concordanza” richiede che il fatto ignoto sia, di regola, desunto da una pluralità di indizi gravi e precisi, univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza, dovendosi tuttavia precisare, al riguardo, che tale ultimo requisito è prescritto esclusivamente nell’ipotesi di un eventuale, ma non necessario, concorso di più elementi presuntivi»: Cass. n. 2482/2019).
Ovviamente, l’escludere la rilevanza presuntiva di elementi “opinabili o non univoci” non fa altro che applicare correttamente l’art. 2729 del codice civile (l’opinabilità va contro la precisione e la non univocità va contro la gravità).
In questo caso, quindi, la “manifesta infondatezza” può essere letta come “semplice infondatezza” (ciò che, peraltro, consegnerebbe una interpretatio abrogans della norma, esclusa comunque dal diritto vivente), a conferma dell’incertezza applicativa del criterio in questione (incertezza che incide anche e proprio sulla soglia delimitativa verso il basso, rappresentata dalla “semplice insussistenza”).
Ciò tuttavia dipende dal dato normativo, che non permette di avere un criterio serio ed omogeneo, uguale per tutti, spingendo la giurisprudenza di legittimità a farsi in parte qua legislatore (per tentare di colmare le lacune normative) e rendendo poi il giudice di merito eccessivo arbitro del fatto (“cattiva” discrezionalità, in quanto priva di criteri e riferimenti applicativi e, dunque, contro l’art. 3, 1° comma Cost.).
In definitiva, il criterio della manifesta insussistenza del fatto è indeterminato, non permette di essere distinto verso il confine interiore rispetto alla insussistenza “semplice”, non permette una omogeneità di applicazione tra casi analoghi, non si comprende cosa significhi esattamente ed anzi, inteso secondo il diritto vivente, appare illogico e non in linea con la logica probatoria propria sia del processo civile che di quello del lavoro.
Si tratta – a modestissimo avviso di chi scrive – seppure declinata sotto l’aspetto processuale e dell’onere della prova, di una analoga valutazione rispetto a quella già compiuta dalla Consulta quando ha abrogato il “può” reintegrare del 7° comma dell’art. 18, sotto il profilo della indeterminatezza («Nella fattispecie sottoposta all’odierno scrutinio, la diversa tutela applicabile – che ha implicazioni notevoli – discende invece da un criterio giurisprudenziale che, per un verso, è indeterminato e improprio e, per altro verso, privo di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento»: Corte Cost. n. 59/2021).
Il disvalore del licenziamento, perfettamente scandagliato attraverso le regole che valgono per tutti gli altri processi civili e del lavoro, non può certamente dirsi correlato con (o corroborato da) una valutazione “palese” o “facilmente” verificabile di infondatezza (per insussistenza manifesta del fatto).
Altrimenti vorrebbe dire che tutti gli altri giudici civili, ma anche del lavoro (quando non decidono impugnative di licenziamenti per motivi economici) applicano (anche in fattispecie che vedono coinvolti interessi rilevanti, sia economici, che personali) regole e criteri probatori insufficienti in quanto non permettono di decidere adeguatamente circa le situazioni fattuali loro sottoposte.
4° Vizio: Irrazionalità della disciplina: l’inversione dell’onere della prova.
Secondo la regola generale di cui all’art. 2697 del codice civile «Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento».
Tale regola, nell’ambito della disciplina dei licenziamenti, è stata specificata (per lo più la si ritiene una disciplina confermativa del disposto generale dell’art. 2697 del codice civile) nell’art. 5, legge n. 604/1966 secondo il quale «L’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro» (art. 5, legge n. 604/1966).
Tale disciplina in tema di onere della prova è giunta, nell’odierno assetto giurisprudenziale, a porre a carico del datore di lavoro tutti gli oneri probatori in tema di esistenza del fatto di licenziamento, sia con riguardo all’esistenza o meno della ragione giustificatrice, sia con riferimento alla tipologia di tutela applicabile.
Infatti, spetta al datore di lavoro, tra l’altro, l’onere della prova:
della giusta causa e del giustificato motivo;
nel giustificato motivo oggettivo di tutti gli elementi della fattispecie:
modifica organizzativa e ragioni della stessa;
nesso di causalità con la soppressione del posto i licenziamento;
buona fede nella scelta del lavoratore da espellere (criteri di scelta);
corretto tentativo di ripescaggio;
numero dei dipendenti dell’impresa.
Tale portato discende dall’applicazione della regola generale dell’art. 2697 del codice civile e della specificazione di cui all’art. 5 (anche specificate dal criterio della vicinanza della prova). Infatti, il datore di lavoro che decide di esercitare il potere di porre fine ad un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, deve dimostrare il fondamento del corretto esercizio di tale potere, al fine di resistere all’impugnativa del lavoratore o, il che è lo stesso, quale fatto impeditivo della domanda di tutela avverso il licenziamento proposta da quest’ultimo.
Ciò che sarebbe lo stesso laddove il datore di lavoro proponesse domanda di accertamento positivo della legittimità del licenziamento, non potendo evidentemente l’allocazione dell’onere della prova in relazione alla vicenda sostanziale variare con il variare di chi propone la domanda.
Si tratta, dunque ed evidentemente, di fatti costitutivi per il datare di lavoro.
La regola del 7° comma introduce nella sostanza – oltre alla già sopra esaminata variazione in aggravamento del metro di giudizio delle prove – una inversione dell’onere della prova in materia di giudizi di licenziamenti.
La giurisprudenza della S.C., come visto, è chiarissima e irremovibile sul punto: l’insufficienza probatoria sull’aggettivo “manifesta” nuoce al lavoratore, che si vedrà conseguentemente respinta la domanda di reintegra.
Si parla addirittura di “insufficienza di prove” evocando concetti propri di altre branche processuali.
Dunque, l’onere della prova della natura “manifesta” dell’insussistenza del fatto grava indiscutibilmente sul lavoratore, ossia sul soggetto che contesta l’esistenza del fatto costitutivo del potere della controparte.
Si pongono qui due problematiche.
La prima è che introdurre una inversione dell’onere della prova in ipotesi di prova già raggiunta circa l’inesistenza del fatto da provare (infondatezza “semplice”) rappresenta un nonsenso e, dunque, integra una disciplina intrinsecamente irragionevole (art. 3, 1° comma Cost.).
La seconda è che tale inversione appare illegittima laddove sposta la prova di un fatto manifestamente costitutivo sull’altra parte, ossia su quella che ne contesta l’esistenza e gli effetti giuridici conseguenti.
Circa il primo aspetto, va ricordato che l’onere della prova è la regola giuridica che presidia il giudizio di fatto e in base al quale vengono allocate sulle parti le conseguenze della mancanza di prova dei fatti rilevanti per la norma sostanziale in base alla quale occorre decidere un giudizio.
Si tratta di stabilire, in ipotesi in cui un determinato fatto rilevante non venga provato, chi ne debba subire le conseguenze negative (ossia il rigetto della domanda che vede quel fatto come fondamento della stessa).
Nel nostro ordinamento, come visto, vi è una regola generale che è quella dell’art. 2697 del codice civile. Tuttavia, tale regola (e più in generale tutte le regole in materia di onere della prova) ha un fondamento, una necessità, nella risposta pratica alla domanda sulla sorte del giudizio allorquando la prova di un determinato fatto è mancata.
Non ha, invece, alcun senso a fronte di una prova piena e positiva (che secondo il resto dell’ordinamento giuridico civile sì ha quando la parte onerata di determinati fatti non ne dà la relativa dimostrazione, con valutazione giudiziale secondo il metro della preponderanza probatoria) di un fatto.
Prova positiva e piena che, nei casi qui in esame, vi sarebbe secondo le regole generali civilistiche e lavoristiche appena esaminate, allorquando non vi sia stata la dimostrazione da parte del datore di lavoro che sussistono i fatti fondanti l’esercizio concreto del potere di licenziamento.
Nel caso di specie, tuttavia, l’assetto che risulta dal diritto vivente è in senso contrario.
Non basta al lavoratore per ottenere la tutela richiesta (reintegra) che manchi la prova della fondatezza del licenziamento.
Occorre una prova positiva di un quid pluris, il cui onere (invertito) grava quindi sul lavoratore.
Ma tale inversione, come detto, non ha alcun senso e ratio a fronte dell’accertamento positivo e pieno (nei termini sopra esaminati) che il licenziamento è ingiustificato (innanzi tutto perché il datore non ne ha dimostrato il fondamento).
Detto altrimenti, provato civilisticamente che il licenziamento è infondato, non ha alcuna logica e razionalità dire al lavoratore: «adesso prova tu che il licenziamento è più che infondato, altrimenti non ti reintegro».
Si tratta, dunque, di un errato uso della discrezionalità del legislatore e comunque di una regola illogica e irrazionale.
E che resta illogica e irrazionale anche ove si spostasse l’attenzione sulla tipologia di tutela, piuttosto che sull’esercizio del potere.
Innanzi tutto perché anche qui non risponde ad alcuna logica distinguere gli oneri della prova non in base alla situazione sostanziale sottostante (fatti costitutivi del licenziamento), bensì in base alla tutela richiedibile ed erogabile.
E non a caso siamo in presenza di un unicum nel panorama giuridico sostanziale.
In secondo luogo l’illogicità sta nel prevedere che le gravi conseguenze in tema di tutele sopra evidenziate siano ancorate all’adozione di un criterio evanescente, soggettivo e impalpabile.
Se ha una ratio giustificativa la graduazione delle tutele a seconda dei vizi, non ha invece una ratio logicamente apprezzabile, né risulta razionale, una distinzione delle tutele fondata su un grado più o meno elevato di convincimento circa una situazione fattuale già ritenuta comunque provata (ed infondata) dal giudice.
Un ulteriore aspetto di criticità riguarda la possibilità del legislatore di onerare della prova di un fatto costitutivo dell’esercizio di un potere la parte che ne subisce e contesta l’esercizio.
Il legislatore è cioè totalmente libero di invertire gli oneri della prova favorendo determinate parti («istituzionali convenuti») di una determinata tipologia di giudizi a discapito di altre ? A tale domanda la risposta si ritiene debba essere negativa.
Come statuito in fattispecie analoga (seppure in diversa materia), ossia nella quale il legislatore aveva invertito un onere probatorio nell’ambito di un giudizio civile, al fine di favorire irragionevolmente una della parti “istituzionalmente” in causa, la Corte costituzionale ha dichiarato la violazione dell’art. 3 Cost. per essere tale inversione irragionevole.
In motivazione, infatti, si legge che «3.1. – L’azione generale di ripetizione d’indebito, di cui all’art. 2033 del codice civile, si fonda sui soli presupposti, di carattere oggettivo, rappresentati dall’avvenuto pagamento e dalla mancanza di causa.
Anche in materia tributaria vale il principio della ripetibilità dell’indebito, ma il diritto alla ripetizione può essere legittimamente limitato o escluso dal legislatore, al fine di evitare un ingiustificato arricchimento del solvens, allorché il peso economico dell’imposta sia stato da questi trasferito su altri soggetti, e ciò sia nel caso in cui tale trasferimento sia previsto da norme di legge, sia quando esso avvenga mediante un meccanismo di traslazione puramente economica. inglobando l’ammontare dell’imposta nel prezzo di vendita dei beni prodotti o dei servizi resi dal soggetto che abbia eseguito la prestazione tributaria non dovuta.
La traslazione dell’imposta, in quanto fatto impeditivo del diritto alla ripetizione, dovrebbe essere opponibile solo in via di eccezione dall’accipiens (art. 2697 del codice civile).
La norma impugnata, invece, onerando il solvens della prova (negativa) della mancata traslazione dell’imposta ha operato una inversione legale dell’onere della prova lesiva del generale canone di ragionevolezza garantito dall’art. 3 della Costituzione.
Tale inversione rinviene, infatti, nella specie, la sua ragione nell’intento di attribuire all’amministrazione finanziaria convenuta con l’azione di ripetizione una posizione di particolare privilegio in sede probatoria. Privilegio del tutto ingiustificato ove si consideri che l’amministrazione è l’accipiens di un pagamento non dovuto che in quanto tale dovrebbe essere, in base ai principi generali, restituito.
E, d’altro canto, la pur contestata ricorrenza, nella normalità delle ipotesi, del fenomeno della traslazione non potrebbe certo giustificare la suddetta inversione, ma, semmai, valere come argomento di prova utilizzabile, in giudizio, dall’accipiens.
Il vulnus al principio di ragionevolezza che si viene così a determinare comporta l’illegittimità costituzionale della norma impugnata, nella parte in cui pone a carico dell’attore in ripetizione l’onere di provare la mancata traslazione dell’imposta invece di prevedere che la domanda debba essere respinta qualora l’amministrazione convenuta provi che il peso economico dell’imposta è stato trasferito dal solvens su altri soggetti».
Anche in relazione all’art. 18, 7° comma, legge n. 300/1970 non si comprende la ragionevolezza di andare a porre tale onere della prova in capo al lavoratore, posto che come sopra evidenziato, tutti gli oneri della prova in materia di esistenza dei fatti che giustificano il licenziamento gravano (ex art. 2697 del codice civile ed ex art. 5, legge n. 604/1966) sul datore di lavoro, posto che si tratta di fatti costitutivi di un potere dallo stesso esercitato, che si tratterebbe per il lavoratore della prova di un fatto negativo e che i fatti in questione rientrano pienamente nella sfera di disponibilità anche probatoria del datore di lavoro (principio della vicinanza della prova: Cass. SS.UU. n. 13533/2001 e successive pronunce conformi).
Infatti, visto che il datare di lavoro è l’unico completo dominus del giustificato motivo oggettivo, avendo ideato e realizzato la modifica organizzativa, avendola poi messa in atto, avendo scelto il lavoratore da licenziare, avendo tentato il ripescaggio, avendo scritto la lettera di licenziamento, non si comprende come lo stesso potrebbe mai non essere in grado – se non per sua causa o per vicende processuali allo stesso comunque riferibili in forza del mandato difensivo – di provare compiutamente le proprie ragioni, se sussistenti, né si comprende il motivo per cui dovrebbe essere esentato (per un qualunque effetto di legge) da tale onere.
Il datore di lavoro ha pieno e completo accesso (essendone proprietario) a tutte le scritture contabili, al libro unico del lavoro, ai contratti attivi e passivi, ai nominativi di tutti i fornitori e dei clienti, nonché di tutti i propri lavoratori;
conosce l’esatta consistenza della propria azienda, forma e stato di tutte le strutture e di tutti i macchinari, di tutti gli appalti, l’organigramma complessivo e quello di tutte le singole unità produttive: può quindi produrre in giudizio tutti gli elementi documentali necessari a dimostrare la fondatezza del licenziamento economico e può chiedere che vengano escussi come testimoni tutti coloro che possono confermare i suoi assunti.
Non vi è alcun motivo (o ragione logica), quindi, di sgravare lo stesso – ai fini della reintegra – dall’onere della prova che gli competerebbe ordinariamente, mettendo in capo al lavoratore l’onere di dimostrare circostanze alle quali lo stesso è estraneo e per giunta coniando un onere della prova relativo ad un fatto negativo (circostanza quest’ultima non decisiva ma comunque rilevante) e dai contorni indefiniti.
Lontananza dai fatti che è già valsa ad orientare la giurisprudenza di legittimità in tema di onere della prova nel repechage, con il superamento dell’orientamento che in passato onerava il lavoratore dell’onere di allegazione di alcune circostanze “a carico”, quali p.e. l’esistenza di posizioni lavorative nelle quali il lavoratore avrebbe potuto fruttuosamente essere impiegato dal datare per evitare il licenziamento (per tutte v. Cass. 12794/2018, dalla quale si evince che le allegazioni del lavoratore hanno il contenuto di un’eccezione e sono necessarie solo quando il datore ha superato positivamente il proprio onere probatorio: In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano i posti disponibili in azienda ai fini del “repêchage”, gravando la prova della impossibilità di ricollocamento sul datare di lavoro, una volta accertata, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, tale impossibilità, la mancanza di allegazioni del lavoratore circa l’esistenza di una posizione lavorativa disponibile vale a corroborare il descritto quadro probatorio»).
In conclusione, la scelta del legislatore del 2012, laddove ha invertito – ai fini della sola reintegra peraltro – l’onere della prova in tema di prova del fatto posto a base del G.M.O. è irragionevole.
Non si vede come mai il lavoratore potrebbe (oltre che, come detto, perché dovrebbe) dimostrare fatti organizzativi negativi (e che gli sono fisiologicamente estranei) secondo un metro di valutazione “aggravato”, laddove il datore non abbia saputo fornire prova positiva degli stessi.
5° Vizio: Illegittimo bilanciamento tra valori costituzionali in materia.
Si tratta della problematica di maggiore delicatezza, posto che, come detto, il legislatore ha discrezionalità in materia e che il sindacato costituzionale all’operato dello stesso è possibile entro i ristretti limiti della violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza. Dunque, sia considerando questo vizio quale un difetto autonomo e aggiuntivo rispetto agli altri, sia considerando lo stesso come una manifestazione plastica della violazione dei canoni di eguaglianza e di ragionevolezza, si andranno ad esporre alcuni vulnus a tali principi che si riflettono con immediatezza sulla serie di norme costituzionali che garantiscono il lavoro.
A completamento del ragionamento sin qui svolto va infatti ulteriormente censurato come il bilanciamento dei valori e degli interessi (lavoro e impresa) rappresentato dalla “mediazione” contenuta nel 7° comma dell’art. 18 qui in esame, sia esso stesso in contrasto con gli articoli 1, 4 e 35 della Costituzione, risultando marcatamente ed ingiustificatamente sbilanciato in favore del datore di lavoro e, di contro, ingiustificatamente penalizzante per il lavoratore.
E questo in violazione in particolare dei principi costituzionali appena citati.
Come già sopra esposto, la complessiva struttura e fondamenta della nuova versione dell’art. 18 rappresentano già una ulteriore mediazione tra i diritti del lavoratore e del datare di lavoro.
In particolare si considerino la limitazione della reintegra all’ipotesi di insussistenza del fatto, (conseguentemente) l’esclusione della sproporzione dall’area della reintegra (per motivi soggettivi), la tutela meramente risarcitoria (di importo inferiore alle altre ipotesi) per una rilevante serie di ipotesi, tra cui in particolare i vizi meramente formali.
Il limite ulteriore rappresentato dalla necessità che il fatto a base del G.M.O. non sia solo insussistente, ma lo sia manifestamente (con tutto il portato in termini di incertezza, indeterminatezza, soggettivismo che ne conseguono), rappresenta un illegittimo bilanciamento tra i valori in gioco delle due parti del rapporto.
Discrimina ipotesi se non essenzialmente identiche, ampiamente omogenee (manifesta insussistenza nel licenziamento soggettivo e oggettivo, nel licenziamento individuale e collettivo) senza aggiungere un elemento razionale e verificabile a tutela di una particolare e garantita necessità imprenditoriale (se non quella spicciola di escludere, in alcuni casi concreti e casualmente, una reintegra altrimenti dovuta).
Del tutto irragionevole e sbilanciata risulta poi la scelta di invertire l’onere della prova ponendo in capo al lavoratore un onere positivo di dimostrazione della sussistenza della manifesta infondatezza.
Qui, senza alcuna necessità probatoria specifica, quasi secondo un logica uguale ma contraria a quella postulata dall’art. 3, 2° comma, la parte forte del rapporto e nella piena condizione di accesso a tutti i fatti ed elementi della fattispecie, viene esonerata da parte del proprio connaturato ed ordinario (2697 del codice civile e art. 5, legge n. 604/1966) onere della prova, mettendo la legge a carico della parte debole del rapporto la prova di circostanze dai contorni indefiniti, negative ed a quest’ultima estranee.
Se la scelta dei legislatore di creare un sistema di graduazione delle tutele in funzione della graduazione del vizio deve essere rispettata – ragione per cui la reintegra deve spettare per i vizi massimi e più gravi dei licenziamenti -, ne vanno tratte, però, tutte le conseguenze che logicamente ne discendono: in presenza di un vizio massimo quale l’insussistenza del fatto, la tutela deve essere quella massima, ossia la garanzia del posto di lavoro, analogamente a quanto avviene (pure qui frutto del bilanciamento degli interessi e dei valori costituzionali in campo) in tema di motivi soggettivi e di licenziamenti collettivi (Corte cost. n. 59/2021:
«L’insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, che questa Corte ha enucleato sulla base degli articoli 4 e 35 Cost. (sentenza n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in diritto»).
La garanzia per le scelte imprenditoriali legittime – sopra soglia – è già assicurata dalla verifica ad opera del giudice (con il doppio grado di merito ed anzi con anche un terzo grado sul rispetto delle prerogative delle scelte imprenditoriali) della necessità che il fatto posto a fondamento del licenziamento effettivamente sussista, senza alcuna necessità di filtri o ostacoli ulteriori per il riconoscimento al lavoratore – ove il fatto non sussista – della reintegra nel posto di lavoro.
Si ritiene essere invece incompatibile con il bilanciamento fatto dal legislatore (vizio massimo, tutela massima), la scelta di subordinare la reintegra in ipotesi di G.M.O. economico insussistente ad ulteriori, vaghi e discrezionali elementi che nulla aggiungono né al disvalore della fattispecie estintiva (il vizio è sempre quello massimo), né in funzione della tutela della libertà di iniziativa economica privata (il fatto di G.M.O. è già accertato come insussistente).
6° Vizio: Violazione del secondo comma dell’art. 3 Cost. «E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Si ha al riguardo motivo di ritenere che l’art. 3, 2° comma osti ad una disciplina normativa che realizzi l’effetto (non già di rimuovere, bensì) di amplificare tali ostacoli, con la conseguente limitazione di libertà e di eguaglianza del lavoratore.
Nel caso di specie, gli ostacoli economici e sociali che distinguono datore di lavoro sopra soglia e lavoratore, limitando l’eguaglianza e la libertà del secondo (tanto che in corso di rapporto per la Corte costituzionale – nn. 63/1966, 174/1972, oltre alle sei sentenze del 1979 – e per la giurisprudenza di legittimità – per tutte n. 7640/2012 – non decorre nemmeno la prescrizione, in assenza di garanzia – la reintegra – di stabilità), non solo non sono eliminati, bensì sono stati dal legislatore rinforzati, esaltati, con legge n. 92/2012, laddove ha introdotto il criterio della manifesta insussistenza del fatto nell’art. 18, 7° comma.
Tale particella normativa ha un effetto contrario al principio di uguaglianza sostanziale, nella misura in cui scarica sul lavoratore licenziato un onere della prova che dovrebbe essere del datore di lavoro (e lo sarebbe per le regole generali sia civilistiche che lavoristiche).
Ha ancora un effetto contrario al principio di uguaglianza sostanziale laddove (sempre a differenza degli altri settori del diritto civile e del lavoro) subordina la tutela reintegratoria (che al contrario si muove sulla linea dell’art. 3, 2° comma Cost., unitamente agli articoli 1, 4, 35 e 42, 2° comma) ad un “aggravamento” probatorio, che non ha eguali in capo sostanziale e che viene posto a carico del solo lavoratore.
Lavoratore chiamato a provare un fatto dai contorni incerti, negativo e che gli è fisiologicamente estraneo (e che, semplicemente, si limita a subire).
Tale particella normativa ha ancora un siffatto effetto contrario al principio di uguaglianza sostanziale, nell’interpretazione della norma secondo il diritto vivente, perché introduce criteri limitativi dei diritti del lavoratore che operano in modo arbitrario e casuale.
In particolare, la libertà del lavoratore risulta notevolmente limitata dall’essere il diritto alla reintegra (previsto dall’O.G. in relazione alle ipotesi – sia di licenziamenti motivi soggettivi che oggettivi – di fatti insussistenti) limitato non già entro determinati confini di fattispecie (p.e. la graduazione delle tutele in funzione della graduazione del disvalore dei vizi dell’atto), bensì sulla base di un indeterminato criterio di valutazione discrezionale della prova suscettibile di esatta definizione (e comprensione) solo ex post ed all’esito del singolo giudizio.
E con valutazione, come detto, non replicabile perché il criterio è totalmente discrezionale e soggettivo.
Perché, come detto, ciò che può essere il “torto marcio” per un giudice, magari non lo è per un altro magistrato (ma comunque sempre a parità di fatto comunque “semplicemente” insussistente).
Ciò impedisce al lavoratore ex ante di potere decidere scientemente e, quindi, liberamente dei propri diritti, già fin dalla scelta se impugnare o meno il licenziamento (perché rilevanti sono gli effetti della stabilità reale per la vita del lavoratore), sino a che punto gli sia conveniente iniziare e proseguire il giudizio o piuttosto addivenire ad una conciliazione, nonché – infine ma non per ultimo – su quali basi oggettive determinare il contenuto della propria richiesta transattiva e, infine, conciliarsi con la controparte.
Tutte incertezze queste che derivano da un criterio non definitorio di una fattispecie rimediale (determinato vizio-determinata tutela), bensì pseudo probatorio (forse un domani il singolo fatto concreto potrebbe essere ritenuto di facile accertamento nella sua “peculiare difformità rispetto alla mera assenza dei presupposti del licenziamento”, forse no), incertezze che tuttavia incidono in maniera rilevantissima sulla libertà di determinazione del lavoratore in relazione alla tutela di un diritto oggetto di rilievo e tutela costituzionale.
Va qui naturalmente richiamato tutto quanto esposto in relazione agli altri dedotti vizi e che concorre a dare corpo alla violazione dell’art. 3, 2° comma.
In particolare a tutte le problematiche emerse in tema di uguaglianza e di violazione della stessa ( … «limitando di fatto … l’eguaglianza dei cittadini…»).
Va conclusivamente osservato che la particella normativa in contestazione si muove su una direttrice diametralmente opposta rispetto a quanto imposto dall’art. 3, 2° comma, mirando in concreto a pregiudicare la situazione giuridica del lavoratore di fronte ad un atto di licenziamento economico in ordine al quale il giudice ha ritenuto l’insussistenza del fatto posto alla base dell’atto espulsivo, anche e semplicemente per non averlo il datore dimostrato.
° Vizio: Il diritto di agire in giudizio.
Come già sopra accennato, vi sono forti attriti tra la regola della manifesta insussistenza del fatto ed il diritto costituzionalmente tutelato di agire in giudizio a difesa dei propri diritti. Oltre a quanto sino a questo punto già evidenziato (e in relazione al quale va riferito anche il qui prospettato contrasto con l’art. 24 Cost.), devono ora mettersi in luce ulteriori aporie ed elementi di contrasto.
Il più evidente è quello per cui una tutela sostanziale non può dipendere dal grado di “semplicità” di una causa, per cui se un accertamento è facile l’ordinamento appronta una determinata tutela, mentre se l’accertamento è difficile, viene erogata una tutela diversa e inferiore.
Va inoltre rilevato come il meccanismo qui censurato renda eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto del lavoratore, alla luce dell’inversione dell’onere della prova operata dal legislatore in relazione a fatti che esulano dalla disponibilità fisiologica dello stesso: se il datore di lavoro (dominus del fatto) non è risuscito a dimostrare la fondatezza del proprio licenziamento economico in tutti gli elementi che ne costituiscono il “fatto” (ciò che, in assenza dell’aggettivo “manifesta” condurrebbe alla reintegra), come si può pensare che il lavoratore (a tali fatti estraneo) sia in grado di dimostrare la manifesta insussistenza del fatto in questione ?
Inoltre, il criterio della manifesta insussistenza del fatto compromette (rendendo eccessivamente difficoltoso l’esercizio del suo diritto) l’esatta possibilità di valutare ex ante da parte del lavoratore le proprie chance di successo (e, dunque, di determinarsi sul se e come fare valere i propri diritti in giudizio) e ciò a causa di un meccanismo privo di criteri applicativi oggettivi e il cui funzionamento processuale necessariamente ex post (perché prima della fine della causa non è dato sapere in quali casi spetterà la reintegra e in quali no, a parità di insussistenza “semplice” del fatto) va ad incidere sulla regola sostanziale.
Cartina al tornasole del rigetto da parte del sistema del trapianto del criterio della manifesta insussistenza lo si ha poi analizzando le correlazioni tra lo stesso e la disciplina dei procedimenti cautelari.
Questi ultimi ed in particolare il sequestro conservativo ed il provvedimento d’urgenza non sono preclusi ontologicamente dall’applicazione del rito di cui all’art. 1, commi 47 ss. della legge n. 92/2012.
Tuttavia i procedimenti cautelari sono regolati dalla regola probatoria del fumus boni iuris, che pacificamente indica la verosimiglianza del diritto che si farà valere (per i provvedimenti anticipatori anche in via eventuale) in sede di merito.
Ma tale criterio appare inconciliabile con quello della manifesta infondatezza (la “verisimiglianza manifesta” risulta un ossimoro).
Conseguentemente, gli strumenti cautelari sarebbero essenzialmente preclusi nella materia in questione.
Ciò che rappresenta una ulteriore lesione del diritto all’azione, oltre che dell’art. 3, 1° comma Cost.
8 – Conclusioni.
Alla luce di tutto quanto argomentato sinora, la questione prospettata con la presente ordinanza appare non manifestamente infondata.
Concludendo, si domanda alla Corte costituzionale l’eliminazione della particella “manifesta” contenuta nell’art. 18, 7° comma, legge n. 300/1970, cosi come risultante dalla modifica ad opera della legge n. 92/2012, con la conseguente spettanza della tutela reintegratoria in ipotesi di insussistenza del fatto di G.M.O. economico.
P.Q.M.
Ritenuta la questione rilevante e non manifestamente infondata dispone, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 23 della legge n. 87/1953, la trasmissione degli atti (comprese le comunicazioni e le notificazioni di cui alla presente ordinanza) del presente procedimento alla Corte costituzionale affinché valuti se sia costituzionalmente legittimo, con riferimento agli articoli 1, 3, I° e II° comma, 4, 24, 35, Cost., l’art. 18, 7° comma legge n. 300/1970, nella parte in cui prevede che, in caso di insussistenza del fatto, per disporre la reintegra occorra un quid pluris rappresentato dalla dimostrazione della «manifesta» insussistenza del fatto stesso;
ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa, nonché al Presidente del Consiglio dei ministri;
dispone, altresì, che la presente ordinanza sia comunicata con immediatezza ai Presidenti delle due Camere del Parlamento;
dispone la sospensione del presente giudizio sino alla decisione della Corte costituzionale.
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