TRIBUNALE DI RIETI – Ordinanza 08 febbraio 2022, n. 14
Pensioni – Soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo (nella specie, attività libero professionale di architetto) subordinata all’iscrizione ad un albo, ma non iscritti alla relativa Cassa previdenziale di categoria, essendo già iscritti in altra forma di previdenza obbligatoria in ragione di altra attività esercitata – Previsione che, in base all’interpretazione del diritto vivente, dispone nei confronti di costoro l’obbligatoria iscrizione alla Gestione separata presso l’INPS. – Legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), art. 2, comma 26; decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, art. 18, comma 12.
Convenuto
1. – Premessa.
Il sig. P. M. è un architetto, iscritto all’Albo degli architetti di … sin dal …, che svolge attività libero professionale in maniera abituale, ma non esclusiva, in quanto svolge contemporaneamente attività di lavoro subordinato quale dipendente a tempo indeterminato presso il Ministero dell’Istruzione in qualità di docente in istituto scolastico superiore.
Dal punto di vista previdenziale, il sig. P. M., è iscritto alla gestione dei lavoratori subordinati presso l’Inps in relazione all’attività di pubblico dipendente, mentre, con riguardo all’attività libero professionale di architetto, è iscritto al relativo albo professionale, ma non anche all’ente previdenziale di categoria (Inarcassa), nei cui confronti versa solamente un contributo integrativo sulla base dei redditi regolarmente dichiarati ogni anno, come previsto dal relativo statuto e regolamento.
Tuttavia, con nota del …, comunicata in data …., l’Inps ha provveduto ad iscrivere d’ufficio l’arch. M. alla propria Gestione separata ai sensi dell’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, richiedendo quindi il pagamento dei relativi contributi previdenziali per l’anno 2012, calcolati in complessivi euro 2.601,24, oltre all’applicazione delle sanzioni calcolate ai sensi dell’art. 116, comma 8, lettera b, legge n. 388/2000, relativo alla fattispecie di evasione contributiva.
Avverso tale nota, l’arch. M. ha proposto ricorso amministrativo in data …, successivamente respinto con provvedimento dell’… .
Con ricorso depositato in data …, l’arch. M. ha agito in giudizio nei confronti dell’Inps proponendo una domanda di accertamento negativo dell’obbligo di iscrizione alla Gestione separata presso l’Inps per l’anno 2012, con relativa richiesta di cancellazione. In subordine, ha chiesto di annullare le sanzioni e gli interessi applicati nella nota impugnata per insussistenza dei relativi presupposti e, in ulteriore subordine, di ridurre le stesse ricalcolandone gli importi nella misura di legge.
Con il medesimo ricorso, inoltre, il ricorrente ha formulato apposita istanza con la quale ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335 e dell’art. 18, comma 12, del decreto-legge n. 98 del 2011, per come interpretato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità (c.d. diritto vivente) per violazione degli articoli 2, 3, 38 e 53 della Costituzione, nonché per la violazione dell’art. 117 della Costituzione in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, nella parte in cui prevede, secondo la detta interpretazione, l’obbligatoria iscrizione alla Gestione separata presso l’Inps e il versamento della relativa contribuzione previdenziale da parte del libero-professionista che svolga, contestualmente, anche altra attività lavorativa e che abbia, per essa, anche altra posizione previdenziale obbligatoria.
A sostegno del proprio ricorso, ha dedotto, in sintesi: l’insussistenza dei presupposti per l’iscrizione nella gestione separata Inps ex art. 2, comma 26, legge n. 335 del 1995, tenuto conto della norma di interpretazione autentica di cui all’art. 18, comma 12, decreto-legge n. 98 del 2011, in quanto l’obbligo di iscrizione alla gestione separata sussisterebbe solamente per quei professionisti per i quali non esiste un albo professionale; che, nel caso di specie, troverebbe applicazione il comma 25, dell’art. 2, legge 8 agosto 1995, n. 335 e non già il comma 26; che in ogni caso il versamento del contributo integrativo avrebbe natura previdenziale, con la conseguenza di dover ritenere assolto al proprio obbligo contributivo ai sensi dell’art. 1, della legge n. 133 del 2011, di modifica dell’art. 8 del decreto legislativo n. 103 del 1996, nonché dell’art. 26 del regolamento Inarcassa; che tale interpretazione della suddetta normativa è stata costante e pacifica per ventidue anni, confermata sia dalla giurisprudenza di merito che di legittimità, fino al revirement operato con le sentenze n. 30344 e 30345 del 2017 della Suprema Corte di cassazione, che invece ha disatteso tale precedente e consolidato orientamento sancendo la sussistenza dell’obbligo di iscrizione nella gestione separata anche dei professionisti iscritti in albi che versino il solo contributo integrativo.
Con memoria tempestivamente depositata, si è costituito l’Inps che ha chiesto il rigetto del ricorso, sulla base del consolidato orientamento della Suprema Corte di cassazione secondo cui l’unica contribuzione idonea ad escludere l’obbligo dall’iscrizione alla gestione separata è solamente quella diretta alla costituzione di una futura prestazione pensionistica, con la conseguenza che ciò non si riscontra con il versamento del solo contributo integrativo.
2. – La rilevanza della questione.
I fatti di causa, per come descritti in premessa, sono pacifici e non contestati.
Pertanto, l’unica questione giuridica che viene in rilievo nel caso di specie concerne l’obbligo di iscrizione alla Gestione separata presso l’Inps degli ingegneri e degli architetti, già iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie, i quali non possono iscriversi ad Inarcassa, alla quale versano esclusivamente un contributo integrativo in quanto iscritti agli albi, a cui, però, non segue la costituzione di alcuna posizione previdenziale a loro beneficio.
Tale questione è stata già decisa dalla Suprema Corte di cassazione con le sentenze. nn. 30344 del 2017, n. 30345 del 2017, n. 32167 del 2018, e innumerevoli successive conformi, con le quali si è affermata la sussistenza dell’obbligo in discorso, facendo applicazione dell’art. 2, comma 26, legge n. 335 del 1995 e della relativa norma di interpretazione autentica di cui all’art. 18, comma 12, decreto-legge n. 98 del 2011.
Applicando il suddetto consolidato orientamento giurisprudenziale (c.d. diritto vivente) alla fattispecie in esame, si dovrebbe necessariamente addivenire al rigetto del ricorso.
Tuttavia, si dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 26, legge n. 335 del 1995 e della relativa norma di interpretazione autentica di cui all’art. 18, comma 12, decreto-legge n. 98 del 2011, per come interpretati dal diritto vivente.
A tal riguardo, infatti, deve osservarsi che per la definizione del giudizio occorre necessariamente fare applicazione della norma della cui legittimità costituzionale si dubita, non sussistendo altre questioni preliminari o pregiudiziali che potrebbero condurre ad un diverso esito del giudizio.
Dalla risoluzione della suddetta unica questione, infatti, dipende l’esito del giudizio: se la questione dovesse essere ritenuta fondata, ne conseguirebbe l’accoglimento del ricorso mediante la dichiarazione dell’insussistenza dell’obbligo di iscrizione alla Gestione separata e la non debenza del relativo contributo; se, invece, la questione dovesse essere ritenuta infondata, ne deriverebbe inevitabilmente il rigetto del ricorso, conformemente al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (c.d. diritto vivente).
Pertanto, l’incidente di costituzionalità si presenta nel caso di specie come assolutamente rilevante e logicamente preliminare alla definizione della causa, ai sensi dell’art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87.
3. – Interpretazione costituzionalmente orientata. Esclusione.
In secondo luogo, quanto all’onere del giudice a quo di tentare preliminarmente la via della interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni di cui si dubita la conformità a Costituzione, in applicazione del principio secondo cui una disposizione di legge può essere dichiarata costituzionalmente illegittima solo quando non sia possibile attribuirle un significato che la renda conforme ai parametri costituzionali invocati, deve osservarsi come, nel caso di specie, una simile alternativa risulti del tutto preclusa alla luce dell’esistenza di un orientamento della giurisprudenza di legittimità assolutamente consolidato e granitico tale da costituire il diritto vivente di cui si chiede, con la presente ordinanza, il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali invocati.
Al riguardo, infatti, va richiamato l’orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo il quale, in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice a quo ha la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini di «diritto vivente» e di richiederne su tale presupposto il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali. Ciò, senza che gli si possa addebitare di non aver seguito altra interpretazione, più aderente ai parametri stessi, sussistendo tale onere solo in assenza di un contrario diritto vivente (Corte costituzionale n. 180 del 2021, n. 95 del 2020, n. 141 del 2019, n. 122 del 2017 e n. 11 del 2015).
Le suddette considerazioni, inoltre, inducono anche ad escludere una eventuale inammissibilità della questione per la richiesta di un mero avallo interpretativo (Corte costituzionale n. 1 del 2021, n. 240 del 2016).
Peraltro, sulla sussistenza di un diritto vivente nei termini suindicati non sussistono dubbi. Infatti, l’orientamento inaugurato da Cassazione civ., sez. lav., 18 dicembre 2017, n. 30344 e n. 30345 è stato successivamente confermato, tra le altre, da Cassazione 18 gennaio 2018, n. 1172, Cassazione 23 gennaio 2018, n. 1643 e Cassazione 30 gennaio 2018, n. 2282, per poi essere ulteriormente confermato ed approfondito, con ampia ed articolata motivazione, da Cassazione 12 dicembre 2018, n. 32166 (relativa a ingeneri e architetti) e n. 32167 (relativa agli avvocati). A tali ampie ed approfondite motivazioni, hanno poi fatto riferimento tutte le successive ed innumerevoli pronunce conformi (cfr., tra le tante, Cassazione 17 dicembre 2018, n. 32608; Cassazione 21 dicembre 2018, n. 33313, Cassazione 11 gennaio 2019, n. 519, Cassazione 8 febbraio 2019, n. 3799, Cassazione 10 gennaio 2020, n. 7485, Cassazione 27 gennaio 2020, n. 1827, Cassazione 3 luglio 2020, n. 13649, Cassazione 14 gennaio 2021, n. 477 e n. 478, Cassazione 18 febbraio 2021, n. 4419, Cassazione 3 marzo 2021, n. 5826, Cassazione 15 marzo 2021, n. 7227, Cassazione 19 aprile 2021, n. 10268).
Ritenuta, quindi, la rilevanza della questione e l’impraticabilità di una diversa interpretazione in presenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale, occorre procedere ad individuare esattamente le disposizioni viziate la illegittimità costituzionale e ad esaminare i motivi che paiono essere non manifestamente infondati in relazione ai parametri costituzionali che vengono in rilievo.
A tal fine, occorre preliminarmente esporre in maniera compiuta il quadro normativo di riferimento.
4. – Quadro normativo di riferimento e sua evoluzione.
La legge 4 marzo 1958, n. 179 ha istituito la Cassa nazionale di previdenza a favore degli ingegneri e architetti (Inarcassa), avente in origine personalità giuridica di diritto pubblico (art. 1), successivamente privatizzata in base al decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509.
Con specifico riferimento alla posizione previdenziale del libero professionista iscritto all’albo di architetto, ma già iscritto ad altra forma di previdenza obbligatoria in relazione ad altra attività esercitata, come nel caso di specie, la legge 11 novembre 1971, n. 1046, art. 2, novellando la legge 4 marzo 1958, n. 179, art. 3, ha previsto che «Sono iscritti alla Cassa tutti gli ingegneri ed architetti che possono per legge esercitare la libera professione. A decorrere dal 1° gennaio 1972 sono esclusi dalla iscrizione alla Cassa gli ingegneri ed architetti iscritti a forme di previdenza obbligatorie in dipendenza di un rapporto di lavoro subordinato o comunque di altra attività esercitata».
L’esclusione dall’iscrizione alla Cassa per i professionisti già iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie in relazione ad altra attività esercitata è stata poi ribadita dalla legge 3 gennaio 1981, n. 6, recante «Norme in materia di previdenza per gli ingegneri e gli architetti», che con il suo art. 21, comma 5, ha confermato che «Sono esclusi dall’iscrizione alla Cassa ai sensi dell’art. 2 della legge 11 novembre 1971, n. 1046, gli ingegneri e gli architetti iscritti a forme di previdenza obbligatorie in dipendenza di un rapporto di lavoro subordinato o comunque di altra attività esercitata».
Inoltre, la stessa legge 3 gennaio 1981, n. 6, con il suo art. 10, rubricato «Contributo integrativo», ha disposto che «A partire dal 1° gennaio del secondo anno successivo all’entrata in vigore della presente legge, tutti gli iscritti agli albi di ingegnere e di architetto devono applicare una maggiorazione percentuale su tutti i corrispettivi rientranti nel volume annuale d’affari ai fini dell’IVA e versarne alla Cassa l’ammontare indipendentemente dall’effettivo pagamento che ne abbia eseguito il debitore. La maggiorazione è ripetibile nei confronti di quest’ultimo».
Sulla base di tali disposizioni, quindi, è del tutto pacifico che il professionista iscritto all’albo di architetto, già iscritto ad altra forma di previdenza obbligatoria in relazione ad altra attività esercitata, se da un lato non può iscriversi alla Cassa in relazione all’attività libero professionale svolta con continuità, dall’altro lato è comunque tenuto a versare un contributo integrativo in favore dell’ente previdenziale di categoria.
4.1. – Successivamente, è intervenuta la legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) volta a disciplinare la tutela previdenziale di liberi professionisti e lavoratori autonomi.
Con riferimento ai primi (liberi professionisti), l’art. 2, comma 25, legge 8 agosto 1995, n. 335, ha previsto una delega al Governo sul punto, disponendo che: «Il Governo della Repubblica è delegato ad emanare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, norme volte ad assicurare, a decorrere dal 1° gennaio 1996, la tutela previdenziale in favore dei soggetti che svolgono attività autonoma di libera professione, senza vincolo di subordinazione, il cui esercizio è subordinato all’iscrizione ad appositi albi o elenchi, in conformità ai seguenti principi e criteri direttivi: a) previsione, avuto riguardo all’entità numerica degli interessati, della costituzione di forme autonome di previdenza obbligatoria, con riferimento al modello delineato dal decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, e successive modificazioni ed integrazioni; b) definizione del regime previdenziale in analogia a quelli degli enti per i liberi professionisti di cui al predetto decreto legislativo, sentito l’ordine o l’albo, con determinazione del sistema di calcolo delle prestazioni secondo il sistema contributivo ovvero l’inclusione, previa delibera dei competenti enti, in forme obbligatorie di previdenza già esistenti per categorie similari; c) previsione, comunque, di meccanismi di finanziamento idonei a garantire l’equilibrio gestionale, anche con la partecipazione dei soggetti che si avvalgono delle predette attività; d) assicurazione dei soggetti appartenenti a categorie per i quali non sia possibile procedere ai sensi della lettera a) alla gestione di cui ai commi 26 e seguenti».
La delega legislativa è stata attuata con il decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103, recante «Attuazione della delega conferita dall’art. 2, comma 25, della legge 8 agosto 1995, n. 335, in materia di tutela previdenziale obbligatoria dei soggetti che svolgono attività autonoma di libera professione».
L’art. 1 del suddetto decreto legislativo, ha espressamente previsto l’estensione della «tutela previdenziale obbligatoria ai soggetti che svolgono attività autonoma di libera professione senza vincolo di subordinazione, il cui esercizio è condizionato all’iscrizione in appositi albi o elenchi» (comma 1), precisando altresì che «Le norme di cui al presente decreto si applicano anche ai soggetti, appartenenti alle categorie professionali di cui al comma 1, che esercitano attività libero -professionale, ancorché contemporaneamente svolgano attività di lavoro dipendente» (comma 2).
Con riferimento ai secondi (lavoratori autonomi), l’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, ha istituito una apposita gestione separata presso l’Inps, disponendo che: «A decorrere dal 1° gennaio 1996, sono tenuti all’iscrizione presso una apposita Gestione separata, presso l’Inps, e finalizzata all’estensione dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo, di cui al comma 1 dell’art. 49 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, di cui al comma 2, lettera a), dell’art. 49 del medesimo testo unico e gli incaricati alla vendita a domicilio di cui all’art. 36 della legge 11 giugno 1971, n. 426. Sono esclusi dall’obbligo i soggetti assegnatari di borse di studio, limitatamente alla relativa attività».
In tale contesto normativo, la giurisprudenza di legittimità non ha mai avuto dubbi sulla necessità di escludere l’obbligo di iscrizione alla gestione separata Inps (art. 2, comma 26, cit.) da parte del libero professionista iscritto in albi, in quanto, in tale ultima ipotesi, il soggetto deputato alla gestione della tutela previdenziale obbligatoria viene scelto dall’organo professionale competente.
Sul punto, infatti, la Corte Suprema di cassazione ha avuto modo di ribadire più volte che i «professionisti iscritti ad albi o elenchi non sono iscritti nella gestione di cui alla legge n. 335 del 1995, art. 2, comma 26, ma nella gestione di cui al precedente comma 25» evidenziando come in tale ipotesi «il soggetto deputato alla gestione della tutela previdenziale obbligatoria viene scelto dall’organo professionale competente e non è certo la Gestione separata presso Inps» dal momento che quest’ultima «è stata invece prevista per quei lavoratori autonomi che svolgono attività professionale per la quale non è prevista l’iscrizione in albi o in elenchi e che quindi non hanno alcun ente deputato alla relativa tenuta che possa decidere sulla forma di gestione della tutela previdenziale. Ne consegue, conclusivamente, che i professionisti iscritti negli albi sono esclusi dalla Gestione separata presso l’Inps di cui alla legge n. 335 del 1995, art. 2, comma 26, mentre in questa sono inclusi i professionisti per i quali, come le guide turistiche, non esiste un albo professionale» (Cassazione civ., sez. lav., 22 maggio 2008, n. 13218, punto 3.1. della motivazione, che conferma Cassazione civ., sez. lav., 16 febbraio 2007, n. 3622 e Cassazione civ., sez. lav., 19 giugno 2006, n. 14069).
4.2. – Tuttavia, con riferimento a tale ultima fattispecie (art. 2, comma 26, cit.), è successivamente intervenuto il legislatore con una norma di interpretazione autentica.
In particolare, il decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, ha disposto (con l’art. 18, comma 12) che «L’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, si interpreta nel senso che i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo tenuti all’iscrizione presso l’apposita gestione separata Inps sono esclusivamente i soggetti che svolgono attività il cui esercizio non sia subordinato all’iscrizione ad appositi albi professionali, ovvero attività non soggette al versamento contributivo agli enti di cui al comma 11, in base ai rispettivi statuti e ordinamenti, con esclusione dei soggetti di cui al comma 11. Resta ferma la disposizione di cui all’art. 3, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103.
Sono fatti salvi i versamenti già effettuati ai sensi del citato art. 2, comma 26, della legge n. 335 del 1995».
Il comma 11 del medesimo art. 18 cit., dispone che «Per i soggetti già pensionati, gli enti previdenziali di diritto privato di cui ai decreti legislativi 30 giugno 1994, n. 509 e 10 febbraio 1996, n. 103, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto adeguano i propri statuti e regolamenti, prevedendo l’obbligatorietà dell’iscrizione e della contribuzione a carico di tutti coloro che risultino aver percepito un reddito, derivante dallo svolgimento della relativa attività professionale. Per tali soggetti è previsto un contributo soggettivo minimo con aliquota non inferiore al cinquanta per cento di quella prevista in via ordinaria per gli iscritti a ciascun ente. Qualora entro il predetto termine gli enti non abbiano provveduto ad adeguare i propri statuti e regolamenti, si applica in ogni caso quanto previsto al secondo periodo».
Anche a seguito dell’intervento del legislatore con la suddetta norma di interpretazione autentica, l’orientamento dominante della giurisprudenza di merito è stato sempre nel senso di escludere l’obbligo di iscrizione alla gestione separata Inps da parte di liberi professionisti non iscritti alla propria Cassa previdenziale, ma comunque assoggettati al versamento del contributo integrativo in quanto iscritti in albi (cfr. la copiosa giurisprudenza indicata a pag. 9 e 10 del ricorso e depositata in atti, tra cui si segnalano in particolare i precedenti resi in grado di appello: Corte d’appello di Torino, sentenza n. 1147/2014; Corte d’appello di Genova, sentenza n. 322/2015; Corte d’appello di Salerno, sentenza n. 255/2016; Corte d’appello di Caltanissetta, sentenza n. 218/2016; Corte d’appello di Firenze, sentenza n. 675/2016; Corte d’appello di Roma sentenza 2765/2017; Corte d’appello di Milano, sentenza n. 1707/2017; Corte d’appello di Cagliari, sentenza n. 119/2017; Corte d’appello di Bologna, sentenza n. 1151/2017; Corte d’appello di Palermo, sentenza n. 644/2018).
5. – L’interpretazione del diritto vivente.
La Suprema Corte di cassazione, a partire da Cassazione 18 dicembre 2017, n. 30344 e n. 30345, è ormai costante nell’interpretare la suddetta normativa nel senso che «l’iscrizione alla gestione separata è obbligatoria per i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, art. 49 (ora 53), comma 1, l’esercizio della quale non sia subordinato all’iscrizione ad appositi albi professionali ovvero, se subordinato all’iscrizione ad un albo, non sia soggetto ad un versamento contributivo agli enti previdenziali di riferimento che sia suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata posizione previdenziale».
Il percorso argomentativo della Suprema corte (successivamente ampliato ed approfondito da Cassazione 12 dicembre 2018, n. 32166) prende le mosse dai principi di diritto affermati dalle sezioni unite in tema di gestione separata (Cassazione sez. un. 12 febbraio 2010, n. 3240) secondo cui, in estrema sintesi:
a) con la creazione della nuova gestione separata si è inteso estendere la copertura assicurativa, nell’ambito della c.d. «politica di universalizzazione delle tutele», non solo a coloro che ne erano completamente privi, ma anche a coloro che ne fruivano solo in parte, a coloro cioè che svolgevano due diversi tipi di attività e che erano «coperti» dal punto di vista previdenziale, solo per una delle due, facendo quindi in modo che a ciascuna corrispondesse una forma di assicurazione;
b) la nuova tutela previdenziale può, quindi, essere «unica», in quanto corrispondente all’unica attività svolta, oppure «complementare» a quella apprestata dalla gestione a cui il soggetto è iscritto in relazione all’altra attività lavorativa espletata, con la precisazione che la compatibilità della regola della doppia iscrizione è testualmente prevista dalla legge 27 dicembre 1997, n. 449, art. 59, comma 16, laddove, all’interno della gestione separata, è prevista un differente aliquota per coloro i quali sono iscritti ad altre forme di previdenza obbligatoria e quanti non lo sono;
c) la regola generale è quindi che all’espletamento di duplice attività lavorativa, quando per entrambe si prevede la tutela assicurativa, deve corrispondere la duplicità di iscrizione e non si ha, peraltro, duplicazione di contribuzione, perché a ciascuna fa capo una attività diversa.
Sulla base di tali premesse, è stato quindi desunto il principio generale per cui «l’unico versamento contributivo rilevante ai fini dell’esclusione dell’obbligo di iscrizione alla gestione separata [è] quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata posizione previdenziale» (Cassazione 18 dicembre 2017, n. 30344).
Pertanto, dal momento che il versamento del contributo integrativo, da parte dei soggetti già iscritti in altre forme di previdenza obbligatoria, è pacificamente insuscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata posizione previdenziale, ne consegue inevitabilmente la sussistenza dell’obbligo dello stesso di iscrizione alla gestione separata. Tale obbligo, quindi, può venire meno «solo se il reddito prodotto dall’attività professionale predetta è già integralmente oggetto di obbligo assicurativo gestito dalla cassa di riferimento» (Cassazione 12 dicembre 2018, n. 32166, punto 16 della motivazione), in quanto «l’unica forma di contribuzione obbligatoriamente versata che può inibire la forza espansiva della norma di chiusura contenuta nella legge n. 335 del 1995, art. 2, comma 26, come chiarita dal decreto-legge n. 98 del 2011, art. 18, comma 12, non può che essere quella correlata ad un obbligo di iscrizione ad una gestione di categoria, in applicazione del divieto di duplicazione delle coperture assicurative incidenti sulla medesima attività professionale» (Cassazione 12 dicembre 2018, n. 32166, punto 30 della motivazione).
Alla luce di tali considerazioni, quindi, è stata risolta la questione interpretativa posta dalla legge di interpretazione autentica, nella parte in cui ha stabilito che sono tenuti ad iscriversi alla gestione separata, non solo i soggetti che svolgono attività il cui esercizio non sia subordinato all’iscrizione ad appositi albi professionali, ma anche coloro che, pur essendo iscritti in albi, svolgono attività non soggette al «versamento contributivo» agli enti di previdenziali di diritto privato, dovendo pertanto intendere tale espressione come riferita al solo «contributo soggettivo» che, a differenza di quello integrativo, è suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata posizione previdenziale.
6. – L’individuazione delle disposizioni di legge viziate da illegittimità costituzionale.
Alla luce del suddetto quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, deve dunque ritenersi che le disposizioni viziate da illegittimità costituzionale vadano individuate nell’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335 e nell’art. 18, comma 12, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, nella parte in cui, secondo il diritto vivente, prevedono l’obbligo di iscrizione alla gestione separata presso l’Inps anche nei confronti dei soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo subordinata all’iscrizione ad un albo, ma non iscritti alla relativa Cassa previdenziale di categoria in quanto già iscritti in altra forma di previdenza obbligatoria in ragione di altra attività esercitata.
Più precisamente, la disposizione censurata è la norma risultante dall’interpretazione che il diritto vivente dà di quel precetto unitario costituito della legge di interpretazione autentica in relazione alla regola posta dalla legge interpretata (art. 2, comma 26 della legge n. 335 del 1995).
A tal riguardo, occorre subito precisare che ciò che si censura non è tanto il merito della questione (estensione dell’obbligo contributivo), quanto piuttosto il metodo utilizzato per raggiungere la finalità di estensione della tutela assicurativa (iscrizione alla gestione separata Inps).
Tale precisazione si rende necessaria per evidenziare che qui non si vuole mettere in discussione il principio sancito dalla giurisprudenza di legittimità relativo alla c.d. universalizzazione delle tutele assicurative, né si vuole contestare la regola generale per cui all’espletamento di duplice attività lavorativa, quando per entrambe si prevede la tutela assicurativa, deve corrispondere la duplicità di iscrizione, né si vuole censurare il carattere di complementarietà della gestione separata rispetto alla gestione previdenziale privata. Piuttosto, come meglio argomentato nel prosieguo, si dubita della legittimità costituzionale delle conseguenze derivanti dall’applicazione di tali principi generali.
Pertanto, ferme restando le premesse da cui muove l’interpretazione giurisprudenziale, si dubita che la soluzione interpretativa desunta da tali premesse sia compatibile con il quadro costituzionale.
7. – Le disposizioni della Costituzione che si assumono violate: premessa.
Prime di procedere con l’individuazione dei parametri costituzionali che si assumono violati, occorre fare una breve puntualizzazione.
Innanzitutto, si deve evidenziare che l’opzione interpretativa adottata dal diritto vivente non corrisponde ad una soluzione costituzionalmente obbligata («a rime obbligate»).
Infatti, se da un lato è vero che l’estensione della copertura assicurativa anche attraverso il piano oggettivo, come riconosciuto dal diritto vivente (Cassazione civ. sez. lav. 12 dicembre 2018, n. 32166, punto 16 della motivazione), risponde all’obbligo dello Stato di dare concretezza al principio della universalità delle tutele, tuttavia, dall’altro lato è anche vero che la regola fissata dal formante giurisprudenziale non corrisponde ad una soluzione necessariamente imposta dagli articoli 35 e 38 della Costituzione, dal momento che l’attuazione del suddetto principio di universalizzazione della copertura assicurativa implica comunque l’adozione di una serie di scelte di politica legislativa che restano affidate alla discrezionalità del legislatore.
Una sicura conferma in tal senso, si riscontra nella vicenda relativa ai soggetti liberi professionisti iscritti in albi che abbiano continuato a svolgere abitualmente l’attività professionale, pur avendo già conseguito il trattamento pensionistico.
Per i soggetti già pensionati, infatti, il legislatore ha optato non già per l’iscrizione nella gestione separata Inps, bensì per l’introduzione di un obbligo di iscrizione alla propria Cassa di appartenenza (comma 11 dell’art. 18 cit.), con una norma avente carattere innovativo e non retroattivo, la quale ha iniziato ad avere efficacia solo a partire da una data ben determinata (7 gennaio 2012), nonché mediante la fissazione di una aliquota contributiva determinata dallo stesso ente previdenziale, nei limiti previsti dalla legge.
Anche in questo caso, quindi, si tratta di una estensione della copertura assicurativa sul piano oggettivo, in applicazione del principio di universalizzazione delle tutele, la quale però è avvenuta con modalità del tutto diverse quanto alla individuazione del tipo di gestione previdenziale (Cassa privata e non Inps), all’estensione temporale dell’obbligo contributivo (solo a decorrere dal 7 gennaio 2012) nonché alla determinazione della relativa aliquota (rimessa all’autonomia dell’ente, nei limiti previsti dalla legge).
Pertanto, deve ritenersi che, fermo restando il principio di estensione delle tutele assicurative, la sua concreta attuazione rientri nella piena discrezionalità del legislatore, non sussistendo un’unica soluzione costituzionalmente obbligata.
Ciò premesso, la soluzione qui censurata (iscrizione nella gestione separata), non solo non è imposta dalla Costituzione, ma tra le varie opzioni possibili, è anche quella che si pone in contrasto con essa sotto diversi profili.
8. – Violazione dell’art. 3 della Costituzione, anche in relazione all’art. 118, comma 4, della Costituzione.
Innanzitutto, sussiste una violazione dell’art. 3 della Costituzione per contrasto con il principio di ragionevolezza e il canone di proporzionalità, anche in relazione al principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, comma 4 della Costituzione.
8.1. – Con riguardo al primo profilo, occorre evidenziare come l’imposizione di un obbligo di contribuzione alla gestione separata da parte dei liberi professionisti già iscritti in altre forme di previdenza obbligatoria non trova alcuna razionale giustificazione, se non quella di «fare cassa».
Infatti, l’impianto sistematico risultante, da un lato, dal processo di privatizzazione degli enti previdenziali di categoria (legge 24 dicembre 1993, n. 537 e decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509) e, dall’altro, dalla politica di universalizzazione delle tutele con estensione della copertura assicurativa anche ai lavoratori autonomi (legge 8 agosto 1995, n. 335 e decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103), è connotato da una sua intrinseca razionalità, la cui deroga da parte delle disposizioni censurate non risulta essere giustificata.
In particolare, giova ribadire che con l’art. 2, della legge 8 agosto 1995, n. 335, il legislatore ha chiaramente distinto la tutela previdenziale dei liberi professionisti iscritti in albi (comma 25) da quella dei lavoratori autonomi non iscritti in albi professionali (comma 26).
Tale impostazione, poi, è stata confermata dal decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103, recante «Attuazione della delega conferita dall’art. 2, comma 25, della legge 8 agosto 1995, n. 335, in materia di tutela previdenziale obbligatoria dei soggetti che svolgono attività autonoma di libera professione», il cui art. 1 ha espressamente ribadito l’estensione della «tutela previdenziale obbligatoria ai soggetti che svolgono attività autonoma di libera professione senza vincolo di subordinazione, il cui esercizio è condizionato all’iscrizione in appositi albi o elenchi» (comma 1), precisando altresì che «Le norme di cui al presente decreto si applicano anche ai soggetti, appartenenti alle categorie professionali di cui al comma 1, che esercitano attività libero -professionale, ancorché contemporaneamente svolgano attività di lavoro dipendente» (comma 2).
Peraltro, la distinzione tra lavoratori autonomi e liberi professionisti dal punto di vista previdenziale è anche coerente con la corrispondente distinzione delle due figure dal punto di vista civilistico, laddove, si distingue, da un lato, il lavoro autonomo largamente inteso (art. 2222 del codice civile) e, dall’altro, l’attività di libera professione subordinata all’iscrizione in appositi albi o elenchi (art. 2229 del codice civile).
Con riferimento a questi ultimi, il legislatore ha scelto di demandare la gestione previdenziale della relativa attività professionale alla autonoma scelta degli enti esponenziali secondo il nuovo modello privatistico.
Il suddetto comma 25, infatti, stabiliva tra i principi e criteri direttivi (lettera d), quello di assicurare i liberi professionisti alla gestione separata solo qualora non fosse stato possibile prevedere la costituzione di una forma autonoma di previdenza obbligatoria secondo il modello degli enti di diritto privato. In attuazione della delega legislativa, quindi, l’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 103 del 1996 ha previsto la facoltà per gli enti esponenziali a livello nazionale degli enti abilitati alla tenuta di albi od elenchi di optare, alternativamente, per: (a) la partecipazione all’ente previdenziale pluricategoriale di diritto privato; (b) la costituzione di un ente di categoria, avente la medesima configurazione di diritto privato; (c) l’inclusione della categoria professionale per la quale essi sono istituiti, in una delle forme di previdenza obbligatorie già esistenti per altra categoria professionale similare; (d) l’inclusione della categoria nella forma di previdenza obbligatoria di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (gestione separata Inps).
Inoltre, lo stesso legislatore ha altresì previsto che «Nel caso di mancata adozione delle delibere di cui al comma 1, i soggetti appartenenti alle categorie professionali interessate sono inseriti nella gestione di cui al comma 1, lettera d)», ossia nella gestione separata Inps (art. 3, comma 2, del decreto legislativo 103 del 1996).
Tale opzione legislativa, peraltro, è stata successivamente confermata dallo stesso art. 18, comma 12, decreto-legge n. 98 del 2011. A ben vedere, infatti, quest’ultimo contiene non solo la norma di interpretazione autentica qui censurata, ma enuncia altresì due ulteriori e distinte disposizioni normative, la prima delle quali espressamente prevede che «Resta ferma la disposizione di cui all’art. 3, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103», ossia la possibilità per gli enti esponenziali di prevedere l’iscrizione nella gestione separata dei liberi professionisti in luogo dell’iscrizione in un ente privatizzato.
In tale contesto normativo, risulta evidente come la soluzione più coerente e ragionevole in relazione alla questione della copertura assicurativa dei professionisti già iscritti in altre forme di previdenza obbligatoria e che in quanto tali non possono iscriversi alle rispettive Casse di categoria (come nella specie), sarebbe stata certamente quella di prevedere un obbligo per le relative Casse previdenziali di assoggettare al versamento di un contributo soggettivo anche le attività professionali di tali soggetti.
Del resto, tale opzione non sarebbe stata neanche una novità, dal momento che una simile soluzione è già stata adottata dal legislatore con riguardo alla analoga vicenda relativa ai soggetti già pensionati.
Invero, a seguito del processo di privatizzazione delle Casse previdenziali di categoria, numerosi statuti e regolamenti dalle stesse adottati hanno espressamente previsto un esonero dal versamento del contributo ordinario (c.d. contributo soggettivo) per il soggetto già pensionato che continui a svolgere abitualmente l’attività professionale.
Ciò nonostante, a partire dal 2009, l’Inps ha iniziato ad iscrivere d’ufficio tali soggetti nella propria gestione separata, ritenendo che tali previsioni negoziali determinassero una «scopertura» contributiva. Pertanto, il legislatore, al fine di «regolarizzare» tali situazioni in conformità al principio generale per cui ogni reddito deve essere assoggettato alla relativa contribuzione previdenziale, è intervenuto nel 2011 con una apposita norma introducendo espressamente l’obbligo per le Casse previdenziali private di prevedere l’assoggettamento ad un contributo soggettivo in misura ridotta per i soggetti già pensionati che avessero continuato a svolgere l’attività professionale percependo un reddito.
In mancanza di adeguamento da parte degli enti privati, è stato poi previsto un analogo obbligo contributivo ex lege decorrente dallo scadere dei sei mesi dall’entrata in vigore del decreto-legge.
Si tratta, in particolare, dell’art. 18, comma 11, decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, secondo il quale «Per i soggetti già pensionati, gli enti previdenziali di diritto privato di cui ai decreti legislativi 30 giugno 1994, n. 509 e 10 febbraio 1996, n. 103, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto adeguano i propri statuti e regolamenti, prevedendo l’obbligatorietà dell’iscrizione e della contribuzione a carico di tutti coloro che risultino aver percepito un reddito, derivante dallo svolgimento della relativa attività professionale. Per tali soggetti è previsto un contributo soggettivo minimo con aliquota non inferiore al cinquanta per cento di quella prevista in via ordinaria per gli iscritti a ciascun ente. Qualora entro il predetto termine gli enti non abbiano provveduto ad adeguare i propri statuti e regolamenti, si applica in ogni caso quanto previsto al secondo periodo».
Ciò trova conferma nella stessa relazione illustrativa al suddetto decreto, dove si legge che «Le vigenti disposizioni statutarie e regolamentari di alcuni enti previdenziali di diritto privato di cui ai decreti legislativi n. 509/1994 e n. 103/1996, approvati dai vigilanti Ministeri del lavoro e delle politiche sociali e dell’economia e delle finanze, hanno previsto la possibilità, su base volontaria, di proseguire l’esercizio dell’attività professionale una volta liquidato il trattamento pensionistico, senza essere tenuti al versamento della contribuzione ordinaria.
Tali previsioni si sono rivelate non coerenti con il principio di carattere generale in base al quale i redditi prodotti devono essere assoggettati a contribuzione previdenziale, per cui l’Inps, nell’ambito di una vasta operazione finalizzata a contrastare l’evasione ed elusione contributiva, ha ritenuto di contestare in tali ipotesi il mancato versamento della contribuzione presso la propria gestione separata, di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335.
La proposta normativa intende quindi offrire una soluzione alla questione, da una parte, imponendo per il futuro l’obbligo per i citati enti previdenziali di diritto privato di prevedere negli statuti e nei regolamenti l’obbligatorietà dell’iscrizione e della contribuzione in tutti i casi di svolgimento dell’attività professionale (ossia, anche una volta maturato il diritto al trattamento pensionistico). Dall’altra, precisando che sono soggetti all’iscrizione presso la gestione separata Inps coloro che svolgono attività il cui esercizio non è subordinato all’iscrizione ad appositi albi o elenchi, salvo diversa previsione legislativa».
Quest’ultima precisazione, inoltre, è stata effettuata mediante la norma di interpretazione autentica di cui al successivo comma 12 dell’art. 18, cit., qui censurata, la quale si pone quindi come completamento del precedente comma 11 dell’art. 18, al fine di risolvere la questione della iscrivibilità alla gestione separata dei soggetti già pensionati.
Pertanto, il legislatore, da un lato ha introdotto un nuovo obbligo di contribuzione nei confronti dei soggetti già pensionati (comma 11) e, dall’altro lato, ha precisato in via interpretativa che tali soggetti non sono obbligati all’iscrizione alla gestione separata (comma 12).
Dal punto di vista della estensione della copertura assicurativa, quindi, la questione giuridica sottesa ad entrambe le fattispecie in esame risulta essere la stessa: in entrambi i casi ci si trova di fronte ad un libero professionista iscritto nel relativo albo che svolge la propria attività professionale percependo dei redditi, il quale, però, è esonerato dall’iscrizione e dal versamento contributivo alla propria Cassa previdenziale in base ad una precisa scelta statutaria ed ordinistica dell’ente stesso.
Le ragioni dell’esonero del libero professionista dal versamento contributivo ordinario sono evidentemente diverse: nel primo caso, perché il soggetto è già pensionato, nel secondo perché già iscritto ad altra forma di previdenza obbligatoria per lo svolgimento di altra attività lavorativa. Tuttavia, i motivi che spingono una Cassa previdenziale privata ad esonerare un libero professionista dal versamento contributivo ordinario sono del tutto irrilevanti ai fini che qui interessano.
Peraltro, l’omogeneità delle due situazioni in relazione alla suddetta questione giuridica è attestata dalla stessa Suprema Corte di cassazione, la quale, chiamata a pronunciarsi sulla sussistenza dell’obbligo di iscrizione alla gestione separata del soggetto esonerato dall’iscrizione alla propria Cassa previdenziale in quanto già pensionato, ha statuito la sussistenza dell’obbligo in discorso, motivando sulla base dello stesso identico principio di diritto posto a fondamento della ritenuta iscrivibilità alla gestione separata dei soggetti già iscritti in altra forma di previdenza obbligatoria (cfr. Cassazione civ. sez. lav. 23 marzo 2020, n. 7485: «reputa il Collegio che i principi di diritto elaborati da questa Corte nell’interpretazione della disposizione di cui all’anzidetto decreto-legge n. 98 del 2011, art. 18, comma 12, cit. (cfr. Cassazione nn. 30344 del 2017, 32166, 32167 e 32508 del 2018) debbano governare anche la soluzione della presente fattispecie, la cui peculiarità è rappresentata dal fatto che l’attività di lavoro autonomo richiedente l’iscrizione all’albo (nella specie, dei periti industriali) è stata posta in essere da un soggetto già pensionato»; tale orientamento è stato poi confermato da Cassazione civ. sez. lav. 5 marzo 2021, n. 6223 che, nel richiamare il suddetto precedente ha ribadito che il «principio di diritto ivi espresso, secondo cui i pensionati che svolgano abitualmente attività lavorativa libero-professionale e non siano tenuti a versare il contributo soggettivo all’ente previdenziale di categoria soggiacciono all’obbligo di iscrizione alla Gestione separata di cui alla legge n. 335 del 1995, art. 2, comma 26, reputa il Collegio di dover ribadire anche in questa sede»).
Tuttavia, a differenza dei soggetti già iscritti in altre forme di previdenza, per i soggetti già pensionati, l’estensione della copertura assicurativa si è realizzata non già attraverso l’iscrizione nella gestione separata Inps, bensì attraverso la corrispondente iscrizione nelle proprie Casse previdenziali di categoria, come previsto dall’art. 18, comma 11, decreto-legge n. 98 del 2011.
La differenza soluzione adottata, invece, per i soggetti già iscritti in altre forme di previdenza obbligatorie non trova invece adeguata giustificazione.
Inoltre, l’irragionevolezza della disposizione qui censurata si evince anche dal fatto che, così facendo, il legislatore, da un lato, ha riconosciuto una autonomia statutaria e regolamentare alle Casse private (come Inarcassa) e, dall’altro lato, in maniera contraddittoria, ha negato tale autonomia nella parte in cui ha ritenuto di estendere l’obbligo assicurativo della gestione separata a tutte quelle fattispecie, come quella in esame, che trovano la ragione del proprio esonero contributivo proprio in una decisione della rispettiva Cassa previdenziale assunta sulla base della suddetta autonomia riconosciuta in precedenza.
Nel caso di specie, inoltre, l’irragionevolezza è accentuata dal fatto che l’esonero dall’iscrizione ad Inarcassa trova la sua fonte direttamente nella legge, prima ancora che nell’autonomia collettiva che si è limitata a recepire il disposto normativo.
8.1.1. – In senso contrario, quindi, non vale replicare che l’art. 2, comma 26, legge n. 335 del 1995, come risultante dall’interpretazione autentica datane dall’art. 18, comma 12, decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, e per come ulteriormente interpretato dal diritto vivente, non sarebbe di ostacolo ad una previsione statutaria o regolamentare delle Casse previdenziali in ordine all’introduzione di un obbligo di iscrizione e di contribuzione anche nei confronti dei soggetti già iscritti in altre forme di previdenza obbligatoria, assoggettando quindi anche questi ultimi al versamento di un contributo soggettivo.
A tal riguardo, infatti, occorre osservare come la censurata irrazionalità dell’attuale sistema previdenziale di categoria può essere superata unicamente mediante l’adozione di atto di natura legislativa e non già negoziale.
Nel caso di specie, infatti, il divieto di iscrizione all’Inarcassa per i soggetti già iscritti ad altra forma di previdenza obbligatoria discende direttamente dalla legge (legge 11 novembre 1971, n. 1046, art. 2 e legge 3 gennaio 1981, n. 6, art. 21, comma 5).
L’autonomia normativa riconosciuta agli enti privatizzati, tuttavia, non potrebbe derogare a tali previsioni legislative.
Sul punto, infatti, la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cassazione 3 gennaio 2019, n. 20) ha avuto modo di chiarire che il decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509 (art. 1, comma 4, in combinato disposto con l’art. 2, comma 2, e art. 3, comma 2), se da un lato ha previsto un potere regolamentare delle Casse non incompatibile con il sistema delle fonti, potendo la fonte primaria costituita dal decreto legislativo autorizzare una fonte subprimaria ad introdurre norme generali ed astratte, dall’altro lato, tali disposizioni non hanno attribuito ai regolamenti delle Casse la configurazione di regolamenti di delegificazione di cui alla legge n. 400 del 1988, art. 17, comma 2, sicché ad essi – e, quindi, per quanto qui rileva, anche al regolamento dell’Inarcassa – non è consentito di derogare a disposizioni collocate a livello primario, quali sono appunto quelle che pongono il divieto di iscrizione all’Inarcassa per i soggetti già iscritti ad altra forma di previdenza obbligatoria (legge 11 novembre 1971, n. 1046, art. 2 e legge 3 gennaio 1981, n. 6, art. 21, comma 5).
Peraltro, una conferma della necessità di uno specifico intervento del legislatore si ritrova con riferimento alla categoria professionale degli avvocati, laddove solo con l’approvazione della legge 31 dicembre 2012, n. 247 di riforma dell’ordinamento forense, è stato espressamente previsto che «L’iscrizione agli albi comporta la contestuale iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense» (art. 21, comma 8), superando così il previdente sistema di esonero dall’iscrizione alla Cassa di previdenza per gli avvocati iscritti all’albo, la cui attività rimaneva al di sotto di una determinata soglia reddituale.
8.2. – In secondo luogo, viene in rilievo la violazione dell’art. 3 della Costituzione, per contrasto con il canone di proporzionalità.
Invero, per le ragioni già esposte in relazione al principio di ragionevolezza, deve ritenersi che la disposizione censurata violi anche il canone di proporzionalità, in quanto, tra gli strumenti disponibili da parte del legislatore non è stato selezionato il «mezzo più mite» fra quelli idonei a raggiungere lo scopo, determinando il minor sacrificio (Corte costituzionale n. 260, n. 218, n. 202 e n. 148 del 2021, n. 119 del 2020, n. 179 e n. 20 del 2019).
Se, infatti, lo scopo è quello di evitare che vi sia «un vuoto di obbligo assicurativo» in relazione all’attività dei professionisti già iscritti in altre forme di previdenza obbligatoria (così Cassazione 12 dicembre 2018, n. 32166), lo strumento più idoneo e proporzionato a tal fine sarebbe stato senz’altro quello già adottato con riguardo all’analoga fattispecie dei soggetti già pensionati, ossia l’introduzione di uno specifico obbligo per le Casse privatizzate di adeguare i propri statuti e regolamenti prevedendo espressamente l’obbligatorietà dell’iscrizione e del versamento contributivo soggettivo anche nei confronti dei soggetti già iscritti in altre forme di previdenza.
Sennonché, con riferimento a questi ultimi soggetti, si è fatto ricorso ad uno strumento molto più incisivo, quale è quello dell’obbligo di iscrizione alla gestione separata Inps.
La sproporzione della misura adottata rispetto allo scopo perseguito emerge sotto tre distinti profili.
8.2.1. – In primo luogo, viene in rilievo una sproporzionata estensione temporale dell’obbligo contributivo in esame.
A tal riguardo, infatti, occorre osservare come l’obbligo di iscrizione alla gestione separata per i soggetti già iscritti in altre forme di previdenza obbligatorie, desunto in via interpretativa dal diritto vivente nel 2017, ha assunto una efficacia retroattiva con decorrenza dal 1° gennaio 1996 (art. 2, comma 26, legge n. 335 del 1995).
Se, invece, il legislatore del 2011 avesse adottato lo stesso modello normativo utilizzato per i pensionati, introducendo una norma nuova e non retroattiva, l’efficacia temporale dell’obbligo di contribuzione sarebbe stata ancorata ad una data certa e con effetti solo per il futuro.
Per i soggetti già pensionati, infatti, l’obbligo di contribuzione è stato introdotto in via generalizzata dal 7 gennaio 2012 (art. 18, comma 11, decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, cit. e decreto ministeriale 12 marzo 2012), mediante una precisa norma di legge (comma 11 dell’art. 18, cit.), avente carattere innovativo e non retroattivo, la quale ha iniziato ad avere efficacia solo a partire da una data ben determinata, in ossequio al disposto dell’art. 11 disp. prel. c.c.: il decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 155 del 6 luglio 2011, è entrato in vigore in pari data (cfr. art. 41) e, pertanto, l’obbligo per i soggetti già pensionati di versare un contributo soggettivo in misura ridotta nei confronti delle proprie Casse previdenziali è entrato in vigore, in mancanza di spontaneo adeguamento, alla data del 7 gennaio 2012.
Con riguardo, invece, ai soggetti già iscritti in altra forma di previdenza obbligatoria, come nella specie, l’obbligo di iscrizione alla gestione separata Inps, trovando fondamento nel diritto vivente (Cassazione n. 30344 e 30345 del 2017) formatosi a seguito dell’interpretazione della norma di interpretazione autentica (comma 12 dell’art. 18, cit.), ha assunto una efficacia retroattiva decorrente sin dall’entrata in vigore della stessa gestione separata Inps (art. 2, comma 26, legge n. 335 del 1995), ossia dal 1° gennaio 1996.
8.2.2. – In secondo luogo, l’obbligo di contribuzione nei confronti dell’Inps è certamente più incisivo rispetto ad un corrispondente obbligo di contribuzione presso la propria Cassa previdenziale di categoria anche in relazione alla aliquota applicabile.
Infatti, l’aliquota ordinaria del contributo soggettivo fissata dalla Cassa di categoria per l’annualità in questione (2012) è pari al 13,50% del reddito professionale netto (cfr. Regolamento Inarcassa, art. 4. Contributo soggettivo – Tabella A), mentre l’aliquota del contributo dovuto alla gestione separata Inps per la medesima annualità è pari al 18% del reddito prodotto (cfr. Circolare Inps n. 16 del 3 febbraio 2012).
8.2.3. – Infine, con riguardo al terzo profilo, occorre evidenziare che l’impossibilità per i professionisti in questione (già iscritti in altre forme di previdenza) di iscriversi alla propria Cassa previdenziale di categoria implica l’impossibilità per gli stessi di poter computare gli importi versati a titolo di contributo integrativo nel «montante contributivo individuale».
Invero, l’art. 8, comma 3, decreto legislativo n. 103 del 1996, come modificato dalla legge n. 133 del 2011 (art. 1), ha espressamente riconosciuto agli enti previdenziali privatizzati la «la facoltà di destinare parte del contributo integrativo all’incremento dei montanti individuali», previa delibera degli organismi competenti e successiva approvazione dei Ministeri vigilanti, al fine di migliorare i trattamenti pensionistici degli iscritti a tali Casse private. Sulla base di tale disposizione legislativa, il regolamento di previdenza dell’Inarcassa, ha quindi previsto che, a decorrere dal 1° gennaio 2013 (art. 26.5, regolamento cit.) la «quota della contribuzione integrativa versata, secondo le modalità di computo previste nel comma 5 del presente articolo», venga computata nell’ambito del «montante contributivo individuale».
Tuttavia, come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, tale retrocessione del contributo integrativo presuppone che il professionista sia iscritto all’Inarcassa e abbia dunque titolo per beneficiare delle sue prestazioni, ciò che gli ingegneri e gli architetti che sono iscritti ad altra gestione previdenziale non possono fare (cfr. Cassazione 18 dicembre 2017, n. 30344).
Pertanto, questi ultimi soggetti, pur essendo tenuti a versare il contributo integrativo, non possono però iscriversi alla Cassa di previdenza, perdendo così anche la possibilità di poter computare il suddetto contributo integrativo, in ogni caso dovuto, nel proprio montante contributivo individuale.
L’iscrizione alla gestione separata di tali soggetti, dunque, non solo contrasta con il principio di ragionevolezza, ma viola anche il canone di proprozionalità.
8.3. – La violazione dell’art. 3 della Costituzione, per contrasto con il principio di ragionevolezza e il canone di proporzionalità, viene in rilievo anche in relazione al principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, comma 4, della Costituzione.
Come già detto, con il decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, il legislatore delegato, in attuazione di un complessivo disegno di riordino della previdenza dei liberi professionisti (legge 24 dicembre 1993, n. 537), ha operato un processo di privatizzazione degli enti previdenziali arretrando la linea d’intervento della legge (così, Corte costituzionale n. 67 del 2018). A tal proposito, infatti, si è parlato di una sostanziale «delegificazione» della materia (cfr. Cassazione 3 gennaio 2019, n. 20; Cassazione 13 febbraio 2018, n. 3461; Cassazione 16 novembre 2009, n. 24202). Con riferimento all’attività svolta da tali enti in regime di diritto privato, la Corte costituzionale ha già avuto modo di chiarire che «la suddetta trasformazione ha lasciato immutato il carattere pubblicistico dell’attività istituzionale di previdenza ed assistenza svolta dagli enti» privatizzati, con l’ulteriore precisazione che la permanente vigenza del fine pubblicistico generale dell’attività che tali enti svolgono, consente anche di escludere una incompatibilità con la libertà (negativa) di associazione di cui all’art. 18 della Costituzione con riguardo all’imposizione da parte della legge di obblighi di appartenenza ad un organismo pubblico a struttura associativa (Corte costituzionale n. 248 del 1997 e n. 7 del 2017).
Con la riforma del titolo V della Costituzione (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), il processo di privatizzazione di enti che svolgono attività di interesse generale ha assunto una diretta copertura costituzionale nel novellato art. 118, comma 4, della Costituzione, il quale dispone che «Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà».
A tal riguardo, infatti, la stessa Corte costituzionale ha statuito che la privatizzazione di enti che svolgono attività di interesse generale «trova anzi una diretta copertura costituzionale nell’art. 118, quarto comma, Cost., che in una ottica di sussidiarietà orizzontale impegna la Repubblica a favorire «l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale»» (Corte costituzionale n. 79 del 2019 con riferimento alla privatizzazione della Croce Rossa Italiana).
La svolta ordinamentale nella considerazione del principio di sussidiarietà orizzontale si è avuta, però, solo a partire dalla sentenza n. 131 del 2020 della Corte costituzionale, la quale, pronunciandosi sulla nuova disciplina di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 (Codice del Terzo settore), ha avuto modo di statuire che l’art. 55 del suddetto decreto, disciplinando i rapporti tra enti del terzo settore e pubbliche amministrazioni, «rappresenta dunque una delle più significative attuazioni del principio di sussidiarietà orizzontale valorizzato dall’art. 118, quarto comma, della Costituzione» e «realizza per la prima volta in termini generali una vera e propria procedimentalizzazione dell’azione sussidiaria» (Corte costituzionale n. 131 del 2020).
Tale valorizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale ha avuto un immediato e notevole impatto sistematico, tanto da portare ad una riscrittura dei rapporti tra potere pubblico e autonomia privata mediante una nuova conformazione dell’assetto generale dei contratti pubblici (cfr. art. 30, comma 8, art. 59, comma 1, e art. 140, comma 1, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 – Codice dei contratti pubblici, come modificato dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76). Alla luce di tale evoluzione ordinamentale, deve quindi ritenersi, con specifico riferimento alla materia previdenziale, che l’attività di interesse generale svolta dagli enti previdenziali di diritto privato (tra cui Inarcassa) rappresenti una delle forme tipiche in cui si esprime e trova attuazione il principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, comma 4, della Costituzione.
Sul punto, inoltre, non può condividersi il contrario assunto secondo cui il principio di sussidiarietà orizzontale sarebbe inapplicabile alla materia previdenziale, argomentando sulla base dell’art. 117, comma 2, lettera o), della Costituzione, che attribuisce allo Stato una potestà legislativa esclusiva in materia di «previdenza sociale».
Invero, il principio di sussidiarietà orizzontale non integra un criterio di riparto di competenze tra il pubblico e il privato, bensì costituisce una nuova modalità di esercizio del potere pubblico, legislativo e amministrativo, rispetto all’autonomia privata.
A tal riguardo, è sufficiente rilevare come l’applicazione più evidente del principio di sussidiarietà orizzontale in materia previdenziale è costituita proprio dal processo di privatizzazione degli enti previdenziali di categoria e dal conseguente sistema normativo che ne è derivato.
In particolare, il già ricordato art. 3, comma 1, del decreto legislativo 103 del 1996 ha previsto la facoltà per gli enti esponenziali a livello nazionale degli enti abilitati alla tenuta di albi od elenchi di optare, alternativamente, per: (a) la partecipazione all’ente previdenziale pluricategoriale di diritto privato; (b) la costituzione di un ente di categoria, avente la medesima configurazione di diritto privato; (c) l’inclusione della categoria professionale per la quale essi sono istituiti, in una delle forme di previdenza obbligatorie già esistenti per altra categoria professionale similare; (d) l’inclusione della categoria nella forma di previdenza obbligatoria di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (gestione separata Inps).
A fronte di tale riconosciuta autonomia di scelta, inoltre, lo stesso legislatore, seguendo il modello delineato dal principio di sussidiarietà orizzontale, ha altresì previsto che «Nel caso di mancata adozione delle delibere di cui al comma 1, i soggetti appartenenti alle categorie professionali interessate sono inseriti nella gestione di cui al comma 1, lettera d)», ossia nella gestione separata Inps (art. 3, comma 2, del decreto legislativo 103 del 1996).
Pertanto, l’obbligo di iscrizione alla gestione separata per i soggetti liberi professionisti iscritti in albi è previsto dal legislatore solo in via sussidiaria, e cioè solo nel caso di mancato esercizio dell’autonomia collettiva degli enti esponenziali.
Allo stesso modo, per i soggetti già pensionati, l’obbligo di contribuzione è stato rimesso in prima battuta alla stessa autonomia dell’ente previdenziale privato e, solo in via sussidiaria, è stato previsto l’obbligo di iscrizione e contribuzione in favore della Cassa privata.
Come già evidenziato, infatti, con l’art. 18, comma 11, decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, il legislatore ha, in primo luogo, favorito l’autonoma iniziativa degli enti privatizzati concedendo un termine semestrale per adeguare i propri statuti e regolamenti e, solo in via sussidiaria ha stabilito che «Qualora entro il predetto termine gli enti non abbiano provveduto ad adeguare i propri statuti e regolamenti, si applica in ogni caso quanto previsto al secondo periodo» ossia l’obbligatorietà dell’iscrizione e della contribuzione a carico dei soggetti già pensionati, in favore delle medesime Casse private.
Pertanto, alla luce di tale principio di sussidiarietà orizzontale deve ritenersi illegittima una azione legislativa che pur potendo favorire l’autonoma iniziativa dell’autonomia negoziale degli enti associativi ometta di farlo senza una adeguata giustificazione razionale.
Deve ritenersi, infatti, che l’art. 118, comma 4, della Costituzione sia una norma immediatamente precettiva e non meramente programmatica, con la conseguenza di vincolare il legislatore nell’esercizio del proprio potere legislativo il quale è tenuto a conformare la propria azione secondo un modello improntato al principio di sussidiarietà.
Pertanto, l’irragionevolezza della disposizione censurata emerge anche in relazione a tale ultimo aspetto.
8.4. – Infine, la violazione dell’art. 3 in combinato disposto con l’art. 118, comma 4, della Costituzione viene in rilievo anche sotto il profilo dell’equo contemperamento di contrapposte esigenze.
Invero, nel bilanciamento tra l’esigenza di estendere la copertura assicurativa (art. 35 e 38 della Costituzione) e la contrapposta esigenza di favorire l’autonomia delle casse previdenziali private (art. 118, comma 4, della Costituzione), in un sistema previdenziale ispirato ad un principio pluralista, la soluzione qui censurata pone l’accento esclusivamente sul primo aspetto, trascurando il secondo, con conseguente irragionevolezza della disposizione censurata.
A tal proposito, è stato affermato che «non è corretto adottare, nella ricerca della soluzione della questione, una logica limitata ad un mero riparto di competenze tra Gestione separata e cassa professionale con la pretesa di paralizzare il pieno dispiegarsi del principio di universalizzazione delle tutele, improntato a precisi obblighi derivanti dalla Costituzione, per effetto dell’attribuzione alla cassa professionale del compito di gestire il rapporto assicurativo dei propri associati. 17. Va, infatti, rimarcato che il principio di autonomia riconosciuto alle casse professionali dal decreto legislativo n. 503 del 1994 realizza, nel rispetto della natura pluralista dell’intero sistema previdenziale, il diverso scopo di rispettare le istanze del gruppo professionale nella gestione dell’assicurazione obbligatoria, all’interno dello spazio assegnato loro dalla legge (Legge n. 335 del 1995, art. 3, comma 12), senza il concorso finanziario da parte dello Stato» (Cassazione 12 dicembre 2018, n. 32166, punti 16 e 17 della motivazione).
A ciò si è aggiunto, quindi, che la portata del principio di universalizzazione delle tutele «deve incidere anche sulla disciplina sostanziale delle previdenze di categoria, ridimensionando in caso di sua negazione, i criteri di autonomia e di separazione delle tutele, che caratterizzano il provvedimento sulla privatizzazione, adottato dal decreto legislativo n. 509 del 1994» (Cassazione 12 dicembre 2018, n. 32166, punto 29 della motivazione).
Si è concluso, pertanto, che «il rigido riparto di competenze presupposto tra Gestione separata e casse professionali si rivela in realtà sfornito di base normativa» (così Cassazione 3 marzo 2021, n. 5826).
Orbene, oltre a dubitare della fondatezza di quest’ultimo assunto, sulla base di quanto esposto finora, occorre richiamare sul punto l’insegnamento della stessa Corte costituzionale, poi ripreso anche dalla Corte di cassazione, secondo il quale tutti i diritti costituzionalmente protetti si trovano in rapporto di integrazione reciproca e sono soggetti al bilanciamento necessario ad assicurare una tutela unitaria e non frammentata degli interessi costituzionali in gioco (Corte costituzionale n. 85 del 2013, n. 10 del 2015, n. 63 del 2016, ma anche, tra le altre, Cassazione 30 settembre 2016, n. 19599).
In altri termini, ciò che si deve evitare è la c.d. «tirannia dei diritti», espressione con la quale si è voluto indicare in maniera sintetica quel bilanciamento non equilibrato di contrapposti interessi, determinato appunto dalla prevalenza assoluta, sproporzionata e ingiustificata di un interesse rispetto ad un altro in conflitto.
Impostata in questi termini, quindi, la questione che qui viene in rilievo non è quella del tipo di rapporto intercorrente tra gestione separata e casse di previdenza (alternativo o complementare), non vendo in discussione la possibilità della doppia iscrizione, e quindi la complementarietà delle due gestioni, quanto piuttosto la ragionevolezza di una soluzione che a livello sistematico non tiene conto di un equo bilanciamento tra l’esigenza di estendere la copertura assicurativa (art. 35 e 38 della Costituzione) e la contrapposta esigenza di favorire l’autonomia delle casse previdenziali private (art. 118, comma 4, della Costituzione).
Concludendo sul punto, quindi, deve ritenersi che l’obbligo di iscrizione alla gestione separata dei liberi professionisti già iscritti in altre forme di previdenza obbligatoria si ponga in contrasto non solo con il principio di ragionevolezza e con il canone di proporzionalità di cui all’art. 3 della Costituzione, ma anche con il principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, comma 4, della Costituzione.
9. – Violazione dell’art. 23 della Costituzione, anche in relazione all’art. 41 della Costituzione.
Non vi è dubbio che ai contributi previdenziali oggetto di causa sia da attribuire la natura di prestazioni patrimoniali obbligatoriamente imposte, come tali soggette alla garanzia dettata dall’art. 23 della Costituzione (Corte costituzionale n. 190 del 2007).
Tale parametro, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, configura una riserva di legge di carattere «relativo», nel senso che essa deve ritenersi rispettata anche in assenza di una espressa indicazione legislativa dei criteri, limiti e controlli sufficienti a delimitare l’ambito di discrezionalità dell’amministrazione purché la concreta entità della prestazione imposta sia chiaramente desumibile dagli interventi legislativi che riguardano l’attività dell’amministrazione (Corte costituzionale n. 190 del 2007).
Così individuata la portata della riserva di legge posta dall’art. 23 della Costituzione, deve ritenersi che la disciplina legislativa sugli obblighi contributivi posti dalla norma denunciata, esaminata nel contesto dei dati normativi citati, non risponda ai requisiti indicati dalla richiamata giurisprudenza costituzionale.
In particolare, deve ritenersi che l’identificazione dei soggetti tenuti alla prestazione contributiva non sia supportata da una sufficiente base legislativa.
9.1. – Da questo punto di vista, infatti, occorre ricordare come la norma originaria si limitava a sancire, per quanto qui interessa, l’obbligo di iscrizione alla gestione separata dei «soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo, di cui al comma 1 dell’art. 49 del testo unico delle imposte sui redditi» (art. 2, comma 26, legge 8 agosto 1995, n. 335, cit.).
Tale norma, tuttavia, inserendosi in un contesto di riforma del sistema pensionistico fondato sulla chiara distinzione tra liberi professionisti iscritti in albi (art. 2, comma 25, cit. e decreto legislativo n. 103 del 1996) e lavoratori autonomi non iscritti in albi (art. 2, comma 26, cit.), non poteva certo costituire una sufficiente base legislativa ai fini della individuazione dei soggetti tenuti alla prestazione contributiva anche con riguardo ai liberi professionisti iscritti in albi ma non iscritti alla relativa cassa previdenziale di categoria in ragione della sussistenza di altra forma di assicurazione obbligatoria per un’altra attività esercitata (come nel caso di specie).
Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, la disciplina previdenziale di questi ultimi rientrava pacificamente nell’ambito del comma 25 e non già del comma 26 dell’art. 2, legge n. 335 del 1995, già solo in base al tenore letterale di tali disposizioni, oltre che in base alla ratio della riforma (Cassazione 22 maggio 2008, n. 13218; Cassazione 16 febbraio 2007, n. 3622; Cassazione 19 giugno 2006, n. 14069).
A tal riguardo, peraltro, occorre anche evidenziare come sussistano seri dubbi che tale «scopertura» contributiva costituisca una lacuna normativa. Non può ragionevolmente escludersi, infatti, che tale «vuoto di obbligo contributivo» coincida con una precisa scelta di politica legislativa fondata sulla ritenuta sufficienza di copertura assicurativa di tali soggetti derivante dall’iscrizione in altra forma di previdenza obbligatoria.
Ad ogni modo, sia la lettera della legge che la ratio della riforma del sistema previdenziale inducevano senz’altro ad escludere i soggetti in questione dall’obbligo contributivo in favore della gestione separata Inps.
9.2. – Inoltre, neanche la successiva norma di interpretazione autentica può ritenersi idonea ad integrare un sufficiente grado di determinazione dei soggetti obbligati.
Al contrario, anzi, occorre osservare come tale norma interpretativa abbia originato un singolare paradosso: infatti, la norma avente funzione chiarificatrice, anziché chiarire l’ambito soggettivo di applicazione della gestione separata, ha creato una maggiore confusione sul punto, mediante l’introduzione di elementi normativi generici ed ambigui.
Ci si riferisce, in particolare, ai termini «ovvero» e «versamento contributivo» contenuti nella norma di interpretazione autentica.
Si tratta, infatti, di nuove e specifiche «questioni derivate dalla legge interpretativa» (così Cassazione 12 dicembre 2018, n. 32166, punto 28 della motivazione) e non dalla legge interpretata, il cui senso era già chiaro prima dell’intervento legislativo. Ed è proprio su tali nuove questioni interpretative, volte alla individuazione dei soggetti obbligati all’iscrizione alla gestione separata, che si è incentrato tutto il successivo dibattito.
Il paradosso, quindi, consiste nel fatto che, con l’introduzione della legge di interpretazione autentica, si è resa necessaria una ulteriore e complessa attività interpretativa di tipo sistematico, non essendo sufficiente una sua esegesi meramente letterale.
Sul punto, infatti, la stessa Corte di cassazione ha riconosciuto che «una interpretazione meramente letterale non potrebbe mai giungere a soluzioni certe essendo il termine versamento contributivo senza ulteriore specificazione del tutto ambiguo così come la valenza della congiunzione ovvero» (così Cassazione 12 dicembre 2018, n. 32166, punto 28 della motivazione, cit.).
Essendo innegabile che tali elementi di ambiguità sono stati introdotti da una legge di interpretazione autentica in un momento storico (2011) in cui, in realtà, non sussistevano dubbi sull’estensione soggettiva dell’obbligo di iscrizione alla gestione separata (Cassazione 22 maggio 2008, n. 13218; Cassazione 16 febbraio 2007, n. 3622; Cassazione 19 giugno 2006, n. 14069), deve ritenersi che, a maggior ragione, neanche tale disposizione (art. 18, comma 12, decreto-legge n. 98 del 2011) sia tale da integrare quello standard minimo di legalità richiesto dall’art. 23 della Costituzione al fine di soddisfare quella esigenza garantista sottesa alla relativa riserva di legge.
9.3. – In verità, occorre anche considerare che le suddette ambiguità introdotte dalla norma interpretativa non sussisterebbero neanche se quest’ultima venisse letta nell’ottica del complessivo intervento legislativo di cui al decreto-legge n. 98 del 2011.
Come già evidenziato, infatti, il contesto in cui il decreto viene ad inserirsi è costituito dalla questione relativa alla «scopertura» previdenziale dei soggetti già pensionati che però abbiano deciso di continuare la propria attività professionale in maniera abituale.
Pertanto, la norma in esame (comma 12, art. 18, cit.) deve essere necessariamente letta unitamente al precedente comma 11 dello stesso articolo.
Tale ultima disposizione, come già evidenziato, dispone che «Per i soggetti già pensionati, gli enti previdenziali di diritto privato di cui ai decreti legislativi 30 giugno 1994, n. 509 e 10 febbraio 1996, n. 103, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto adeguano i propri statuti e regolamenti, prevedendo l’obbligatorietà dell’iscrizione e della contribuzione a carico di tutti coloro che risultino aver percepito un reddito, derivante dallo svolgimento della relativa attività professionale. Per tali soggetti è previsto un contributo soggettivo minimo con aliquota non inferiore al cinquanta per cento di quella prevista in via ordinaria per gli iscritti a ciascun ente. Qualora entro il predetto termine gli enti non abbiano provveduto ad adeguare i propri statuti e regolamenti, si applica in ogni caso quanto previsto al secondo periodo» (art. 18, comma 11, decreto-legge n. 93 del 2011).
La norma di interpretazione autentica, poi, ha precisato che gli obbligati alla relativa iscrizione «sono esclusivamente i soggetti che svolgono attività il cui esercizio non sia subordinato all’iscrizione ad appositi albi professionali, ovvero attività non soggette al versamento contributivo agli enti di cui al comma 11, in base ai rispettivi statuti e ordinamenti, con esclusione dei soggetti di cui al comma 11» (art. 18, comma 12, decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, cit.).
Alla luce di tale nuova disposizione (comma 11, dell’art. 18, cit.), deve quindi essere letta anche la successiva norma di interpretazione autentica fissata al comma seguente (comma 12 dell’art. 18, cit.), la quale, nel precisare l’ambito soggettivo di operatività della gestione separata, ha chiarito che sono tenuti all’iscrizione a tale gestione solamente quei soggetti che svolgono attività non assoggettate al versamento contributivo agli enti di diritto privato (enti di cui al comma 11) sulla base delle rispettive scelte ordinistiche (in base ai rispettivi statuti e ordinamenti), con esclusione in ogni caso dei soggetti già pensionati (soggetti di cui al comma 11), essendo stata prevista per questi ultimi l’iscrizione obbligatoria alle proprie Casse previdenziale con versamento di un contributo soggettivo ridotto, da parte del precedente comma 11 del medesimo art. 18 cit.
Ciò, inoltre, trova ulteriore riscontro nella stessa relazione illustrativa al decreto, nella quale si legge che «Le vigenti disposizioni statutarie e regolamentari di alcuni enti previdenziali di diritto privato di cui ai decreti legislativi n. 509/1994 e n. 103/1996, approvati dai vigilanti Ministeri del lavoro e delle politiche sociali e dell’economia e delle finanze, hanno previsto la possibilità, su base volontaria, di proseguire l’esercizio della attività professionale una volta liquidato il trattamento pensionistico, senza essere tenuti al versamento della contribuzione ordinaria.
Tali previsioni si sono rivelate non coerenti con il principio di carattere generale in base al quale i redditi prodotti devono essere assoggettati a contribuzione previdenziale, per cui l’Inps, nell’ambito di una vasta operazione finalizzata a contrastare l’evasione ed elusione contributiva, ha ritenuto di contestare in tali ipotesi il mancato versamento della contribuzione presso la propria gestione separata, di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335.
La proposta normativa intende quindi offrire una soluzione alla questione, da una parte, imponendo per il futuro l’obbligo per i citati enti previdenziali di diritto privato di prevedere negli statuti e nei regolamenti l’obbligatorietà dell’iscrizione e della contribuzione in tutti i casi di svolgimento dell’attività professionale (ossia, anche una volta maturato il diritto al trattamento pensionistico). Dall’altra, precisando che sono soggetti all’iscrizione presso la gestione separata Inps coloro che svolgono attività il cui esercizio non è subordinato all’iscrizione ad appositi albi o elenchi, salvo diversa previsione legislativa».
Pertanto, dal combinato disposto delle due norme (commi 11 e 12 dell’art. 18, cit.), appare evidente come la funzione della norma interpretativa sia stata quella di delimitare, e non già di ampliare, l’ambito soggettivo di operatività della gestione separata, come peraltro confermato, da un lato, dall’utilizzo dell’avverbio «esclusivamente» e, dall’altro, dal fatto che è rimasto immutato il criterio oggettivo della percezione di redditi ex art. 49, comma 1, Tuir.
Inoltre, che la finalità della norma interpretativa fosse quella di restringere, e non di ampliare, la platea dei soggetti passivi dell’obbligo contributivo, trova conferma anche nella successiva previsione, contenuta nel medesimo comma 12 dell’art. 18 decreto-legge n. 98 del 2011, secondo la quale «Sono fatti salvi i versamenti già effettuati ai sensi del citato art. 2, comma 26, della legge n. 335 del 1995».
Tale disposizione, infatti, si giustifica proprio in relazione alla circostanza per cui alcuni soggetti, data l’incertezza normativa, abbiano comunque versato i contributi alla gestione separata, non essendo però tenuti a farlo in base alla precedente disposizione di cui al medesimo comma. Ragionando in senso contrario, tale precisazione resterebbe priva di ogni significato.
Infine, anche dal punto di vista strettamente letterale, occorre osservare come la norma interpretativa abbia escluso dalla gestione separata non i soggetti che effettuano il versamento contributivo «di cui al comma 11» (cioè il contributo soggettivo) bensì quelli che effettuano tale versamento «agli enti di cui al comma 11» (ossia agli enti privatizzati), senza specificare la tipologia di versamento, pur avendolo appena fatto al precedente comma a cui rinvia.
9.4. – Infine, non può neanche ritenersi che la «base legislativa» richiesta dall’art. 23 della Costituzione possa essere costituito da una interpretazione giurisprudenziale (Cassazione 18 dicembre 2017, n. 30344 e seguenti), soprattutto quando tale interpretazione, alla luce del contesto normativo e giurisprudenziale in cui viene ad inserirsi, risulta essere priva del carattere di prevedibilità. Più in generale, infatti, deve osservarsi come il senso di ingiustizia percepito dai numerosi professionisti, come il ricorrente, che si sono visti iscrivere d’ufficio alla gestione separata Inps a partire dal 2009, è dato non tanto dall’assoggettamento ad un obbligo contributivo in sé considerato, quanto piuttosto dal percepire che un simile obbligo sia stato imposto non da una precisa norma di legge, bensì da una interpretazione giurisprudenziale imprevedibile, con conseguente violazione di quella garanzia di libertà che storicamente è sempre stata insita nel principio di legalità.
9.5. – Più precisamente, la libertà dei soggetti in questione che viene ad essere incisa dalla norma censurata è costituita dalla libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione.
Infatti, in mancanza di una chiara individuazione dei soggetti passivi dell’obbligo contributivo, la successiva interpretazione che ne ha esteso l’ambito applicativo anche ai soggetti come il ricorrente, lede inevitabilmente la libertà di iniziativa economica di quest’ultimo, dal momento che lo stesso risulta pregiudicato nella possibilità di quantificare preventivamente tutti gli oneri, come appunto quelli fiscali e contributivi, cui sarebbe andato incontro nello svolgimento dell’attività professionale.
Come è noto, uno degli aspetti caratterizzanti della libertà di iniziativa economica è costituito dalla possibilità di scelta spettante all’operatore economico: scelta dell’attività da svolgere, delle modalità di reperimento dei capitali, delle forme di organizzazione della stessa attività, dei sistemi di gestione di quest’ultima e delle tipologie di corrispettivo (Corte costituzionale n. 218 del 2021).
La piena libertà di scelta, tuttavia, presuppone una chiara individuazione delle alternative a cui si va incontro e, tale possibilità è stata pregiudicata allorquando il ricorrente ha deciso di intraprendere la propria attività professionale di architetto in un contesto normativo e giurisprudenziale che escludeva pacificamente la sussistenza di un onere contributivo alla gestione separata Inps.
Se, invece, avesse saputo con sufficiente certezza dell’esistenza di un simile obbligo contributivo e della sua decorrenza, egli avrebbe potuto eventualmente scegliere di non intraprendere tale attività economica o di intraprenderla con modalità e tempistiche differenti, essendo evidentemente diversa la convenienza economica dell’attività professionale a seconda della diversa incidenza degli oneri fiscali e contributivi a cui il reddito prodotto deve essere assoggettato.
Si ribadisce, infatti, che nessuna volontà di «evasione» sussiste in capo al ricorrente, quanto piuttosto la legittima pretesa di conoscere in anticipo e con un certo grado di certezza quali sono gli obblighi imposti dalla legge a chi intende iniziare una simile attività, anche con riferimento alla estensione temporale e all’entità economica della relativa imposizione.
10. – Violazione dell’art. 117 della Costituzione, in relazione all’art. 1 del protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo.
Infine, per gli stessi motivi per i quali si ritiene esservi una violazione della riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione, si dubita anche della compatibilità delle disposizioni in esame con l’art. 1 del protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, quale parametro interposto dell’art. 117 della Costituzione.
Come è noto, il protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione europea, al suo art. 1 (Diritto di proprietà), dispone che «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende».
Orbene, non sussistono dubbi sulla riconducibilità dell’obbligo di iscrizione e contribuzione in favore della gestione separata Inps nell’ambito di applicabilità dell’art. 1, protocollo n. 1 della Convezione, stante la nozione ampia relativa al concetto di «beni» e di «proprietà», nonché all’espresso riferimento normativo ivi contenuto alle fattispecie di «pagamento delle imposte o di altri contributi».
Ciò posto, la Corte europea ha costantemente ribadito che, per essere compatibile con la norma generale enunciata nella prima frase dell’art. 1 sopra menzionato, l’ingerenza deve soddisfare tre condizioni: deve essere stata compiuta «nelle condizioni previste dalla legge», «per causa di pubblica utilità» e nel rispetto di un giusto equilibrio tra i diritti della ricorrente e gli interessi della comunità (cfr. da ultimo Corte europea dei Diritti dell’Uomo, 11 febbraio 2020, Casarin c. Italia, Ricorso n. 4893/13). Si tratta, in altri termini, dei tre requisiti costituiti, rispettivamente, dalla legalità, dallo scopo legittimo e dalla proporzionalità dell’ingerenza.
Orbene, come già osservato il relazione all’art. 23 della Costituzione, il requisito di legittimità dell’ingerenza che pare difettare nel caso di specie con riguardo all’obbligo di contribuzione alla gestione separata Inps è costituito proprio dalla mancanza di una sufficiente determinazione da parte della legge delle condizioni soggettive di imposizione del contributo.
Pertanto, per gli stessi motivi per i quali si ritiene esservi una violazione della riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione, deve ritenersi che la misura in contestazione costituisca un’ingerenza nel diritto del ricorrente al rispetto dei suoi beni per violazione del principio di legalità, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo.
11. – Conclusioni.
In conclusione, quindi, deve essere dichiarata rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335 e dell’art. 18, comma 12, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, per come interpretato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità (c.d. diritto vivente), per violazione dell’art. 3, anche in relazione all’art. 118, comma 4, della Costituzione, nonché dell’art. 23, anche in relazione all’art. 41 della Costituzione, oltre alla violazione dell’art. 117 della Costituzione in relazione all’art. 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali.
P.Q.M.
Visto l’art. 134 della Costituzione e l’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335 e dell’art. 18, comma 12, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, per come interpretato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità (c.d. diritto vivente), per violazione dell’art. 3, anche in relazione all’art. 118, comma 4, della Costituzione, nonché dell’art. 23, anche in relazione all’art. 41 della Costituzione, oltre alla violazione dell’art. 117 della Costituzione in relazione all’art. 1 del protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali;
Dispone la sospensione del giudizio;
Ordina alla Cancelleria di notificare la presente ordinanza alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei ministri, nonché di comunicarla ai presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica;
Ordina alla Cancelleria di trasmettere gli atti alla Corte costituzionale, unitamente alla prova delle avvenute notificazioni e comunicazioni.
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