TRIBUNALE DI VELLETRI – Ordinanza 21 dicembre 2012
Lavoro e occupazione – Contratto di lavoro a tempo determinato – Conversione in contratto a tempo indeterminato a causa dell’illegittima apposizione del termine – Condanna del datore di lavoro al risarcimento in favore dei lavoratori – Prevista liquidazione da parte del giudice di un’indennità onnicomprensiva, determinata tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto – Violazione di obblighi internazionali derivanti dalla normativa comunitaria – Richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 303/2011 – Legge 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, come interpretato dall’art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012, n. 92 – Costituzione, artt. 11 e 117 – Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999, punto 8.3, allegato alla direttiva 99/7/CE del 28 giugno 1999.
Premesso
che con ricorso depositato il 29 luglio 2009, iscritto al n. 3029/2009 R.G., B.L. ha convenuto in giudizio la ASP s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, per fare accertare l’illegittimità del termine di durata apposto al contratto di lavoro stipulato con decorrenza dal 7 aprile 2008, nonché della successiva proroga, e chiedere l’accertamento in ordine alla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ed il pagamento del trattamento retributivo dovuto, a decorrere dall’estromissione dal rapporto sino alla riammissione in servizio;
Rilevato che, successivamente all’introduzione del giudizio, il legislatore ha limitato l’ammontare del risarcimento del danno dovuto a seguito dell’illegittima apposizione del termine ad un contratto di lavoro, con l’art. 32, comma 5 e 6, della legge n. 183/2010 (c.d. collegato al lavoro), che così statuisce:
«5. Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604.
6. In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà»;
Ritenuto che detta previsione è stata oggetto di interpretazione autentica con la norma contenuta nell’art. 1, comma 13, della legge n 92/2012, che ha cosi stabilito: «La disposizione di cui al comma 5 dell’articolo 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro»;
Considerato che tale complesso normativo si applica anche ai procedimenti in corso, ai sensi del comma 7 del citato art. 32, e che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 303 del 2011 – precedente alla su richiamata norma di interpretazione autentica – ha ritenuto conforme a Costituzione l’opzione legislativa volta a configurare una sorta di penale ex lege a carico del datore di lavoro, stabilendo un’indennità forfetizzata ed onnicomprensiva per l’intero pregiudizio arrecato dalla nullità del termine nel periodo cosiddetto intermedio, dalla scadenza del termine alla sentenza di «conversione»;
Rilevato che, all’udienza del 15 novembre 2012 le parti hanno discusso la causa e parte ricorrente ha profilato la sussistenza di una possibile questione di costituzionalità dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010, chiedendo al decidente di dichiararla ammissibile e rilevante e di sollevarla, trasmettendo gli atti alla Corte costituzionale;
Considerato che la questione prospettata è rilevante ai fini della decisione, dal momento che dall’applicazione della disposizione di legge in questione può dipendere l’accoglimento parziale del ricorso, determinando, in particolare, l’ammontare del risarcimento del danno spettante al lavoratore, tenuto conto che dall’istruzione effettuata, da un lato, non è emersa la sussistenza delle ragioni addotte dalla parte datoriale per giustificare la clausola negoziale e, dall’altro, la stipulazione della proroga risulta formalizzata soltanto dopo la scadenza del termine precedentemente pattuito e la prosecuzione, in via di fatto, del rapporto, sì da dare luogo ad una successione di contratti a termine,
Osserva
Dubita questo decidente della legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010, come autenticamente interpretato dall’art. 1, comma 13, della legge n. 92/2012, per violazione degli artt. 11 e 117 della Costituzione, sotto profili differenti da quelli già scrutinati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 303/2011.
In particolare, dubita il decidente che la normativa in questione, nel caso di reiterazione di contratti a termine, sia conforme al punto 8.3 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, arretrando il livello generale di tutela previsto per i lavoratori a fronte di successive stipulazioni a tempo determinato.
Giova illustrare i passaggi argomentativi su cui poggia siffatta considerazione.
Com’è noto, la normativa sul contratto a tempo determinato è di derivazione europea, in quanto volta ad attuare la direttiva 1999/70/CE, a sua volta recettiva dell’accordo quadro tra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale – Unione delle confederazioni delle industrie della Comunità europea (UNICE), Centro europeo dell’impresa a partecipazione pubblica (CEEP) e Confederazione europea dei sindacati (CES) – del 18 marzo 1999 sul lavoro a tempo determinato.
L’accordo quadro mirava a raggiungere due obiettivi. Anzitutto, migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato, garantendo il rispetto del principio di non discriminazione; poi, creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti a tempo determinato.
Al fine di raggiungere tale scopo sono stati concepiti due strumenti essenziali (confermati nel 14° considerando della direttiva): il principio di non discriminazione tra lavoro a tempo determinato e lavoro a tempo indeterminato (clausola 4.1, 4.4) e l’adozione di misure e requisiti minimi a tutela dagli abusi nella successione di contratti a termine (clausola 5.1 e 5.2).
Con riferimento specifico all’adozione delle misure di prevenzione degli abusi, l’accordo ne stabiliva l’introduzione negli Stati membri, «in assenza di norme equivalenti»; in senso più ampio, consentiva l’inserimento od il mantenimento di disposizioni più favorevoli per i lavoratori (clausola 8.1) e vietava che l’applicazione dell’accordo stesso potesse costituire motivo per ridurre il livello generale di tutela che ivi era offerto ai lavoratori (clausola 8.3).
Precisamente, la clausola 8.3 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato stabilisce che «l’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso» (c.d. clausola di non regresso).
Ora, sul piano delle conseguenze in favore del lavoratore nel caso di illegittima apposizione del termine ad un contratto di lavoro, prima della novella del 2010 era del tutto pacifico in giurisprudenza che il dipendente, avendo cessato l’esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine, aveva diritto alla retribuzione dal momento in cui provvedeva ad offrire le sue prestazioni lavorative, determinando una situazione di mora accipiendi del datore di lavoro (cfr. Cass. 27 giugno 1996 n. 5930, 15 dicembre 1997 n. 12665, Cass. 27 febbraio 1998 n. 2192, Cass. 26 maggio 2001, n. 7186).
Il suddetto principio trovava fondamento nella regola generale di effettività e corrispettività delle prestazioni del rapporto di lavoro, secondo la quale, al di fuori di specifiche deroghe legali o contrattuali, il diritto alla retribuzione è sinallagmaticamente correlato alla prestazione lavorativa e sussiste soltanto nel caso di effettivo svolgimento dell’attività lavorativa, salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di mora credendi nei confronti dei dipendenti; come corollario, si affermava che nel caso in cui non vi fosse stata offerta della prestazione lavorativa, le retribuzioni perdute non potevano neppure essere attribuite a titolo di risarcimento del danno, in quanto l’interruzione della funzionalità di fatto del rapporto non conseguiva ad un’iniziativa del datore di lavoro, il quale non aveva posto in essere un licenziamento (cfr., per tutte, Cass. S.U. 8 dicembre 2002 n. 14381, Cass., sez. lav., n. 995 del 22 gennaio 2004, Cass., sez. lav., n. 17322 del 30 agosto 2004, Cass., sez. lav., n. 1291 del 24 gennaio 2006, Cass., sez. lav., n. 7966 del 5 aprile 2006, Cass., sez. lav., n. 8294 del 10 aprile 2006, Cass., sez. lav., 21 novembre 2006, n. 24655).
Invero, l’unico punto controverso, fermo il diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e al pagamento del trattamento economico perduto successivamente alla costituzione in mora, era costituito dal titolo dell’attribuzione patrimoniale, se cioè gli importi corrisposti dal datore di lavoro avessero natura retributiva (come pare evincersi, di recente, da Cass., sez. lav., n. 17551 del 27 luglio 2010, Cass., sez. lav., n. 21763 del 22 ottobre 2010, Cass., sez. lav., n. 21815 del 25 ottobre 2010), ovvero risarcitoria (così Cass., sez. lav., n. 6010 del 12 marzo 2009, Cass., sez. lav., n. 7979 del 27 marzo 2008, Cass., sez. lav., 13 aprile 2007 n. 8903).
Principi consolidati che, a seguito della riforma operata dall’art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010, come interpretata autenticamente dall’art. 1, comma 13, della legge n. 92/2012, non possono più trovare applicazione. Nella funzione di interpretazione autentica del significato da attribuire alla normativa comunitaria, la Corte di Giustizia della UE ha fornito un quadro complessivo che assume specifica rilevanza sulla compatibilità dell’art. 32, comma 5, del collegato al lavoro al diritto dell’Unione. La nozione di «ambito coperto dall’accordo» è stata disegnata nel senso di comprendere l’insieme delle norme che regolano il contratto o rapporto a tempo determinato, sul presupposto che la verifica dell’esistenza di una reformatio in peius «deve effettuarsi in rapporto all’insieme delle disposizioni di diritto interno di uno Stato membro relative alla tutela dei lavoratori in materia di contratti di lavoro a tempo determinato» (cfr. sentenza 23 aprile 2009, Kiriaki Angelidaki, nelle cause riunite da C-378/07 a C-380/07, punti 120 e 124, e sentenza 24 giugno 2010, Sorge, C-98/09, punti 33 e 34). Il «campo» coperto dall’accordo europeo, dunque, riguarda l’intera disciplina del lavoro a termine, e non soltanto le specifiche disposizioni, concernenti tale disciplina, rinvenibili all’interno dell’accordo.
Con riferimento al concetto di «applicazione del presente accordo», è stato precisato che tale attuazione riguarda non solo l’iniziale trasposizione della disciplina europea, ma anche ogni altra successiva misura che completi o modifichi gli interventi traspositivi già effettuati (cfr. sentenza Angelidaki, punto 131, nonché l’ordinanza 11 novembre 2010, C-20/10, Vino, punto 36). Quanto al nodo cruciale, relativo al concetto dell’arretramento della tutela, la giurisprudenza della Corte di Giustizia, nella sopra citata ordinanza Vino dell’11 novembre 2010, al punto 30 ha ritenuto di trarre la decisione richiamando la sua consolidata giurisprudenza ed i principi ricavabili, «in particolare dalle sentenze 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold (Racc. pag. I-9981, punti 44-54); 23 aprile 2009, cause riunite da C-378/07 a C-380/07, Angelidaki e a. (Racc. pag. 1-3071, punti 122-146), e 24 giugno 2010, causa C-98/09, Sorge (non ancora pubblicata nella Raccolta, punti 27-48), nonché dall’ordinanza 24 aprile 2009, causa C-519/08, Koukou (punti 103-124)».
Sulla base di questa premessa, al punto 31 e 32 ha stabilito che «… in forza dello stesso dettato della clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro, l’applicazione di detto accordo non può costituire un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela precedentemente offerto ai lavoratori, nell’ordinamento giuridico nazionale, nell’ambito dei contratti di lavoro a tempo determinato (cfv. citate sentenze Mangold, punti 50 e 52; Angelidaki e a., punti 111-121 e 125, e Sorge, punti 30-35, nonché ordinanza Koukou, cit., punto 113).
32 Da ciò consegue che una riduzione della tutela offerta ai lavoratori nel settore dei contratti di lavoro a tempo determinato non è, in quanto tale, vietata dall’accordo quadro, ma che, per rientrare nel divieto sancito dalla clausola 8, punto 3, di esso, tale riduzione, da un lato, dev’essere collegata con l’«applicazione» dell’accordo quadro e, dall’altro, deve avere ad oggetto il «livello generale di tutela» dei lavoratori a tempo determinato (v. citate sentenze Mangold, punto 52, e Angelidaki e a., punto 126, nonché ordinanza Koukou, cit., punto 114)».
Al punto 37 la Corte così ha proseguito: «Nondimeno, una normativa nazionale non può essere considerata contraria a detta clausola nel caso in cui la reformatio in peius che essa comporta non sia in alcun modo collegata con l’applicazione dell’accordo quadro. Ciò potrebbe avvenire qualora detta reformatio in peius fosse giustificata non già dalla necessità di applicare l’accordo quadro, bensì da quella di promuovere un altro obiettivo, distinto da detta applicazione (v. citate sentenze Mangold, punti 52 e 53, e Angelidaki e a., punto 133, nonché ordinanza Koukou, cit., punto 117)». Alla stregua di queste premesse al punto 41 la Corte ha ritenuto che “l’adozione dell’art. 2, comma 1-bis, del decreto n. 368/2001 mirava a consentire alle imprese operanti nel settore postale un certo grado di flessibilità allo scopo di garantire, ai fini dell’attuazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 15 dicembre 1997, 97/67/CE, concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e il miglioramento della qualità del servizio (GU 1998, L 15, pag. 14), un funzionamento efficace delle diverse operazioni postali rientranti nel servizio universale e, pertanto, perseguiva uno scopo distinto da quello consistente nel garantire l’attuazione dell’accordo quadro nell’ordinamento nazionale. Peraltro, il governo italiano ha affermato, in sede di osservazioni scritte, che questa disposizione mirava essenzialmente, nel quadro di misure destinate a limitare e razionalizzare la spesa pubblica, a salvaguardare l’equilibrio economico e la gestione di Poste Italiane». Come già ritenuto in dottrina, a parere di questo giudice la giurisprudenza della Corte di Giustizia è molto chiara nell’affermare che sino a quando la normativa interna successiva si limita a modificare la disciplina del lavoro a termine attuando un nuovo equilibrio nei rapporti tra datoci di lavoro e lavoratori, aumentando o diminuendo gli oneri richiesti per l’utilizzo dell’istituto, ovvero aumentando o diminuendo le possibilità di occupazione precaria, o, ancora, incidendo sul regime relativo alle conseguenze derivanti dall’abuso, rimane all’interno dell’attuazione dell’accordo quadro.
Ed infatti, il passaggio argomentativo cruciale del ragionamento intessuto dai Giudici di Lussemburgo è il seguente, contenuto al punto 42 dell’ordinanza Vino: «è giocoforza constatare che nessun elemento indicato nella decisione di rinvio o nelle osservazioni scritte presentate alla corte suggerisce che l’abrogazione dell’obbligo per un datore di lavoro, quale Poste Italiane, di indicare le ragioni oggettive che giustifichino un primo o unico contratto di lavoro a tempo determinato deriverebbe dalla volontà del legislatore nazionale di bilanciare, al fine di alleggerire gli oneri gravanti sui datori di lavoro, le nonne di tutela dei lavoratori introdotte dal d.lgs. n. 368/2001 riguardo all’attuazione dell’accordo quadro e di realizzare in tal modo un nuovo equilibrio nei rapporti di lavoro tra datori di lavoro e lavoratori nell’ambito dei contratti di lavoro a tempo determinato (v., per analogia, sentenza Sorge, cit., punto 40)».
Di recente, la Corte di Cassazione, con ragionamento che vale la pena riprodurre integralmente, ha così riassunto il problema del rispetto della clausola di non regresso, nella pronuncia n. 1931 del 27 gennaio 2011:
«è stato di recente chiarito dalla Corte di giustizia CE (cfr., in particolare sent. 23 aprile 2009 nei procc. Riuniti da C – 378/07 a C – 380/07, Kiriaki e altri nonché sent. 22 novembre 2005, C – 144/04, Mangold) che l’accordo quadro trasfuso nella direttiva 1999/70/CE contiene nel preambolo e nel testo, sia norme riguardanti ogni tipo di contratto a termine, sia norme riferibili esclusivamente al fenomeno della reiterazione di tale tipo di contratto e, quindi, ai lavoratori dei contratti a termine cd. successivi; «risulta infatti chiaramente sia dall’obiettivo perseguito dalla direttiva 1999/70, sia dall’accordo quadro e dalla formulazione delle pertinenti disposizioni di esso, che … l’ambito disciplinato da tale accordo non è limitato ai soli lavoratori con contratti di lavoro a tempo determinato successivi, ma che, al contrario, si estende a tutti i lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell’ambito di un determinato rapporto di lavoro che li vincola ai rispettivi datori di lavoro, indipendentemente dal numero di contratti a tempo determinato stipulati da tali lavoratori» (punto 116 della sentenza Kiziaki); in particolare, nella prima categoria rientra a pieno titolo la clausola 8, n. 3 dell’accordo, alla stregua della quale “la applicazione” (della direttiva) «non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo»;
Tale clausola, cd. di non regresso, è stata esplicitamente ritenuta dalla Corte di giustizia come riferita ad ogni aspetto della disciplina nazionale del contratto a termine e quindi anche a quella del primo o unico contratto a tempo determinato;
infatti: “la verifica dell’esistenza di una reformatio in pejus ai sensi della clausola 8 n. 3 dell’accordo quadro deve ritenersi in rapporto all’insieme delle disposizioni di diritto interno di uno Stato membro relative alla tutela dei lavoratori in materia di contratti di lavoro a tempo determinato” (punto 120 della medesima sentenza); come è stato recentemente rilevato in dottrina, in tal modo la clausola di non regresso persegue lo scopo, in generale, di impedire arretramenti ingiustificati della tutela nella materia considerata, nella ricerca di un difficile equilibrio tra esigenze di modernizzazione dei sistemi sociali nazionali, flessibilità del rapporto per i datori e sicurezza per i lavoratori”.
Sulla base dei principi stabiliti dalla Corte di Giustizia – e debitamente tenuti in conto anche dalla Corte di Cassazione nella pronuncia da ultima citata -, la norma contenuta nell’art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010, come autenticamente interpretata dall’art. 1, comma 13, della legge n. 92/2012, nel senso di ridurre l’ammontare degli importi – da quest’angolo di visuale, invero, poco importa se di natura retributiva o risarcitoria – spettanti al lavoratore illegittimamente assunto a termine, per il periodo successivo alla costituzione in mora della parte datoriale, tanto più con l’accessoria privazione del trattamento previdenziale, rientra nell’ambito coperto dall’accordo quadro, costituendone applicazione.
Sotto questa angolazione, la finalità della norma si può dare per assodata in giurisprudenza.
Cristallina, al riguardo, è la seguente affermazione della Suprema Corte: “Tale disciplina, applicabile a tutti i giudizi pendenti, anche in grado di legittimità (v. già Cass. Ord. 28-1-2011 n. 2112), alla luce della sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale n. 303 del 2011, è fondata sulla ratio legis diretta ad “introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione”, rispetto alle “obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativi dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente” (cfr. in termini, Cass., sez. lav., 31 gennaio 2012, n. 1411).
Ancora di più, la stessa Corte Costituzionale ha rimarcato che “la normativa impugnata risulta, nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi. Al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un’indennità che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità né dell’offerta della prestazione, né di oneri probatori di sorta. Al datone di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso. Ma non oltre, pena la vanificazione della statuizione giudiziale di un rapporto di lavoro sine die” (cfr. sentenza n. 303/2011, cit.). Si tratta, pertanto, di un intervento diretto in modo univoco a modificare la regolamentazione del profilo patrimoniale conciato all’abuso della stipulazione a termine, e, adottando un criterio sostitutivo, a parere del decidente potrebbe tradursi in un arretramento di tutela, tale da coinvolgere tutti lavoratori assunti a tempo determinato.
Infatti, “soltanto una reformatio in peius di ampiezza tale da influenzare complessivamente la normativa nazionale in materia di contratti di lavoro a tempo determinato può rientrare nell’ambito applicativo della clausola 8, n. 3, dell’accordo quadro (sentenza Angeliclaki e a., cit., punto 140, nonché ordinanza 24 aprile 2009, causa C-519/08, Koukou, punto 119)” (cfr. sentenza Sorge, cit., punto 42).
Una norma di portata così ampia da coinvolgere l’insieme dei lavoratori a tempo determinato non assolve a nessun’altra ragione che quella di ridisegnare il mercato di lavoro nel settore del contratto a termine e può essere considerata il frutto della volontà di bilanciare, al fine di alleggerire gli oneri gravanti sui datori di lavoro, le norme di tutela dei lavoratori introdotte dal decreto legislativo n. 368/2001 riguardo all’attuazione dell’accordo quadro, senza che emerga una finalità chiaramente identificata e diversa (cfr. sentenza Sorge, cit., punto 40).
Del resto, l’ampiezza della portata applicativa è ben messa in luce dalla stessa Corte Costituzionale, che ha espressamente evidenziato come “la innovativa disciplina in questione è di carattere generale. Sicché, essa non favorisce selettivamente lo Stato o altro ente pubblico (o in mano pubblica), perché le controversie su cui essa è destinata ad incidere non hanno specificamente ad oggetto i rapporti di lavoro precario alle dipendenze di soggetti pubblici, ma tutti i rapporti di lavoro subordinato a termine” (cfr. sentenza n: 303/2011, cit.). Sicché detta disposizione legislativa riduce in modo consistente il livello di tutela a fronte dell’abusiva stipulazione di contratti a termine, eliminando le conseguenze patrimoniali gravanti sul datore di lavoro secondo le regole di diritto comune e fissando i risvolti economici dell’illegittimo rifiuto a ripristinare il rapporto di lavoro entro margini prefissati, di gran lunga inferiori al trattamento economico che sarebbe spettato in forza del regime previgente – anche per la conelata privazione del trattamento previdenziale oltrechè addossando sul lavoratore le conseguenze negative della durata del processo.
Il profilo delle conseguenze patrimoniali gravanti sul datore di lavoro che abbia reiteratamente abusato dell’apposizione della clausola negoziale del termine rappresenta, infatti, il più significativo argine, in chiave preventiva, al proliferare di un uso distorto dell’istituto, sicché eliminare il diritto al pagamento del trattamento retributivo maturato secondo le regole del diritto comune – ovvero all’integrale risarcimento del danno patrimoniale – si tradurrebbe non soltanto in una riduzione della sanzione gravante sul datore di lavoro, ma, soprattutto – ed in ciò consiste il disvalore vietato dalla legislazione comunitaria – in una diminuzione della tutela del lavoratore, a fronte di rapporti in cui difettavano in radice le condizioni per l’apposizione del termine. Tanto più quando l’arretramento della tutela patrimoniale non è compensato in alcun modo ed è stato, anzi, introdotto, secondo il combinato disposto dei commi 1 e 4 dell’articolo, un ulteriore limite, consistente nella previsione di un termine di decadenza per l’impugnazione dell’illegittima stipulazione del contratto a tempo determinato, insussistente fino a quel momento. Queste considerazioni prescindono dal fatto che la previsione di un indennizzo sino alla sentenza che statuisce la “conversione”, con diritto da quella data al pagamento della retribuzione, in luogo dell’integrale risarcimento, possa essere una sanzione di per sé legittima, perché la prosecuzione del rapporto a tempo indeterminato e il pagamento di una somma forfettaria rappresenterebbe una tutela comunque adeguata a sanzionare l’abuso, come ritenuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 303/201l e dalla Corte di Cassazione nella sentenza n, 1411/2012.
L’adeguatezza astratta della soluzione in questione, infatti, risulta irrilevante nella misura in cui, in ragione del quadro normativo previgente, essa determina un effettivo e sostanziale arretramento di tutela, vietato dall’accordo quadro per la stessa ragione che mira “a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi”, sicché il legislatore “si è limitato a nazionalizzare con un intervento di carattere generale – ponderatamente esteso ai rapporti ancora sub indice – il regime risarcitorio del danno conseguente alla violazione della normativa vincolistica in materia di contratti di lavoro a termine” (cfr. Corte Cost. n. 303/2011).
Quanto alle conseguenze della violazione della clausola di non regresso, la Corte di Giustizia, nella citata sentenza Sorge, punto 50, ha ritenuto che “la clausola 8, 11. 3, dell’accordo quadro non soddisfa i requisiti per essere direttamente produttiva di effetti.
Da un lato, infatti, detta clausola veste sulla sola «attuazione» di tale accordo da parte degli Stati membri e/o delle parti sociali, obbligati a recepirlo nell’ordinamento giuridico interno, vietando loro di giustificare all’atto di tale recepimento una reformatio in peius del livello generale di tutela dei lavoratori con la necessità di applicare l’accordo quadro in parola. Dall’altro, poiché suddetta clausola si limita a vietare, stando alla sua formulazione stessa, di «ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo quadro] », essa comporta che soltanto una reformatio in peius di ampiezza tale da influenzare complessivamente la normativa nazionale in materia di contratti di lavoro a tempo determinato è idonea a ricadere nel suo ambito applicativo. Orbene, i soggetti dell’ordinamento non potrebbero fondare sul descritto divieto un diritto dal contenuto sufficientemente chiaro, preciso e categorico (sentenza Angelidaki e a., cit., punti 209-211, e ordinanza Koukou, cit., punto 128)”.
E’ vero che, ove non sia possibile invocare un effetto diretto della direttiva in una controversia giurisdizionale, il giudice nazionale è tenuto ad un’interpretazione conforme del diritto interno, principio inerente al sistema del Trattato CE, in quanto permette di assicurare la piena efficacia delle norme comunitarie (cfr. sentenza Impact del 15 aprile 2008, C-268/06, punto 99, che richiama i precedenti delle sentenze Pfeiffer al punto 114 e Adeneler al punto 109).
Analogamente, nell’ordinanza Vassilakis del 12 giugno 2008, C-364/07, viene ribadito che i giudici nazionali devono, nella misura del possibile, interpretare il diritto interno alla luce del testo e della finalità della direttiva al fine di raggiungere i risultati perseguiti da quest’ultima, privilegiando l’interpretazione delle disposizioni nazionali che sia maggiormente conforme a tale finalità, per giungere così ad una soluzione compatibile con le disposizioni della detta direttiva, fermo restando, come precisato nella citata sentenza Adeneler, punti 110-112, che l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva, nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del suo diritto nazionale, trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività, e non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale (cfr, in termini, sentenza 16 giugno 2005, causa C-105/03, Pupino, punti 44 e 47).
Anche nella sentenza Sorge, punti n. 51 e 52, la Corte di Giustizia ha puntualizzato che “i giudici nazionali sono tenuti ad interpretare il diritto interno, per quanto possibile, alla luce del testo e dello scopo dell’accordo quadro in parola al fine di raggiungere il risultato perseguito da quest’ultimo e conformarsi, pertanto, all’art. 228, terzo cometa, TFUE”, ma “l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di un accordo quadro nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di irretroattività, e non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale (v., per analogia, sentenza Adeneler e a., cit., punto 110). Nel caso di specie, la norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 1, comma 13, della legge n. 92/2012 preclude qualsiasi tipo di interpretazione conforme, giacché avalla in modo ineludibile una opzione ermeneutica che direttamente si pone in contrasto con la clausola di non regresso contenuta al punto 8.3 dell’accordo quadro, nell’accezione alla stessa fornita dalla Corte di Lussemburgo. Stante l’impossibilità di disapplicare la norma interna, ovvero di operarne una interpretazione conforme, la questione di legittimità costituzionale, per violazione dei principi contenuti negli artt. 11 e 117, comma 1, Cost. non sembra manifestamente infondata.
Invero, la stessa giurisprudenza costituzionale ha individuato il sicuro fondamento del rapporto tra ordinamento nazionale e diritto comunitario nell’art. 11 Cost., in forza del quale la Corte ha riconosciuto, tra l’altro, il principio di prevalenza del diritto comunitario e, conseguentemente, il potere-dovere del giudice comune di dare immediata applicazione alle norme comunitarie provviste di effetto diretto in luogo di norme nazionali che siano con esse in contrasto insanabile in via interpretativi; ovvero di sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione di quel parametro costituzionale quando il contrasto fosse con norme comunitarie prive di effetto diretto. Il novellato art. 117, primo comma, Cost. – che pure ha colmato la lacuna della mancata copertura costituzionale per le norme internazionali convenzionali, escluse dalla previsione dell’art. 10, primo comma, Cost. – ha dunque confermato espressamente, in parte, ciò che era stato già collegato all’art. 11 Cost., e cioè l’obbligo del legislatore, statale e regionale, di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario (cfr., per tutte, Corte Cost. n. 227 del 21 giugno 2010). Conclusivamente, alla luce delle considerazioni che precedono, va sollevata la questione di legittimità costituzionale nei termini di cui in dispositivo, cui si rinvia anche per i provvedimenti ulteriori.
P.Q.M.
Visto l’art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 11 e 117 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183, come interpretata autenticamente dall’1, comma 13, della legge n. 92/2012, nell’ipotesi di successione di più contratti a tempo determinato; Solleva la predetta questione di legittimità costituzionale;
Sospende il presente giudizio;
Dispone trasmettersi gli atti alla Corte costituzionale;
Dispone che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa nonché al Presidente del Consiglio del ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
—
Provvedimento pubblicato nella G.U. 12 giugno 2013, n. 24.
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