TRIBUNALE DI ROMA – Ordinanza 03 gennaio 2020, n. 61
Disciplina del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti – Tutela per ipotesi specificate di vizi formali e procedurali del licenziamento – Meccanismo di determinazione dell’indennità spettante al lavoratore. – D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, art. 4.
Osserva
Il giudicante, all’esito dell’istruttoria svolta, ritiene, allo stato quanto segue per quanto attiene alla sollevanda questione.
In punto di rilevanza.
Dagli atti di causa (contratto di lavoro, Unilav, buste paga) risulta che la ricorrente ha lavorato alle dipendenze della I. come socia lavoratrice dipendente dal 13 luglio 2017 al 31 agosto 2017, quando è stata licenziata per asserita giusta causa, come aiuto cuoca. Il rapporto era a tempo determinato ed avrebbe dovuto scadere il 30 settembre 2017.
Malgrado la I. non abbia propriamente documentato l’instaurazione del rapporto sociale, il contratto individuale di lavoro, sottoscritto dalla ricorrente, dava atto del fatto, che risulta così confessato, che questa aveva presentato il 6 luglio 2017 domanda di ammissione a socio e versato la quota sociale, il che conferma il carattere socio-lavorativo della collaborazione.
Le allegazioni e le offerte di prova della ricorrente volte a dimostrare la simulazione del rapporto sociale non appaiono idonee allo scopo, posto che in un rapporto durato meno di due mesi è del tutto naturale che la ricorrente non abbia mai partecipato ad un’assemblea e non vi sia stata convocata e non abbia ricevuto rendiconti. Peraltro la questione appare irrilevante perché dall’entrata in vigore della legge n. 142/2001, nel rapporto socio-lavorativo dipendente, il rapporto di lavoro, ancorché collegato al rapporto sociale, non costituisce esecuzione di questo, ma forma oggetto di un rapporto «ulteriore» (art. 1, comma 3); gode dei diritti fondamentali del lavoro dipendente (art. 3) peraltro nella specie riconosciuti dal contratto; ed è protetto contro il licenziamento illegittimo, malgrado con talune limitazioni riguardo alla tutela reale (art. 2, comma 1).
E’ documentato che in epoca precedente la ricorrente aveva ricevuto da una società denominata S.S., avente sede a via C. n. 6, il 9 giugno 2017, la somma di euro 315,00 lordi per prestazione occasionale di allestimento locali resa nel mese di aprile 2017; ed il 10 luglio 2017 la somma di euro 960,00 lordi per prestazione occasionate di allestimento locali resa nel mese di giugno 2017.
Il teste A.M., compagno di lunga data della ricorrente, che ha fatto causa all’I. ed ha conciliato, ha riferito (in sintesi): di aver lavorato alle dipendenze della I. per circa due mesi dal luglio all’agosto del 2017, quando è stato licenziato I. a costei; che la ricorrente lavorava già nella casa di riposo di via C., ed a suo dire, da fine marzo; di aver fatto il colloquio preassuntivo con la A., che sembrava operare come direttrice della struttura, e che peraltro, di lì a poco, uscì di scena, perché le subentrò il figlio D.I.; che la ricorrente faceva la cuoca alla pari con lui ed il figlio R.A.
Il teste S.A., apparentemente imparziale, ha riferito (in sintesi): di aver reso per la S. S.r.l. una prestazione occasionale di circa venti giorni nell’aprile 2017, a via C., in amministrazione; di essere poi stata assunta dalla medesima società ai primi di maggio a tempo parziale, sempre come impiegata amministrativa; e di aver lavorato per essa fino a giugno; di essere quindi stata assunta dalla I. il 1° luglio 2017, sempre come impiegata amministrativa, e di lavorarci tuttora; che nei primi due rapporti si relazionò con la A. che sembrava fare da direttrice, e gestiva allora la struttura I. a tale R.; che quando lei arrivò la ricorrente già lavorava nella struttura, in cucina, facendo da aiuto al marito che faceva il cuoco; e peraltro non in modo continuativo, anche perché faceva anche un altro lavoro; ad un certo punto, dal 1° agosto 2017, R. e A., che lavoravano per la S. S.r.l., uscirono di scena, ed il D.I., per conto della S. s.r.l.s., subentrò loro nella gestione della casa di riposo; ma nel frattempo tutti i dipendenti si erano associati nella cooperativa I.; che la ricorrente, all’inizio, in cui figurava come collaboratrice occasionale, lavorava per la S. S.r.l.
Il teste R. H. J.A., figlio della ricorrente, che ha fatto causa alla I. ed ha conciliato, ha riferito (in sintesi):
di aver lavorato alle dipendenze della I., in regola, dal 1° luglio 2017 al 30 agosto 2017, come aiuto cuoco; che sua madre lavorava lì da aprile; che quando lavorarono I. sua madre faceva l’aiuto cuoca; ma prima faceva la cuoca, stando da sola; che nel periodo in cui lavorarono I. sua madre lavorava sei giorni la settimana, riposando in giorno diverso dalla domenica a settimane alterne, quattro ore il pomeriggio, secondo turni che essi stessi concordavano, con l’A., quale chef, ad avere l’ultima parola; che la casa di cura era gestita a nome S..
Il teste D. S., figlia della A., e dipendente S. dal 2001, quadro, ha riferito (in sintesi): che la S. assunse la gestione della casa di cura di via C. nell’aprile 2017; di aver frequentato la sede in quel mese e nei due successivi; che in quel periodo la ricorrente veniva saltuariamente, e comunque in modo non quotidiano, a dare una mano in cucina a tale C., che faceva la cuoca per la S., che a quell’epoca gestiva tutta la struttura ed anche la cucina; che sua madre era ed è dipendente della S., e si occupa di organizzazione dell’accoglienza; che nel giugno 2017 ci fu una diatriba nella sua famiglia sicché non ci occupò più di quella casa di riposo.
Il teste N. S., dipendente della I. dal novembre 2017 al dicembre 2018 ha riferito (in sintesi): che in quel periodo la casa di riposo era gestita dalla S.S.; che l’aveva ricevuta dal 1° agosto 2017 dalla S. S.r.l.; che dal 2014 al novembre 2017 aveva lavorato alle dipendenze della cooperativa G., che dal luglio al novembre del 2017 prestava servizi in appalto a via C., cui subentrò la I.; che quando, nel luglio 2017, iniziò a frequentare la struttura, vide la ricorrente un paio di volte che aiutava in cucina, dove lavorava C., che faceva la cuoca; che poi la vide lavorare in modo pressochè quotidiano con altro personale di I..
Dalle predette evidenze documentali ed orali appare probabile che prima del luglio 2017 la ricorrente non lavorò né per la I., né per la A., ma per la S. S.r.l., società che gestiva la generalità della struttura, e della quale la A. era una dipendente, presumibilmente con compiti gestori, peraltro I. al R.
Peraltro la ricorrente non ha provato né di essere stata ingaggiata personalmente dalla A., né che fosse questa dirigere il suo lavoro, né che questa l’abbia mai retribuita; mentre v’è prova documentale che la ricorrente, per i mesi di aprile a giugno del 2017, venne pagata dalla S.S.. Anche a presumere che sia stata la A. ad ingaggiare inizialmente la ricorrente, come avvenuto per altri lavoratori escussi a testi, appare evidente che essa agiva quale dipendente della S., visto che era tale società a dirigere la struttura.
Anche se fosse stato dimostrato che, nella prima fase della collaborazione, fosse stata la A. a dirigere in qualche modo il lavoro della ricorrente (e non è), si deve considerare che tutti i soggetti collettivi, come tali, non possono operare che mediante persone fisiche che li rappresentano, sicché il fatto che un lavoratore di una società sia diretto da un dipendente di questa è del tutto normale e non giustifica alcuna attribuzione di datorialità personale, specie ove, come nel caso di specie, una società abbia retribuito in nome proprio nel preteso periodo «in nero» e rilasciato una certificazione dei compensi erogati, palesando il rapporto institorio.
Le prove raccolte paiono però escludere che il rapporto di lavoro tra la ricorrente e la I. sia iniziato il 13 luglio 2017.
I testi S. ed R. hanno dichiarato di essere stati assunti da I. il 1° luglio 2017, il teste A. di averci lavorato per circa due mesi fino al 31 agosto 2018, e gli ultimi due hanno detto di essere stati ingaggiati tramite la ricorrente che già lavorava lì; trattandosi di rapporti dichiarati in regola, la convenuta avrebbe avuto agio a confutare tali affermazioni «ex tabulas»; ed invece non ci sono prove contrarie. Tutto ciò suggerisce la I. prese in appalto la cucina il 1° luglio 2017, data dalla quale, secondo gli ultimi due testi, la ricorrente lavorava come cuoca o aiuto cuoca con orari più o meno regolari e con continuatività quotidiana, cosa che appare conclamare la subordinazione. E’ invero del tutto implausibile che il R. e l’A., ingaggiati dalla I. tramite la H., siano stati assunti prima di lei, o che la ricorrente abbia continuato a lavorare per la S. mentre i suoi colleghi di cucina lavoravano per I..
Si deve quindi allo stato ritenere che tra la ricorrente e la I. è intercorso un rapporto di lavoro subordinato dal 1° luglio 2017 al 31 agosto 2017. Poiché il rapporto appare sorto prima della pattuizione della clausola del termine, sembra doversi concludere che esso sia sorto a tempo indeterminato.
L’eccezione di decadenza sollevata riguardo alla domanda di impugnazione del licenziamento appare infondata a fronte dell’evidenza documentale dell’impugnazione stragiudiziale esperita con lettera del 18 settembre 2017 risultante spedita il 18 settembre 2017 e ricevuta dalla I. il 21 settembre 2017. La nuda deduzione «si contesta la produzione documentale […]», del tutto generica, non ha alcuna capacità confutativa.
Il licenziamento intimato alla ricorrente per motivi disciplinari risulta probabilmente illegittimo perché, in assenza dell’assolvimento, da parte di I., dell’onere di provarne l’esperimento, deve ritenersi affetto dal vizio di totale pretermissione della procedura preliminare prevista dall’art. 7 della legge n. 300/1970, che vale ugualmente per il licenziamento per giusta causa e quello per giustificato motivo soggettivo, ciò che comporta le conseguenze di cui all’art. 4 del decreto legislativo n. 23/2015.
Appena più delicata la questione posta dal fatto che la ricorrente, pur censurando il licenziamento impugnato anche per motivi sostanziali, lo fa in via gradata «Si ribadisce, comunque, che la ricorrente non ha mai posto in essere alcun comportamento tale da ledere la fiducia […] anche perché la sanzione non è comunque proporzionata ai fatti […] in via gradata, il licenziamento per cui è causa deve essere in ogni caso considerato e qualificato illegittimo in quanto privo di giusta causa e/o giustificato motivo […]», conclude sul punto facendo riferimento all’art. 4, che s’applica solo ai vizi formali e procedurali, e non all’art. 3, che sanziona i vizi sostanziali, e, pur prevedendo ugualmente una tutela meramente indennitaria, ne prevede una maggiore.
In linea di principio la domanda è identificata per oggetto e titolo in base a quanto risulta dall’esame complessivo dell’atto, e non necessariamente dalle disposizioni invocate, spettando al giudice, secondo il canone «iura novit curia», la corretta individuazione delle disposizioni applicabili alla fattispecie, sicché di per sé il mancato riferimento all’art. 3 non sarebbe ostativo né all’esame dei motivi di impugnazione di carattere sostanziale, né all’applicazione di detta disposizione.
Tuttavia la domanda, nei termini predetti, costituisce esercizio del potere dispositivo dell’azione. Di conseguenza, poiché l’impugnazione del licenziamento per motivi (causa petendi) sostanziali (assenza nel merito di giusta causa/giustificato motivo) risulta proposta solo nell’espositiva ed in via gradata, l’accoglimento della censura fondata sull’art. 7 assorbe l’altra secondo la volontà della parte, e ne impedisce la disamina.
D’altro canto non necessariamente la proposizione di una subordinata di potenziale maggior valore rispetto alla domanda principale è illogica, potendo rispondere ad un strategia processuale di non affrontare un rischio di soccombenza parziale sul capo di domanda a maggior rischio di mancato accoglimento.
Riguardo all’eccepita applicabilità dell’art. 9, osserva il giudicante che la società convenuta ha espressamente dedotto di non avere il requisito dimensionale, e la ricorrente, oltre e non aver nemmeno allegato il contrario in ricorso, non ha mai contestato quanto allegato dalla convenuta sul punto, sicché l’assenza del requisito dimensionale deve ritenersi pacifica ai sensi dell’art. 115 del codice di procedura civile.
Di conseguenza, sembra debbano applicarsi gli articoli 4 e 9 del decreto legislativo n. 23/2015.
In corso di causa sono avvenuti due eventi normativi:
a) l’entrata in vigore, il 14 luglio 2018, del decreto legislativo n. 87/2018, conv. in legge n. 96/2018, il cui art. 3 ha aumentato il minimo ed il massimo dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 3 del decreto legislativo n. 23/2015 in caso di licenziamento ingiustificato;
b) la sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 riguardo alla parte (l’anzianità di servizio) che, secondo tale disposizione, regolava da sola la determinazione dell’indennità tra il minimo ed il massimo.
L’evento normativo sub a) non s’applica, ad avviso del giudicante, alla fattispecie perché in mancanza di regola temporale specifica s’applica il principio generale di normale irretroattività di cui all’art. 11 delle preleggi, e per regola generale le norme non retroattive che sostituiscono precedenti sanzioni legate a illeciti inerenti a rapporti di diritto sostanziale, o regolano conseguenze di fatti generativi di diritti pregressi, non s’applicano agli illeciti commessi ed ai fatti verificatisi prima della loro entrata in vigore (Cassazione numeri: 3713/75, 5547/77, 5211/78, 10/79, 1184/84, 3914/85).
L’evento normativo sub b), certamente retroattivo per i rapporti pendenti, non sarebbe rilevante, dovendosi applicare l’art. 4, che risulta però esposto alla stessa, o ad almeno analoga obiezione di illegittimità costituzionale.
In punto di non manifesta infondatezza.
Sulla base di quanto premesso, appare allo stato probabile che il licenziamento impugnato vada dichiarato illegittimo, e sanzionato secondo l’art. 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, trattandosi di violazione procedurale ascrivibile all’art. 7 della legge n. 300/1970; mentre non appaiono, allo stato, sussistere i presupposti per l’applicazione degli articoli 2 e 3.
L’art. 4 cit. prevede che «Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione […] della procedura di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto».
La disposizione mutua dall’art. 3 dello stesso decreto un criterio di commisurazione dell’indennità automaticamente legato all’anzianità di servizio. Nel caso di specie, pare allo stato che l’anzianità di servizio della H. fosse di due mesi secondo l’art. 8 del decreto, sicché le spetterebbe una indennità commisurata al minimo di legge, che nel caso di specie sarebbe, ai sensi dell’art. 9, una mensilità, trattandosi di piccola impresa.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 194 del 2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015, limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».
In estrema sintesi, la Corte, a fondamento di tale decisione, ha ritenuto che:
«La qualificazione come “indennità” dell’obbligazione prevista dall’art. 3, comma 1, non ne esclude la natura di rimedio risarcitorio […]»; posto che il licenziamento, anche se efficace, «costituisce pur sempre un atto illecito, essendo adottato in violazione della preesistente non modificata norma imperativa»;
l’ancoramento dell’indennità ad un parametro forfettizzato rigido «contrasta, anzitutto, con il principio di uguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse»;
posto che «[…] il pregiudizio prodotto, nei vari casi, del licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori.
L’anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è dunque solo uno dei tanti»;
«In una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro della anzianità di servizio. Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice […]», ciò che «[…] risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito […]»;
il predetto criterio si pone inoltre in contrasto col principio di ragionevolezza «sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore […] e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente»;
«[…] la rigida dipendenza dell’aumento dell’indennità dalla sola crescita dell’anzianità di servizio mostra la sua incongruenza soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata […]»;
poiché una tutela così consegnata «[…] non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una siffatta tutela […] non può dirsi rispettosa (nemmeno) degli articoli 4, primo comma, e 35, primo comma, della Costituzione, che tale interesse, appunto, proteggono».
Al giudicante sembra che identiche o almeno analoghe ragioni valgano a far dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 4.
L’unica differenza tra le due fattispecie attiene al fatto che l’art. 3 disciplina il licenziamento ingiustificato per motivi sostanziali, mentre l’art. 4 quello reso illegittimo dalla violazione di regole di carattere formale e procedurale.
La differenza non sembra incidere in modo significativo sulla non manifesta infondatezza della questione posto che:
a) anche l’art. 7 della legge n. 300/1970 è una disposizione imperativa, la cui violazione integra dunque, secondo l’insegnamento della Corte, illecito fonte di danno da risarcire in modo anche formalmente indennitario, ma necessariamente «adeguato e personalizzato»;
b) in tale ottica, pare valere negli stessi termini il principio che impone che l’indennità (risarcitoria), sia ancorata ad una pluralità di fattori di correlazione al danno sofferto, e non solo all’anzianità di servizio;
c) il parametramento «rigido e fisso» dell’indennità all’anzianità di servizio, specie nei casi, quale quello di specie, in cui questa è assai modesta, non pare fornire una adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente (o comunque in violazione di legge), né garantisce un adeguato ristoro al pregiudizio concretamente arrecato.
La portata della distinzione tra ingiustificatezza sostanziale ed illegittimità formale/procedurale, anche se già invalsa nel regime di cui all’art. 18 della legge n. 300/1970 c.m. dalla legge n. 92/2012, non pare peraltro poter essere valorizzata oltre una certa misura in rapporto ai principi fondamentali, posto che la previsione di una procedura preventiva di garanzia posta dall’art. 7 della legge n. 300/1970, non a caso inserita nel titolo primo della legge, intitolato «Della libertà e dignità del lavoratore», lungi dal porsi come mera prescrizione di forma, assolve ad una funzione di protezione di Costituzione 41, comma 2 che, seppure non costituzionalmente imposta (Corte costituzionale n. 204/1982), anticipa a tale scopo, tenuto conto del fatto che il datore irroga una sanzione, il rispetto del principio di civiltà del cd. «audiatur et altera pars» (arg. ex Corte costituzionale n. 204/1982; n. 220/1995).
La questione peraltro non sembra poter esser risolta in via interpretativa, neppure quella della cd. «interpretazione adeguatrice» perché:
a) l’art. 4 è assolutamente inequivoco, nel suo tenore letterale, nel parametrare l’indennità alla sola anzianità di servizio;
b) non appare possibile escludere che la diversità tra le due fattispecie legittimi l’attuale art. 4, o richieda qualche altra forma di adeguamento costituzionale.
A tale riguardo, appare anche rilevante osservare che nel sistema previgente di cui all’art. 18 della legge n. 300/1970 c.m. della legge n. 92/2012, nell’ambito della cd. tutela indennitaria, la commisurazione dipendeva, in caso di licenziamento ingiustificato per ragioni sostanziali, oltre che dall’anzianità di servizio, dal numero di dipendenti occupati, dalle dimensioni dell’attività economica, dal comportamento e della condizioni delle parti (comma 5), mentre in caso di violazione formale-procedurale dipendeva dalla gravità della stessa (comma 6), così in sostanza già in apparenza prescindendo da fattori muniti di un nesso apprezzabile col danno sofferto dal lavoratore, come invece nel regime di cui all’art. 8 della legge n. 604/1966, al quale il legislatore si era ispirato nel riscrivere l’art. 18, comma 5.
Ad avviso del giudicante, per le ragioni già sopra svolte, il carattere formale-procedurale della violazione non toglie nulla al fatto che il licenziamento intimato in violazione dell’art. 4 integra un illecito che deve dar luogo ad un risarcimento «adeguato e personalizzato», ancorché forfettizzato, secondo la stessa logica che pare reggere Corte costituzionale n. 194/2018. D’altro canto, la stessa commisurazione dell’indennità all’anzianità di servizio, e quindi ad un fattore riconosciuto da Corte costituzionale n. 194/2018 come parametrico del danno sofferto, operata dall’art. 4, accoglie tale impostazione, sebbene in modo del quale appare evidente l’insufficienza.
Peraltro, a ragionare altrimenti, il parametramento «rigido e fisso» dell’indennità all’anzianità di servizio, piuttosto che, al limite, alla gravità della violazione, appare comunque integrare violazione del principio di uguaglianza/ragionevolezza», sanzionando in modo uguale violazioni non solo produttive di danni differenti, ma di gravità che possono essere, a loro volta, del tutto differenti.
La rimessione dello scrutinio alla Corte appare resa particolarmente ineludibile in ragione del fatto che questa, nella sentenza n. 194/2018, dopo aver verificato che la questione sollevata sull’art. 4 non era delibabile per difetto del requisito di rilevanza nel giudizio «a quo», non ha ritenuto di esercitare il potere ad essa conferito dall’art. 27 della legge n. 87/1953, di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 «per derivazione».
Appare quindi anche non manifestamente infondata, in rapporto agli articoli 3, 4, primo comma, e 35, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».
P.Q.M.
Visto l’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante, e non manifestamente infondata, con riguardo agli articoli 3, 4, comma 1, e 35, comma 1, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio»;
Ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso;
Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri, e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Possono essere interessanti anche le seguenti pubblicazioni:
- CORTE DI APPELLO DI NAPOLI - Ordinanza 18 settembre 2019 - Disciplina del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti
- Corte costituzionale sentenza n. 22 depositata il 22 febbraio 2024 - Illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele…
- CORTE COSTITUZIONALE - Sentenza 22 luglio 2022, n. 183 - Inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 27 luglio 2022, n. 25301 - Per i Consorzi di bonifica siciliani, sulla base della normativa regionale, vi è l’impossibilità giuridica di far luogo alla conversione dei rapporti con termine illegittimo in rapporti a tempo…
- CORTE di CASSAZIONE - Ordinanza n. 1065 depositata il 10 gennaio 2024 - A parte il caso di successione di contratti aventi ad oggetto profili e mansioni differenti, si può avere «soluzione di continuità» soltanto quando tra i diversi contratti a…
- Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza n. 36197 depositata il 28 dicembre 2023 - La prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato decorre sempre – tanto in caso di rapporto a tempo indeterminato, tanto…
RICERCA NEL SITO
NEWSLETTER
ARTICOLI RECENTI
- Le liberalità diverse dalle donazioni non sono sog
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 7442 depositata…
- Notifica nulla se il messo notificatore o l’
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 5818 deposi…
- Le clausole vessatorie sono valide solo se vi è ap
La Corte di Cassazione, sezione II, con l’ordinanza n. 32731 depositata il…
- Il dipendente dimissionario non ha diritto all’ind
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 6782 depositata…
- L’indennità sostitutiva della mensa, non avendo na
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 7181 depositata…