TRIBUNALE DI SASSARI – Ordinanza 13 maggio 2020
Previdenza complementare – Finanziamento delle forme pensionistiche complementari – Obbligo di contribuzione gravante sul datore di lavoro – Omessa previsione di strumenti idonei a garantire una adeguata, piena ed efficace tutela del diritto del lavoratore all’adempimento di tale obbligo. – Art. 8, D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari)
Il Giudice, letti gli atti e valutato il quadro normativo in vigore, ritiene di dovere d’ufficio sollevare questione di legittimità costituzionale del decreto legislativo n. 252 del 5 dicembre 2005, emanato dal Governo in forza della legge delega n. 243/2004, nella parte in cui ha omesso di disporre, come stabilito dall’art. 2, lettera e), n. 8, della legge delega: «l’attribuzione ai fondi pensione della contitolarità con i propri iscritti del diritto alla contribuzione, compreso il trattamento di fine rapporto cui è tenuto il datore di lavoro, e la legittimazione dei fondi stessi, rafforzando le modalità di riscossione anche coattiva, a rappresentare i propri iscritti nelle controversie aventi ad oggetto i contributi omessi nonché l’eventuale danno derivante dal mancato conseguimento dei relativi rendimenti», ed ha comunque omesso in modo assoluto di prevedere alternativi strumenti idonei a garantire una adeguata, piena ed efficace tutela del diritto del lavoratore all’adempimento dell’obbligo di contribuzione incombente sul datore di lavoro.
Tale omessa previsione appare infatti, innanzi tutto e in modo evidente, in violazione dell’art. 76 della Costituzione, in quanto la complessa normativa deliberata dal Governo con il decreto legislativo n. 252/2015, senza la previsione della legittimazione attiva del Fondo previdenziale ad agire in giudizio contro il datore di lavoro per ottenere l’accertamento e quindi l’esecuzione dell’obbligo di versamento delle quote di TFR spettanti al lavoratore, e senza la previsione di alternativi strumenti idonei a garantire una adeguata, piena ed efficace tutela del diritto del lavoratore all’adempimento dell’obbligo di contribuzione incombente sul datore di lavoro, ha stravolto completamente (in tal senso, Corte costituzionale ordinanza n. 283/2013, red. Napolitano: «il mancato o incompleto esercizio della delega non comporta di per sé la violazione degli articoli 76 e 77 della Costituzione, salvo che ciò non determini uno stravolgimento della legge di delegazione») lo spirito complessivo della delega parlamentare con cui era stato previsto un meccanismo di bilanciamento delle posizioni e dei poteri delle parti, e lo ha fatto a tutto danno, ingiustificato, del lavoratore, con conseguente violazione anche degli articoli 3, 38 e 47 della Costituzione, nonché dell’art. 24 della Costituzione, per le ragioni che di seguito si espongono.
De iure condito, in caso di omesso versamento da parte del datore di lavoro delle quote di TFR che progressivamente maturano, in favore del dipendente che abbia aderito alla formula del Fondo complementare, l’unico soggetto che a norma del decreto legislativo n. 252/2015, come anche interpretato dalla giurisprudenza, è legittimato ad agire in giudizio nei confronti del datore di lavoro è il lavoratore medesimo, non il fondo.
Per effetto dell’adesione (anche mediante il conferimento espresso o tacito del TFR) al contratto di previdenza complementare – contratto autonomo e distinto dal rapporto di lavoro che ne è il presupposto – il lavoratore acquista da un lato il diritto alla futura prestazione pensionistica nei confronti del Fondo, nelle forme e nei limiti previsti dall’art. 8, decreto legislativo n. 252 cit., dall’altro, nei confronti del datore di lavoro, il diritto al versamento in favore del Fondo dei contributi e degli accantonamenti destinati a finanziare la posizione previdenziale, di cui egli non può esigere il pagamento in proprio diretto favore poiché estranei al proprio patrimonio (così, per tutte, Corte di cassazione civile, sez. I, 16 maggio 2018, n. 12009. Est. Campese).
Pertanto, nel giudizio de quo, appunto il lavoratore ha depositato, ed ha dovuto depositare, ricorso monitorio chiedendo in pendenza di rapporto la condanna del datore di lavoro al versamento delle quote di TFR al Fondo.
Però, essendo stato configurato dal legislatore, per pacifica interpretazione giurisprudenziale, un rapporto trilaterale tra datore di lavoro, lavoratore e Fondo, con conseguente liticonsorzio necessario fra le tre parti, il lavoratore che pur disponga della prova cartolare e immediata dell’omesso versamento del datore di lavoro al Fondo (costituita da una parte dalle buste paga, dal CUD o altro documento attestante la misura del TFR maturato, e dall’altra dalla comunicazione del Fondo che attesta al lavoratore il mancato versamento), come avvenuto nel giudizio de quo, non può accedere alla tutela monitoria del suo credito, che è la forma di tutela di merito più veloce ed efficace prevista dall’ordinamento, in quanto da un lato in sede monitoria non è possibile l’integrazione del contraddittorio anteriormente alla pronuncia del decreto ingiuntivo, data la particolare struttura del processo che si svolge inaudita altera parte, dall’altro l’art. 81 del codice di procedura civile vieta che, fuori dai casi espressamente previsti dalla legge si possa far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui, o un diritto anche altrui (cioè, anche del Fondo), come nel caso di specie.
Il lavoratore pertanto è costretto a depositare un ricorso ordinario contro il datore di lavoro e nei confronti del Fondo, e ad affrontare l’attesa dei tempi più lunghi che connotano detto giudizio, con tutti i rischi legati all’eventuale insolvenza sopravvenuta del debitore.
Non essendovi ragioni che possono giustificare l’esclusione del lavoratore, nel caso di sua adesione a un Fondo previdenziale, dall’accesso alla tutela monitoria, sussistendo i presupposti di cui all’art. 633 del codice di procedura civile costituiti dal credito avente ad oggetto una somma liquida di denaro e della prova scritta del credito, è evidente che il decreto legislativo n. 252 del 2005 viola altresì gli articoli 3 e 24 della Costituzione, nonché gli articoli 38 e 47 della Costituzione, giacché solo un diritto soggettivo che sia possibile difendere in giudizio con tutti gli strumenti forniti dall’ordinamento può ritenersi effettivamente tutelato dalla normazione primaria, e il diritto al TFR del lavoratore, istituto che vale a garantirgli un trattamento di tutela per la vecchiaia ex art. 38 della Costituzione, ed è comunque un mezzo di risparmio ex art. 47 della Costituzione, deve ritenersi violato dal complesso delle norme con cui il Governo ha dato attuazione alla delega legislativa.
Né la ingiustificata lesione della sfera soggettiva del lavoratore, come sopra sostenuta, può venire meno per effetto della possibilità eventuale di chiedere un sequestro conservativo sul patrimonio del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 671 del codice di procedura civile, a garanzia del proprio credito nelle more dello svolgimento del giudizio ordinario, in quanto detta norma onera il ricorrente della dimostrazione di dati di fatto ulteriori rispetto a quelli necessari per chiedere e ottenere la tutela monitoria, i dati di fatto idonei a cagionare un «fondato timore» di perdere la garanzia del proprio credito.
Dunque il lavoratore, quando abbia aderito a un Fondo previdenziale disponendo il conferimento ad esso delle quote del proprio TFR, in caso di inadempimento del datore di lavoro deve necessariamente affrontare i tempi del giudizio ordinario o deve ricorrere alla tutela cautelare sempre che ne sussistano e che riesca a dimostrare la sussistenza dei relativi presupposti, senza potere avvalersi della celere, semplice e meno costosa procedura monitoria, che può invece utilizzare qualunque altro creditore sol che vanti un credito liquido e dimostrato per tabulas.
La differenza di trattamento è palese, ingiustificata, e ingiusta, con conseguente grave violazione dell’art. 3 della Costituzione.
Sarebbe bastato, e basterebbe, che il legislatore delegato, o per esso la Corte costituzionale con sentenza additiva, avesse previsto o prevedesse, integrandosi così l’espressa previsione richiesta dall’art. 81 del codice di procedura civile, che il lavoratore aderente al Fondo può domandare al giudice la condanna o l’ingiunzione del datore di lavoro, avente ad oggetto il versamento del TFR al Fondo, senza la necessità della partecipazione al giudizio del Fondo medesimo ogni qualvolta, come avvenuto nella procedura de quo, il Fondo stesso abbia attestato per tabulas l’ammontare delle somme già versate, o di quelle da versare, sulle quali pertanto non vi può essere contestazione, con la conseguenza che il Fondo non può ritenersi titolare di un interesse meritevole di tutela a partecipare al giudizio.
Nel caso concreto sottoposto all’attenzione del giudice, il lavoratore ha chiesto la ingiunzione del datore di lavoro al versamento del TFR al Fondo, essendo provati per tabulas la convenzione trilaterale avente ad oggetto il conferimento del TFR al Fondo, l’ammontare del TFR già maturato, ed il parziale inadempimento del datore; non avrebbe potuto agire per ottenere il diretto pagamento a sé del TFR, in quanto detto diritto sorge soltanto al momento della cessazione del rapporto di lavoro, che è invece tuttora in corso; e neppure la giurisprudenza ritiene che il Fondo medesimo abbia legittimazione attiva ad agire contro il datore di lavoro per i versamenti dovuti.
Ci troviamo pertanto di fronte ad un diritto «monco», illegittimamente sfornito di una parte rilevante della tutela giurisdizionale che l’ordinamento appresta invece ad ogni altro diritto patrimoniale.
Il che è tanto più grave, se si considera che l’art. 8 del decreto legislativo n. 252/2005 prevede anche una serie di casi di adesione «tacita» del lavoratore ai Fondi complementari.
Nel giudizio de quo il giudice si trova di fronte all’alternativa di adeguarsi ad una interpretazione delle norme regolanti i Fondi complementari che non condivide, perché si traducono in una denegata giustizia e porterebbero al rigetto della domanda monitoria, pur relativa ad un credito liquido e fondato su prova scritta, o assumere una pronuncia in contrasto, in accoglimento della domanda, probabilmente destinata ad essere riformata.
Si rende pertanto indispensabile il ricorso alla Corte costituzionale.
P.Q.M.
Ritenuta la rilevanza nel presente giudizio e la non manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale del decreto legislativo n. 252/2005 e in particolare del suo art. 8 nei termini che seguono: nella parte in cui, stravolgendo lo spirito complessivo della delega parlamentare con cui era stato previsto un meccanismo di bilanciamento delle posizioni e dei poteri delle parti, a tutto danno ingiustificato del lavoratore ha omesso di prevedere strumenti idonei a garantire una adeguata, piena ed efficace tutela del diritto di quest’ultimo all’adempimento dell’obbligo di contribuzione incombente sul datore di lavoro, per ritenuto contrasto con gli articoli 76, 3, 38 e 47 della Costituzione, nonché dell’art. 24 della Costituzione.
Sospende il presente procedimento iscritto su ricorso di P.C. contro S.C.E.A.S. Società cooperativa ecologia ambiente Sardegna.
Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale affinché, ove ne ravvisi i presupposti, voglia dichiarare l’illegittimità costituzionale del decreto legislativo n. 252/2005 e in particolare del suo art. 8, sotto il profilo indicato.
Dispone che il presente provvedimento, adottato d’ufficio, sia comunicato telematicamente alla parte ricorrente, e in formato cartaceo sia notificato al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicato ai presidenti delle due Camere del Parlamento.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di competenza.
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