Tribunale di Roma sentenza n. 81 depositata il 1° febbraio 2018
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – DIRITTI E DOVERI DELLE PARTI – IN GENERE – LIMITI ALLO “IUS VARIANDI” – FINALITA’ – AMBITO DI RILEVANZA – TRASFERIMENTO NELL’AMBITO DELLO STESSO COMUNE DA UN’UNITA’ PRODUTTIVA AD UN’ALTRA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – RAGIONI DELLA DECISIONE
Con ricorso telematico pervenuto il 30/12/2016 S.A. e S.I. convenivano qui in giudizio la N.S. Cooperativa Sociale Onlus chiedendo dichiararsi nullo/inefficace o annullarsi il Provv. del 24 giugno 2016 col quale erano state trasferite, per pretesa incompatibilità ambientale, dalla C.D. per anziani in R., rispettivamente, la S., presso l’Ospedale Israelitico di Roma, e la S. presso l’Ospedale Santo Spirito, sempre in Roma.
A fondamento della domanda esponevano in fatto (in sintesi): di lavorare dal 2005 alle dipendenze della convenuta come socie lavoratrici con mansione di operatrici socio-sanitarie;
che fino al trasferimento avevano prestato la propria attività presso la C.D. per anziani in R.;
che nel dicembre 2015 la convenuta, adducendo l’andamento diseconomico dell’appalto in questione, aveva chiesto ed ottenuto una riduzione generalizzata dei parametri orari da 38 a 33 ore settimanali;
che tale modifica aveva aggravato la già onerosa condizione lavorativa degli OSS, ciascuno dei quali doveva mediamente darsi carico di 20 ospiti su due piani, inducendoli compatti a chiedere alcune misure di alleviamento del lavoro, tra le quali quella di introdurre a loro supporto un infermiere ed un sollevatore;
che sebbene tali ultime misure fossero state accolte, la compatta solidarietà degli OSS aveva infastidito la società, inducendo la stessa a dividerli con un pretesto, offerto dalla pretese lamentele dei figli di un paziente (Gi.Sa.), utilizzato dal capo del personale, il 17/6/2016, a fondamento di una minaccia di chiusura e licenziamento in massa, seguita da una convocazione, per il 24/6/2016, di esse ricorrenti e del loro collega F. V., che erano stati ricevuti singolarmente e separatamente nonché senza possibilità di assistenza, dopo di che ad esse ricorrenti era stato sottoposto per la firma per accettazione un verbale predisposto per il loro trasferimento per incompatibilità ambientale, quale unica misura idonea a conservare loro il posto di lavoro;
che esse avevano firmato il verbale solo “”per presa visione”;
che nel luglio 2016 più di un’ospite della Casa di Riposo aveva promosso la sottoscrizione di lettere rivolte al capo del personale, con le quali si lamentava l’allontanamento delle operatrici, e si rappresentava il pieno apprezzamento della clientela nei confronti delle stesse;
che per tutta risposta la Cooperativa, con lettera del 22/7/2016, aveva loro contestato illecito disciplinare, adducendo che, da accertamenti esperiti, sarebbe risultato che tali missive sarebbero state da loro ottenute con malizia, ora facendo firmare fogli in bianco asserendo intendere ottenere referenze per un successivo impiego o conferma, ora carpendo la sottoscrizione da ospiti che non avevano capito il contenuto della scrittura, ora invitando un ospite a firmare anche per i figli; mentre in un caso la firmataria era incapace di firmarsi e presentava difficoltà cognitive; per poi infliggere loro, con lettera del 8/8/2016, la sanzione disciplina della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un giorno;
che la S. non aveva mai preso servizio presso l’Ospedale Israelitico per un infortunio, esitato, il 5/9/2016, in visita medica idoneativa, che l’aveva trovata idonea alle mansioni con alcune limitazioni, a fronte delle quali la convenuta l’aveva nuovamente convocata, proponendole in alternativa altre tre destinazioni lavorative, una delle quali (presso l’Ospedale P.) era stata da lei accettata con riserva della rivendicazione di tornare nella sede “a quo”;
tanto premesso in fatto deducevano in diritto (in sintesi):
a) che il trasferimento non era sorretto da alcuna ragione tecnica, organizzativa e produttiva (sub specie di incompatibilità ambientale), mai peraltro esplicitata, in violazione dell’art. 2103 c.c.;
b) che esso era piuttosto animato da motivo ritorsivo illecito, da rinvenirsi nelle rivendicazioni avanzate nel dicembre/gennaio precedenti, anche alla luce delle vessazioni successive; ovvero aveva natura disciplinare, nel quale caso avrebbe dovuto essere preceduto dalla procedura di garanzia di cui all’art. 7 della L. n. 300 del 1970;
c) di aver subito un danno non patrimoniale da lesione dell’immagine di persone serie e dedite al lavoro.
Resisteva la COOPERATIVA SOCIALE N.S. Onlus chiedendo dichiararsi inammissibile e comunque respingersi l’avverso ricorso, perché (in sintesi): il ricorso era tardivo ai sensi dell’art. 32 della L. n. 183 del 2010; non v’era stato trasferimento in senso tecnico posto che né la sede “a quo” né quelle “ad quem” costituivano unità produttive ai sensi dell’art. 2103 c.c.; per la S., la materia del contendere era cessata in ragione del consenso da essa prestato al trasferimento successivo all’ospedale P.; a seguito dell’accordo sulla riduzione di orario le ricorrenti avevano preso a relazionarsi con gli ospiti della struttura, con i colleghi, la coordinatrice e l’infermiere in modo brusco e sgarbato, cosa che aveva intimorito alcuni ospiti; a volte avevano omesso di riferire sulle richieste degli ospiti, causando disservizio; contestavano in continuazione le disposizioni loro rivolte dal direttore operativo, dalle coordinatrici e dall’infermiera in ragione della propria pretesa capacità di sapere cosa fare dopo molti anni di servizio, generando disagio anche presso i colleghi, che si erano a loro volta lamentati della confusione generata dal loro modo di fare; in definitiva, esse avevano generato nel luogo di lavoro una situazione di conflittualità lesiva dell’efficienza dell’organizzazione lavorativa; a riprova della necessità organizzativa della misura, a partire dal loro “trasferimento” non vi erano più stati disservizi nè lamentele; non v’era comunque prova di danno veruno.
La causa, istruita per documenti e mezzi orali, è stata decisa come da dispositivo.
Le domande attoree appaiono infondate.
L’eccezione di decadenza sollevata dalla società convenuta appare priva di fondamento.
I trasferimenti impugnati risultano essere stati disposti il 24/6/2016, e tempestivamente impugnati per via stragiudiziale con lettera del 4/7/2016 inviata e ricevuta in pari data via fax e via pec, ciò che risulta documentato ed incontroverso.
La convenuta assume che il ricorso sarebbe stato presentato oltre il successivo termine di 180 giorni prescritto dall’art. 6 della L. n. 604 del 1966 c.m. dall’art. 32 della L. n. 183 del 2010.
L’assunto appare infondato giacchè:
a) il termine di efficacia dell’impugnazione stragiudiziale nella specie applicabile non è di 180, ma di 270 giorni. Al trasferimento, contemplato dall’art. 32, co. 3, lett. c), s’applica il primo comma, che prevede appunto un termine di 270 giorni, e non il termine particolare che era stato previsto dal comma 3, lett. a), che riguardava i licenziamenti che presuppongono questioni di qualificazione del rapporto o impugnazioni di clausole del termine;
b) in ogni caso, il ricorso risulta pervenuto il 30/12/2016, e q uindi il 179 giorno dopo l’impugnazione stragiudiziale.
Priva di merito appare l’eccezione di cessata materia del contendere sollevata dalla convenuta riguardo alla ricorrente S., risultando chiaramente dal verbale del 14/9/2016 che costei accettò il successivo trasferimento all’Ospedale P. di Roma perché al suo impiego all’Ospedale Israelitico ostavano ormai le limitazioni di idoneità alla mansione rilevate all’esame del 5/9/2016, e con espressa insistenza, rifiutata dalla società, per la sua restituzione alla C.D., ove, a suo dire – ma senza contestazioni avversarie – sussistevano ugualmente le condizioni necessarie per lo svolgimento delle sua mansioni. Tutto ciò rende evidente che la S., che aveva già impugnato stragiudizialmente il precedente trasferimento, non rinunciò affatto all’impugnazione, né abdicò mai alla sua pretesa ad essere restituita alla sede originaria, limitandosi, in pendenza della lite, ad accettare provvisoriamente, e condizionatamente alla validità del primo trasferimento, una diversa sistemazione provvisoria, visto che nella originaria sede “ad quem” non poteva più lavorare per ragioni afferenti alla sua integrità fisica.
Infondata appare altresì l’eccezione fondata sull’asserita impossibilità di ravvisare nelle sedi “a qua” ed “ad quas” delle unità produttive nel senso imposto dall’art. 2103 c.c..
L’eccezione si fonda, in diritto, sull’aspetto funzionalistico dell’insegnamento di legittimità che vuole che, per esservi unità produttiva, l’articolazione aziendale sia autonoma nel senso di avere, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l’attività dell’impresa medesima, della quale costituisca una componente organizzativa connotata da indipendenza tecnica ed amministrativa, tali che in essa si possa concludere una frazione dell’attività produttiva aziendale (Cass. 20600/2014, 11660/2003).
La convenuta, valorizzando isolatamente il riferimento della corrente massima all’indipendenza tecnico-amministrativa, sostiene che nessuna delle case di cura presso le quali essa presta servizi di assistenza socio-sanitaria costituisca unità produttiva, perché tutte le funzioni di tipo amministrativo, da quelle decisionali, a quelle preposte ai servizi di fornitura e contabilità, a quelle di gestione dei rapporti di lavoro (rilevazione di presenze, ferie, permessi) sarebbero accentrate presso la sede legale; e che anche sul piano funzionale, l’attività farebbe capo a livello nazionale ad una rete di responsabili recantisi periodicamente nei vari appalti.
Sebbene tali assunti abbiano trovato sostanziale conferma nelle deposizioni rese dai testi M., G., O. e M., una corretta lettura dell’insegnamento di legittimità sopra richiamato deve, ad avviso del giudicante, portare a riconoscere che le unità in questione, a partire dalla C.D. per anziani in R., sono unità produttive agli effetti dell’art. 2103 c.c..
Una corretta comprensione della corrente teoria funzionalistica dell’unità produttiva deve muovere dal rilievo, posto per primo da Cass. 11660/2003 e da ultimo ribadito da Cass. 20600/2014, che l’art. 2103 c.c. mira a proteggere la dignità del prestatore e l’insieme delle relazioni personali che lo legano ad un determinato contesto produttivo. Partendo da questa premessa, le suindicate sentenze valorizzano l’autonomia produttiva dell’unità allo scopo esplicito, opposto a quello oggi propugnato dalla convenuta, di escludere che la consistenza di unità produttiva possa negarsi per il mero fatto che lo spostamento avvenga in un ambito geografico ristretto, ed in particolare all’interno dello stesso Comune (in tal senso anche Cass. 6117/2005).
Sul versante opposto, la nozione letterale di “unità produttiva” impone certamente di ritenere che lo spostamento avvenga da e verso contesti idonei, sotto il profilo funzionale e finalistico, ad esplicare, in tutto o in parte, l’attività di produzione dell’impresa (Cass. 6117/2005), esaurendone per intero il ciclo relativo ad una frazione essenziale, dovendosi escludere la riferibilità del termine ad articolazioni aziendali che, sebbene munite di una certa autonomia amministrativa, siano destinate a scopi interamente strumentali o a funzioni ausiliarie (Cass. 11103/2006, 19837/2004). Tuttavia ciò non sembra poter implicare, senza che la pur ribadita finalità della disposizione risulti aggirata, che il corrente riferimento all'”indipendenza tecnica amministrativa” possa essere colto separatamente alla dizione “tali che in essa si possa concludere una frazione dell’attività produttiva aziendale” (Cass. 11660/2003 e 20600/2014).
Quel che la Corte sembra voler dire (e peraltro solo in tal senso essa potrebbe da questo giudice essere seguita), è che il contesto nel quale opera la protezione legale, a misura in cui non si voglia dare alcuna rilevanza alla consistenza spaziale dello spostamento (cosa sulla quale questo giudice, forte di copiosa dottrina, avrebbe da ridire in senso opposto, ossia nel senso che spostamenti spazialmente consistenti dovrebbero rilevare come tali, non dipendendo necessariamente la loro capacità lesiva della dignità e delle relazioni personali del prestatore dall’autonomia funzionale del contesto), richiede che l’articolazione abbia quel tanto di autonomia organizzativa e funzionale necessario e sufficiente a fornire un servizio produttivo finale, e non consista, invece, in un mero reparto o ufficio o altro tipo di articolazione a carattere meramente strumentale o ausiliario; fattispecie, quest’ultima, difficilmente riferibile alla nozione letterale di “unità produttiva”, e l’estensione alla quale della tutela legale eccederebbe, certo nei casi di spostamento a brevissima distanza o nello stesso edificio, ogni plausibile finalità dell’art. 2103 c.c..
In buona sostanza, l’unità produttiva è tale se produce nel suo complesso un autonomo risultato finale, non essendo allo scopo necessario che essa sia tanto “indipendente” da risolversi in un ramo d’azienda.
Nella specie, l’esame della memoria difensiva e della prova orale rende evidente che la “C.D. per anziani” è una struttura residenziale assistenziale per anziani in buona parte disabili, nella quale la convenuta svolgeva e svolge in appalto (capo 2 della memoria difensiva) il servizio di assistenza socio-sanitaria, mediante una apposita organizzazione produttiva composta, oltre che dagli operatori socio-sanitari, da un direttore operativo, due coordinatrici ed un’infermiera (capo 10). Tale complesso organizzativo non forniva servizi strumentali o ausiliari, ma eseguiva materialmente l’appalto, assolvendo con pienezza e valenza finale a quella particolare frazione della più vasta attività produttiva della convenuta, che è più vasta sol perché vi sono altri appalti, o altri servizi in altri luoghi, parimenti organizzati, come reso evidente dalla deposizione del teste G., qualificatasi coordinatrice dal 2004 del servizio reso nell’ospedale P.
D’altronde la convenuta non nega che, come nella C.D., ciascun appalto abbia un proprio direttore operativo, propri coordinatori, ed un proprio nucleo di operatori, limitandosi ad appellarsi al fatto che al di sopra dei nuclei organizzativi di ciascun appalto operino sempre funzioni centralizzate, sia a livello di coordinamento dei servizi (responsabili), sia a livello delle decisioni fondamentali dell’impresa, sia al livello delle funzioni ausiliarie, quelli quelle di fornitura, contrattazione, e contabili.
Poiché nessuna di tali funzioni ha una autonomia di risultato produttivo atta ad attribuire ad essa la nozione di unità produttiva, se ne dovrebbe evincere, secondo l’implausibile esegesi che la convenuta dà all’insegnamento di legittimità illustrato, che tutti gli OSS di una Onlus che ha appalti in tutta Italia sono trasferibili in tutta Italia senza la protezione dell’art. 2103 c.c., ciò che non potrebbe non suonare aberrante.
L’autonomia funzionale della C.D. trova peraltro ulteriore conferma dal fatto, pacifico e documentato, che per detto esclusivo ambito fosse stata indetta il 11/12/2015 una riunione volta a far fronte alle specifiche esigenze aziendali di espletamento di quello specifico servizio, e che esitò in un accordo di riduzione di orario limitato ad alcuni lavoratori di quella unità. Cosa che tra l’altro dimostra che nella percezione della società aveva rilevanza autonoma anche il particolare rapporto costo-servizio di quello specifico appalto.
Nel merito, le domande attoree appaiono infondate.
Merita premettere che la cd. incompatibilità aziendale costituisce una delle ragioni organizzative e produttive per le quali il datore di lavoro può disporre un trasferimento, e ricorre quando la permanenza di un lavoratore in una determinata unità produttiva nuoccia al buon andamento dell’ufficio (Cass. 2143/2017), ciò che può tipicamente avvenire quando si verifichi una situazione di tensione personale o contrasto con colleghi o superiori atta a produrre rilevanti ripercussioni sul regolare svolgimento dell’attività lavorativa (Cass. 24775/2013).
In tali casi è del pari condivisibile insegnamento di legittimità che il trasferimento non assume una valenza disciplinare neppure se i comportamenti posti a suo fondamento integrino virtualmente violazione degli obblighi discendenti dal rapporto, posto che in tali casi il datore di lavoro è libero di far ricorso all’uno o all’altro mezzo (Cass. 5339/87, 9276/87, 10252/95).
S’applica, quindi, il criterio per cui il controllo giurisdizionale deve attenersi alla corrispondenza del provvedimento alle finalità tipiche dell’impresa (Cass. 4265/2007, 14875/2011), oltre che al rispetto del canone generale di buona fede.
Decisivi, a sostegno della legittimità della decisione aziendale, appaiono le emergenze probatorie inerenti il rapporto conflittuale e non collaborativo assunto dalle ricorrenti nei confronti della infermiera O., della coordinatrice V., e del direttore operativo M..
Ed invero, per converso, quelle inerenti l’atteggiamento delle ricorrenti nei confronti degli ospiti della struttura, oltre ad aver trovato esito, ad avviso del giudicante, insanabilmente contraddittorio, sia sul piano documentale che su quello della prova orale, appaiono intrinsecamente inidonee a giustificare un trasferimento per incompatibilità ambientale, riuscendo impossibile comprendere in qual modo il problema pretesamente posto all’organizzazione aziendale dal contegno brusco e sgarbato tenuto dalle ricorrenti nei confronti degli ospiti della C.D., avrebbe potuto trovare acconcia soluzione nel trasferimento delle medesime con pari funzioni alla stessa struttura, senza che si dia contezza del particolare nesso tra detti ospiti ed il comportamento addebitato, senza il quale l’attitudine delle ricorrenti a comportarsi in modo non corretto nei confronti degli assistiti si sarebbe solo trasferito alla struttura di destinazione, senza trovare per questo soluzione alcuna.
Per converso, dalla prova orale pare emergere una prova credibile del fatto che le ricorrenti, dopo l’accordo sulla riduzione di orario del dicembre 2015, e l’ introduzione in sede della figura infermieristica, avessero assunto un contegno conflittuale e non collaborativo nei confronti di collaboratori più qualificati o di preposti.
Il teste O. C., che lavorò nel sito dal marzo al maggio 2016 come infermiera a partita Iva, ha confermato che le ricorrenti avevano con lei “messo un muro, rifiutavano proprio il mio ruolo, se io dicevo loro di fare qualcosa loro facevano finta che io non c’ero, mi ignoravano proprio, si che non riuscivamo a collaborare”; ed aggiunto di averne solo intuito il motivo quando, già in occasione della sua presentazione, esse avevano manifestato “il loro disaccordo dicendo che erano tanti anni che lavoravano li e non doveva essere l’ultima arrivata a dire come dovevano fare il loro lavoro, alzando anche parecchio la voce”.
In conclusionale la difesa attorea ha contestato l’attendibilità della O. sostenendo che erano stati proprio gli OSS della struttura a chiedere l’inserimento in essa di un infermiere, non essendo loro compito preparare le medicine. E per vero, tale affermazione, contenuta ai capi 6) e 7) del ricorso, non è stata contestata in memoria difensiva.
Tuttavia il rilievo non appare idoneo a screditare il teste, apparentemente munito di attendibilità oggettiva (parlando sul punto di fatti di conoscenza diretta) e soggettiva (per la sua qualità di collaboratore autonomo cessato) se si considera che il motivo del “disaccordo”, per come motivato secondo quanto riferito dal teste, non atteneva alla presenza della O. nella struttura, quanto ad un suo implicito o esplicito accreditamento in una posizione di sovraordinazione, atta a consentirle di dire come (gli OSS) “dovessero fare il loro lavoro”.
Anche la prima parte della deposizione, con la quale la O. mette in evidenza che le ricorrenti “rifiutavano il mio ruolo, se io dicevo loro di fare qualcosa mi ignoravano proprio (omissis…)” appare idonea a chiarire l’apparente contraddizione, nel senso che le ricorrenti, ben contente di non dover più preparare le medicine e più in generale di svolgere mansioni infermieristiche, rifiutavano invece di subire dalla O., sulla mera base della loro esperienza di lavoro, qualunque forma di direzione/coordinamento, cosa certo atta a generare disservizio, posto che, se la posizione formale della O. non poteva essere quella di un vero e proprio preposto gerarchico, appare di intuitiva evidenza che l’efficiente operato in una struttura sanitaria di un infermiere (certo non messo lì solo per preparare le medicine) e di un “corpo” di operatori socio-sanitari, lungi dal potersi determinare per totale autonomia e separazione di competenze, non può prescindere da un coordinamento tra gli aspetti di assistenza tecnico-sanitari e quelli di assistenza materiale, nei quali i secondi non possono che restare funzionalmente subordinati ai primi. Tanto per fare un esempio, se si vuole, banale, non è pensabile secondo una logica di buon funzionamento di una struttura residenziale anche sanitaria, che l’infermiere che a una certa ora debba fare una iniezione o praticare una flebo, non possa dare una disposizione acconcia all’OSS che contemporaneamente, invece di preparare il paziente, pretenda di rifare il letto o di somministrargli un pasto. Il teste O. ha altresì confermato che le ricorrenti erano continuamente aduse a contestare le disposizioni ricevute dal direttore operativo M. A. e dalla coordinatrice V., circostanza atta a superare l’obiezione che al momento del trasferimento (24 giugno) la O. avesse già abbandonato la struttura (nel maggio precedente).
Il teste M. A. ha a sua volta confermato che la ricorrenti contestavano sistematicamente le disposizioni loro impartite, anche da lui stesso, sul lavoro da svolgere, ed in particolare si relazionavano in modo sgarbato con la O., sostenendo anche apertamente che “gli ultimi arrivati pretendono di sapere come dobbiamo fare il nostro lavoro e non si devono permettere” (conferma dell’ultima parte del capo 10) della memoria difensiva).
È ancora documentato in atti che con lettera del 15/6/2016 la coordinatrice V. scrisse al direttore del personale M.P. Trotta chiedendole di allontanare le ricorrenti dalla struttura per aver instaurato un vero e proprio conflitto collaborativo ed organizzativo con le altre figure interne, ed in particolare con lei stessa e la infermiera.
Di fronte a tale impianto probatorio, plausibile anche per la credibilità delle motivazioni (insofferenza per un assetto organizzativo che aveva presumibilmente ridotto l’ambito di autonomia delle lavoratrici, in un più ampio contesto di insoddisfazione per le condizioni di lavoro) le deposizioni di segno contrario rese dai testi B.S., M. e M., secondo i quali le ricorrenti non tenevano comportamenti non collaborativi o quantomeno non lo hanno mai notato, appaiono generiche e comunque passibili di essere semplicemente considerate non informate.
L’affermazione del teste B.S. di aver ricevuto dalla V. la confidenza di essere stata costretta dai vertici aziendali ad allontanare le ricorrenti, F.V., M.M. e tale Ol. appare irrilevante, controproducente ed implausibile.
Implausibile, perchè dagli atti e dai capi 8 e segg. del ricorso emerge evidentemente che la V. non allontanò proprio nessuno, presumibilmente non avendone neppure il potere, limitandosi a chiedere l’allontanamento della ricorrenti con la lettera del 16 giugno, dopo di che, il giorno successivo, secondo quanto si scrive ai capi 8 e segg., sarebbero stati superiori gerarchici della stessa (il Presidente, il direttore del personale) a minacciare licenziamenti per le doglianze di ospiti pretesamente ricevute dal M.; e poi lo stesso direttore del personale Trotta, con l’assistenza di un avvocato, a far redigere e poi sottoscrivere il verbale di trasferimento.
Irrilevante, perché il fatto che la decisione di allontanare le ricorrenti sia stata assunta dalla V. o (ben più plausibilmente) da altri sopra di lei (anche a seguito del rapporto di questa), nulla muta riguardo alla riferibilità della decisione all’impresa.
Controproducente, oltre che ulteriormente implausibile, perché anche ad interpretare l’episodio nell’unico modo munito di senso, ossia nel senso che i vertici aziendali avrebbe costretto la V. ad accusare falsamente le ricorrenti di creare disservizio in azienda tenendo un contegno non collaborativo con la altre figure professionali:
a) la denuncia della V. risulterebbe ulteriormente accreditata nel suo accadimento storico, e quindi, fino a prova contraria, nella sua veridicità ideologica;
b) per converso, la pretesa costrizione avrebbe implausibilmente fallito il proprio scopo, visto che, come il teste B.S. riconosce, non solo né la M. né la O. vennero trasferite, ma neppure risulta che la V. ne abbia chiesto il trasferimento (non risulta averlo fatto neppure per il F.), avendolo fatto solo per le ricorrenti.
Tutto ciò concorre nel convincere che la decisione aziendale di allontanare le ricorrenti dalla C.D. venne lecitamente determinata dalla denuncia della V., che, a quanto si è dimostrato, rifletteva in modo veritiero il fatto che le ricorrenti, già contrariate per aver dovuto accettare una riduzione di orario, ed ulteriormente contrariatesi per l’incidenza assunta sui loro spazi di autonomia dall’utilizzo “prepositorio” dell’infermiera O., avevano assunto un contegno non collaborativo nei confronti di costei, ed un più generale contegno continuamente contestatario nei confronti delle disposizioni impartite dalla coordinatrice e dal direttore operativo, comportamenti chiaramente idonei a creare disordine organizzativo e disservizio, ed effettivamente atti ad essere eliminati mediante la loro applicazione in un contesto organizzativo diverso da quello nel quale si erano verificati i fatti che avevano generato il conflitto.
A fronte della chiarezza e credibilità di tale quadro, il tentativo delle ricorrenti di rivestire il senso degli accadimenti di un manto di matrice persecutoria/ritorsiva appare inconsistente.
L’assunto per cui il loro allontanamento sarebbe stato retto da un fine di ritorsione collettiva a fronte del modo compatto con cui gli OSS avrebbero rivendicato l’innesto nel contesto di un infermiere e di un sollevatore, concessi “obtorto collo”; fine che si sarebbe alfine spiegato solo contro di esse (e, pare, di tale F.) per separare il fronte della rivendicazione; appare del tutto gratuito, specie se si considera, riguardo all'”obtorto collo”, che le rivendicazioni del “gruppo compatto”, per altro presumibilmente rispondenti anche all’interesse dell’impresa, che affrontava maggiori costi ma poteva attendersi maggiore efficienza, erano state pur accolte, senza che neppure si alleghi fosse stato messo in campo allo scopo alcun mezzo di pressione “lato sensu” sindacale come uno sciopero o un’agitazione. Non è neppure allegato che, dopo l’adozione delle predette misure, fossero seguite altre rivendicazioni o proteste collettive.
Il fatto che, pochi giorni prima dei trasferimenti impugnati, i vertici sociali avrebbero minacciato di licenziamento tutti gli OSS in ragione della lamentele riguardanti gli ospiti denunciate dal direttore operativo, e quindi per una ragione diversa da quella che legittimamente regge, invece, i trasferimenti impugnati, si pone chiaramente al di fuori del processo causale che determinò questi ultimi, senza tacere del fatto che, proprio il fatto che si assuma che il fronte della protesta fosse compatto, esclude che le specifiche iniziative adottate dalla società solo contro le ricorrenti, animate da ragioni -a quanto consta – inerenti solo il loro particolare comportamento, siano state mosse da un motivo ritorsivo riconducibile all’esito della protesta.
Né la necessaria prova del preteso motivo ritorsivo (che peraltro, ex art. 1345 c.c., dovrebbe essere esclusivo o almeno determinante), può essere utilmente perseguita mediante la adusata tecnica di additare a indice di volontà persecutoria atti e fatti successivi non impugnati, e comunque non censurati per via di azione, come la sanzione disciplinare inflitta alle ricorrenti nell’agosto 2016, o le presunte “discriminazioni” in atto contro la S. nella nuova sede di lavoro riguardo alla assegnazione di straordinari e turni di notte (peraltro smentite dal teste G.); tecnica che muove dalla presunzione, del tutto infondata sul piano logico-giuridico, che il giudice possa trarre la conclusione che l’ atto impugnato è stato mosso da motivo ritorsivo sulla base di altri pretesi torti subì ti dallo stesso lavoratore, senza considerare che nessun torto, vero o reale che sia, reca in sé evidenza del suo motivo, né tantomeno dei motivi degli altri, e che quindi la prova del motivo illecito non può essere offerta che dando dimostrazione di fatti lecitamente compiuti dall’attore, atti a dare alla controparte motivo di rappresaglia, per poi rappresentare efficacemente, per via diretta o indiziaria, anche per la palese inconsistenza della diversa ragione addotta, che tali fatti hanno determinato la controparte, in modo esclusivo o comunque determinante, ad adottare quello specifico atto impugnato.
Le spese, liquidate come da dispositivo in base al D.M. n. 55 del 2014, seguono la soccombenza.
Tali i motivi della decisione in epigrafe.
P.Q.M.
DISPOSITIVO
definitivamente pronunciando, contrariis reiectis:
a) respinge le domande attoree
b) condanna le ricorrenti in solido alla rifusione, in favore della convenuta, delle spese del giudizio, che liquida in € 20,00 per spese e € 3.000,00 per compensi, oltre S.F., Iva e Cpa.
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