TRIBUNALE TRENTO – Ordinanza 06 febbraio 2017
Esecuzione forzata – Somme dovute dai privati a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego comprese quelle dovute a causa di licenziamento – Prevista possibilità di pignoramento nella misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato, alle Province ed ai Comuni, ed in eguale misura per ogni altro credito – Mancata previsione di un minimo impignorabile necessario a garantire al lavoratore mezzi adeguati alle sue esigenze di vita. – Codice di procedura civile, art. 545, commi quarto e ottavo. Esecuzione forzata – Somme dovute dai privati a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego – Limiti al pignoramento nel caso di accredito sul conto corrente bancario o postale – Mancata previsione di tali limitazioni per le retribuzioni, non versate in conto corrente, soggette al limite di pignoramento del comma quarto dell’art. 545 cod. proc. civ. – Codice di procedura civile, art. 545, comma ottavo.
Rilevato che il credito di M M nei confronti di L P – ammonta in base al precetto ad € 19.101,28 sulla base della sentenza della Corte d’appello di Trento n. 90/13 Reg. Sent. 21/12 Reg. Gen. del 3 aprile 2013 depositato il 10 aprile 2013 oltre le spese della procedura esecutiva;
rilevato che il terzo pignorato: G G – S.n.c., in data 4 agosto 2016, ha reso dichiarazione positiva del suo obbligo di corrispondere al debitore uno stipendio mensile netto di circa € 900.00 (al netto delle ritenute previste dalla legge);
rilevato che deve applicarsi il regime di pignorabilità degli stipendi ed altri emolumenti riguardanti il rapporto di lavoro;
rilevato che in base all’art. 545 c.p.c. “Tali somme possono essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato, alle province ed ai comuni, ed in eguale misura per ogni, altro credito” e che da tale disposizione si ricava che lo stipendio è pignorabile fino ad 1/5, e che un quinto dello stipendio ammonta ad € 180,00 per cui resterebbero al debitore € 720,00 per la sua sopravvivenza (non risultando agli atti che abbia altre fonti di sostentamento);
rilevato che nel decreto-legge n. 16/2012 (cd. “decreto semplificazioni”) convertito in legge n. 44/2012, l’art. 3, comma 5, che ha aggiunto, nel decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973, in materia di pignoramento presso terzi disposto dall’agente della riscossione per i tributi dovuti allo Stato (in tema di pignoramenti Equitalia), l’art. 72-ter, recante il titolo “Limiti di pignorabilità”, secondo il quale: “Le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impegno, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, possono essere pignorate dall’agente della riscossione:
a) in misura pari ad 1/10 per importi fino a € 2.500,00;
b) in misura pari ad 1/7 per importi da € 2.500,00 a € 5.000,00″.
“Resta ferma la misura di cui all’art. 545, comma IV, c.p.c., se le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, superano i cinquemila euro”;
rilevato che, nella ipotesi di pignoramento della pensione, la Corte costituzionale con la nota sentenza 4 dicembre 2002, n. 506 in merito alla questione di legittimità costituzionale sollevata relativamente all’art. 128 del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, art. 69 della legge 30 aprile 1969, n. 153, afferma la pignorabilità per ogni credito, nei modi e nei limiti stabiliti dall’art. 545 c.p.c., solo di quella parte della pensione che non sia necessaria a garantire al pensionato i “mezzi adeguati alle sue esigenze di vita”;
rilevato che in relazione alle pensioni la soglia minima impignorabile non era stata originariamente definita dal legislatore ma era stata individuata in prima battuta dalla giurisprudenza che aveva ritenuto trattarsi di questione di merito rimessa alla valutazione del giudice della esecuzione (cfr. Cass. n. 6548/11 confermata da Cass. III civ. 18755/2013 “le soluzioni che si riforma alle normative la cui utilizzabilità diretta era già stata esclusa dalla sentenza della Corte costituzionale, ed in particolare quella che si rifà alla pensione sociale, nonché la soluzione che applica direttamente il trattamento minimo di cui alla legge n. 488 del 2001, art. 38, commi 1 e 5 e della legge n. 289 del 2002, art. 39, comma 8, presentano margini di opinabilità, poiché i relativi presupposti paiono tutti orientati esclusivamente alle specifiche finalità previdenziali o assistenziali dei singoli istituti e non sono suscettibili, se non altro in via immediata, di adeguata generalizzazione, sicché non solo, il trattamento minimo, ma neppure l’importo della pensione sociale corrispondono necessariamente al minimo indispensabile per la suissistenza in vita in condizioni dignitose. Il principio di diritto che si intende confermare allora non puoi che essere quello di cui alla sentenza appena citata, per il quale l’indagine circa la sussistenza o l’entità della parte di pensione necessaria per assicurare al pensionato mezzi adeguati alle sue esigenze di vita, e come tale legittimamente assoggettabile al regime di assoluta impignorabilità – con le sole eccezioni, tassativamente indicate, di crediti qualificati è rimessa, in difetto di interventi del legislatore al riguardo, alla valutazione in fatto del giudice dell’esecuzione ed è incensurabile in cassazione se logicamente e congruamente motivata”;
rilevato che sul punto è successivamente finalmente intervenuto il legislatore modificando l’art. 545 c.p.c. e fissando per le pensioni, al comma VII, un parametro legale corrispondente “alla misura massima mensile dell’assegno sociale, aumentata della metà” con ciò disattendendo le precedenti argomentazioni della giurisprudenza di legittimità sia per aver ora previsto per legge tale limite, costituente garanzia di un minimo assolutamente impignorabile, sia per averlo determinato con riferimento al parametro della pensione sociale;
rilevato che, per contro, il legislatore, al comma VIII dell’art. 545 c.p.c. non ha provveduto in modo analogo a disporre un generale minimo assolutamente impignorabile per le retribuzioni, prevedendo un regime speciale solo per i pignoramenti delle retribuzioni effettuati sul conto corrente o postale;
rilevato che il pensionato, essendo ritirato dal lavoro non deve farsi carico delle spese necessarie a produrre il proprio reddito, mentre il lavoratore si presuppone che debba recarsi con mezzi propri sul luogo di lavoro, vestirsi in modo adeguato alla funzione svolta, utilizzare energie anche fisiche che richiedono una alimentazione più ricca di chi è a riposo, e quindi sostenere delle spese indispensabili alla produzione di un reddito, oltre a quelle necessarie per la mera sopravvivenza (nutrirsi, coprirsi, riscaldarsi, assicurarsi un alloggio etc.);
ritenuto che anche per il lavoratore debba essere individuata un minimo vitale indispensabile e non pignorabile. che non possa essere distolto dalla funzione primaria del salario, che è quella appunto di consentire la sopravvivenza e l’utilizzo delle proprie capacità lavorative a chi abbia come sola risorsa il proprio lavoro;
ritenuto che appare illogico che tale minimo sia previsto per le pensioni e non per le retribuzioni e altrettanto illogico sarebbe se questo secondo venisse determinato secondo criteri difformi da quelli adottati nel VII comma per le pensioni (come nel citato esempio delle retribuzioni versate in conto corrente o postale per le quali comma dell’art. 545 c.p.c. prevede che “possono essere pignorate, per l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale, quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento; quando l’accredito ha luogo alla data del pignoramento o successivamente, le predette somme possono essere pignorate nei limiti previsti dal terzo, quarto, quinto e settimo comma, nonché dalle speciali disposizioni di legge”) alla luce delle comune funzione sostanziale, e cioè di rappresentare il mezzo di sostentamento in primis alimentare del percipiente;
ritenuto che in assoluto, sotto il profilo della pignorabilità, il legislatore non ha escluso l’equiparazione del trattamento delle pensioni a quello delle retribuzioni, atteso che tale parificazione avviene nel caso di retribuzioni versate in conto corrente in forza il combinato disposto dei commi VII e VIII dell’art. 545 c.p.c. e pertanto è il legislatore stesso ad avere apportato un vulnus al dogma della non equiparabilità delle due fattispecie;
ritenuto che il legislatore, al comma VIII, mediante richiamo al comma VII, ha esplicitamente parificato stipendi e pensioni nel disciplinare le somme di impignorabilità in relazione all’ipotesi in cui la pensione o lo stipendio vengano pignorati quando sono già stati accreditati sul conto corrente con ciò infrangendo il dogma della non estensibilitàdella limitazione del “minimo vitale” alla pignorabilità di versamenti di natura non pensionistica;
ritenuto dunque che, dopo la modifica dell’art. 545 c.p.c. la disparità di trattamento non si pone più tra pensioni da un lato e retribuzioni dall’altro, ma tra pensioni e retribuzioni versate in conto corrente da un lato e retribuzioni non versate in conto corrente dall’altro;
osservato che, nel tempo, la sostanziale identità di funzione della pensione e della retribuzione o salario è stata riconosciuta sempre più spessa dalla giurisprudenza, anche in applicazione di norme internazionali ed europee, per cui appare necessario un ripensamento del complesso contesto normativo, anche alla luce della nuova normativa in tema di pignoramenti per crediti tributari dello Stato (decreto-legge n. 16/2012 cd. “decreto semplificazioni” convertito in legge n. 44/2012, art. 3, comma V, che ha aggiunto, nel decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973, l’art. 72-ter, recante il titolo “Limiti di pignorabilità”;
ritenuto la “discrezionalità del legislatore”, deve essere contenuta “nei limiti di ragione” e pertanto, in assenza di un fondamento ragionevole e costituzionalmente orientato per tale disparità, non vi è posto per la “discrezionalità del legislatore”, le cui decisioni devono anzi essere sottoposte al rigoroso vaglio costituzionale della corrispondenza al dettato dell’art. 3 della Costituzione;
ritenuto che la stessa tecnica legislativa operata dal legislatore mediante il preciso richiamo al comma VII (pignorabilità delle pensioni) operato dal comma VIII (pignorabilità delle retribuzioni) nell’ipotesi di retribuzioni versate in conto corrente realizza un parallelismo tra la pignorabilità delle retribuzioni e quella delle pensioni;
ritenuto che altresì appare petizione di principio l’affermata “specificità della situazione del pensionato” atteso anzi che, nella normalità dei casi, i pensionati sono tali in quanto ex lavoratori e tra le due condizioni vi è un nesso comune per il quale di norma la pensione è frutto e conseguenza dell’esistenza di una precedente retribuzione, talché tra la condizione di lavoratore e quella di pensionato vi è di norma un continuum;
ritenuto che è concreto dunque il rischio di arroccamento su posizioni autoreferenziali che non tengono conto della realtà sostanziale delle cose e che sono di difficile comprensibilità per l’insieme dei consociati, in quanto prive di un oggettivo fondamento;
ritenuto che la previsione del IV e del VIII comma dell’art. 545 c.p.c. contrastano dunque con il principio costituzionale di eguaglianza e ragionevolezza sancito dall’art. 3 della Costituzione laddove non si estendono tout court alle retribuzioni lo stesso generale minimo assolutamente impignorabile previsto per le pensioni e lo stesso meccanismo di determinazione del minimo stesso;
rilevato che tale profilo di incostituzionalità discende non tanto in via diretta dalla violazione dell’art. 36 Cost. ma direttamente dalla violazione dell’art. 3 Cost. per effetto della disparità di trattamento tra i due regimi, per cui se in materia di pensioni è affermato il principio della necessità di una salvaguardia minima del reddito e viene stabilito un determinato punto di equilibrio tra i diritti del creditore e quelli dell’esecutato gli stessi non possono non essere applicati anche in materia di retribuzioni data la medesima funzione delle due attribuzioni economiche;
ritenuto che, aperta per tale via una breccia nella precedente posizione della giurisprudenza costituzionale, non possa a questo punto non riesaminarsi in via mediata anche la questione sotto il profilo del rispetto del dettato dell’art. 36 Cost;
ritenuto che, se la retribuzione venisse ridotta al di sotto di quel minimo vitale indispensabile alla sopravvivenza, riconosciuto per le pensioni, ne risulterebbe violato il precetto costituzionale di cui all’art. 36 Cost. che prevede che la retribuzione debba essere “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”, oltre ai precetti di cui agli articoli 1,2,3,4 Cost.;
ritenuto che ciò porterebbe al determinarsi di effetti negativi per tutto il tessuto sociale (ad es. il lavoratore sarebbe spinto ad orientarsi verso il mercato del lavoro irregolare, sarebbe spinto a comportamenti illegali, non potrebbe far fonte ai propri obblighi nei confronti della famiglia, etc.);
rilevato che la questione misura della retribuzione non ha valenza esclusivamente nei rapporti lavoratore-datore di lavoro, senza che da essa scaturisca, quindi, vincolo alcuno per terzi estranei a tale rapporto, oltre quello – frutto di razionale “contemperamento dell’interesse del creditore con quello del debitore che percepisca uno stipendio” (sentenze n. 20 del 1968 e 38 del 1970) – del limite del quinto della retribuzione quale possibile oggetto di pignoramento;
rilevato che una siffatta lettura contrasterebbe con l’art. 1 il quale proclamando che “l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” quale principio fondante dell’Ordinamento attribuisce alla retribuzione e alla sua determinazione una valenza che non si esaurisce all’ambito dei rapporti lavoratore-datore di lavoro;
rilevato altresì che tale lettura contrasta con l’art. 3 secondo comma ove viene proclamato il principio di eguaglianza sostanziale che, letto alla luce dell’art. 1, della Costituzione, pone la retribuzione e la questione della sua quantificazione quale elemento centrate nella realizzazione del suddetto principio di eguaglianza sostanziale con un preciso obbligo per il legislatore ordinario di tutelare maggiormente i cittadini che percepiscono le retribuzioni più basse;
rilevato infatti che il legislatore ordinario ha inteso concretamente realizzare il principio di eguaglianza sostanziale mediante precise scelte legislative (quale la tassazione progressiva dei redditi, gli interventi a favore dei cittadini percipienti i redditi più bassi….) finalizzate anche a tutelare la dignità dei lavoratori e basate sulla rilevazione delle disparità delle retribuzioni e sull’esistenza di livelli di soglia delle retribuzioni;
rilevato che la dignità del lavoratore, di cui l’art. 36 è tutela, è declinazione della generale dignità tutelata dall’art. 3 che, in quanto norma generale, proclama un principio non si esaurisce all’ambito dei rapporti lavoratore-datore di lavoro ma è principio fondamentale dell’Ordinamento;
considerato che la pronuncia del 2002 nel riportarsi alle precedenti, si pone in un contesto economico e sociale nonché normativo ben diverso da quello attuale, sia per quanto riguarda le modifiche normative introdotte sul regime delle pensioni e dei contratti di lavoro, sia per i mutamenti della giurisprudenza che sempre più è andata nel senso di riconoscere identità di funzioni allo stipendio ed alla pensione, sia per i dati fattuali relativi alle potenzialità di lavorare e di produrre reddito a cui una persona può aspirare. dato che la nostra società sta attraversando una crisi economica senza precedenti, ritenuta da molti esperti anche peggiore della grande crisi del 1929, situazione che determina un generalizzato impoverimento dei lavoratori dovuto alla esiguità degli stipendi, ai mancati adeguamenti alla inflazione, alla perdita di potere di acquisto dei salari e degli stipendi in generale, etc.;
ritenuto che tali mutati fattori economici fanno si che, anche nel caso di specie, in mancanza di prova contraria, si debba ritenere che l’unico reddito su cui il debitore possa far conto per la sua sopravvivenza sia quello modestissimo sottoposto a pignoramento;
osservato che nel contesto economico-sociale attuale, con i livelli di disoccupazione ormai raggiunti in Italia, con la crisi economica che si è determinata negli ultimi anni, le retribuzioni ed i salari minimi (per lavori spesso precari o part-time) come quello percepito dal debitore sono già ai limiti della sussistenza e non appare più frutto di un razionate “contemperamento dell’interesse del creditore con quello del debitore che percepisca uno stipendio” consentire il pignoramento della retribuzione, seppure nel limite di un quinto, destinata in modo essenziale ed imprescindibile a garantire la sopravvivenza fisica del lavoratore e la sua possibilità di svolgere le sue prestazioni lavorative sopportando i costi necessari a produrre la sua forza lavoro;
rilevato che per il 2016 l’assegno sociale ammonta a € 448.07 – talché il limite di impignorabilità assoluta delle pensioni, ai sensi del VII comma dell’art. 545 c.p.c. ammonta ad € 672,10;
rilevato che, la somma di € 720.00 che resterebbe al debitore dedotto un quinto del suo stipendio, appare appena superiore al minimo indispensabile ad un essere umano che lavora per sostentarsi (dubitando che tale importo possa bastare anche a sostentare la propria famiglia), tenuto conto anche del fatto che quello stesso essere umano, per produrre quel reddito deve comunque sostenere delle spese (per mangiare, vestirsi, recarsi sul luogo di lavoro etc.), per cui è impensabile che senza un reddito minimo il lavoratore possa comunque prestare la sua opera;
osservato che il comma VIII dell’art. 545 c.p.c. distingue l’ipotesi del pignoramento dello stipendio versato in conto corrente da quella dello stipendio pignorato alla fonte, presso il datore di lavoro, richiamando per il primo il VII comma e quindi prevedendo l’estensione a tale ipotesi dei limiti di pignorabilità previsti per le pensioni per le somme versate dopo il pignoramento mentre nel secondo caso devono applicarsi i limiti di cui al comma IV senza la previsione di un minimo impignorabile;
rammentato che, prima della riforma dell’art. 545 c.p.c. il problema si era posto in termini opposti (seppur parzialmente diversi) quando all’attenzione della Suprema Corte era stata posta la questione della disparità di trattamento tra il pignoramento dello stipendio alla fonte (con vincolo su un quinto dello stipendio) e il pignoramento effettuato sul conto corrente alimentato esclusivamente dallo stipendio (il cui saldo era totalmente assegnabile al creditore procedente);
considerato che il sistema presentava caratteri di profonda iniquità ed ingiustizia sociale, oltre che storture giuridico-costituzionali evidenti poiché, in sostanza, il limite di un quinto operava quando il pignoramento avveniva direttamente alla fonte, ossia direttamente da parte dell’ente previdenziale del datare di lavoro, mentre, se effettuato in un secondo momento, il pignorarnento dello stipendio, della pensione o di altro emolumento pubblico presso la banca dove il dipendente o pensionato aveva depositato le somme ricevute mensilmente il limite di un quinto non operava più;
ritenuto che in questo modo il limite del quinto pignorabile della pensione o dello stipendio veniva legalmente aggirato, consentendo a chi doveva riscuotere un credito di rifarsi direttamente, senza alcun limite, sul denaro che il soggetto deteneva sul conto, quindi anche su tutta la pensione o tutto lo stipendio e tutto ciò in maniera arbitraria ed immotivata, tenendo conto che un conto corrente bancario o postale è un prospetto analitico in cui ogni voce “in entrata” ed “in uscita” è distinta dall’altra, oltre che facilmente identificabile.
considerato il decreto legge n. 201/2011 (cd. Decreto “Salva-Italia“, successivamente convertito in legge n. 214/2011) il quale all’art. 12, comma II lett. c)., prevede che “lo stipendio, la pensione. i compensi comunque corrisposti dalla pubblica amministrazione (…) e ogni altro tipo di emolumento a chiunque destinato, di importo superiore a cinquecento euro, debbono essere erogati con strumenti diversi dal denaro contante ovvero mediante l’utilizzo di strumenti di pagamento elettronici bancari o postali, Il limite di importo di cui al periodo precedente può essere modificato con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze”, limite poi elevato a € 1.000,00;
considerato che gli “strumenti di pagamento elettronici bancari o postali” sono costituiti dal bonifico bancario o postale ovvero il bollettino postale (che presuppongono necessariamente l’esistenza di un conto corrente di appoggio);
ritenuto che quindi, che i percettori di superiori a € 1.000,00 non avevano altra scelta che l’apertura di un conto corrente, lungi da essere ciò frutto di una libera decisione;
ricordato che in giurisprudenza solo un orientamento minoritario dei Tribunali di merito ha rilevato l’iniquità della mancanza di limiti alla pignorabilità delle somme versate in conto corrente a titolo di pensione e/o retribuzione (Tribunale Sulmona, ordinanza 20 marzo 2013; Tribunale Cagliari, ordinanza 13 aprile 2013; Tribunale Savona, ordinanza 2 gennaio 2014);
osservato che, posta la questione all’attenzione del Tribunale di Lecce, questi, con Ordinanza 12 febbraio 2014 ha sollevato la questione di incostituzionalità dell’art. 12 comma 2 lett. c) legge n. 214/2011, per violazione degli arti 38, e 3 della Costituzione, nella parte in cui non ha previsto che siano fatte salve le limitazioni in materia di pignoramento di cui all’art. 545 c.p.c.;
osservato che la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 12. comma 2 del dl 201/2011 (convertito in legge n. 148/2011), ha dichiarato l’inammissibilità della questione quale conseguenza dall’errore di individuazione della norma censurata in cui è incorso il Tribunale di Lecce, giudice rimettente, il quale “non deve fare applicazione, nel caso di specie, della norma impugnata – volta ad assicurare misure di tutela della sicurezza sociale e di contrasto alla criminalità organizzata – bensì delle disposizioni in tema di conto corrente, le quali comportano – alla stregua della giurisprudenza testè richiamata – l’assenza di limiti al generale principio della responsabilità patrimoniale di cui all’art. 2740 del codice civile” (Corte costituzionale 15 maggio 2015 n. 85);
considerato che, con riferimento a queste tematiche, la Corte costituzionale aveva già dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che ponevano un assoluto divieto alla pignorabilità delle pensioni erogate dall’INPS (limitando l’impignorabilità assoluta alla sola parte necessaria per soddisfare le esigenze minime di vita del pensionato) e che, ulteriormente, la Corte aveva affermato che l’esclusione della pignorabilità dei crediti da pensione non poteva riguardare l’intera somma, bensì la sola parte necessaria ad assicurare mezzi adeguati alle esigenze di vita dei pensionati (mentre per la pane restante continuano a valere gli ordinari limiti), mentre, analoga interpretazione non era ancora stata fatta con riguardo alla fattispecie oggetto dell’Ordinanza del Tribunale di Lecce, che riguarda le somme transitate dal soggetto erogatore dell’indennità di disoccupazione al conto corrente dell’avente diritto;
considerato dunque che con sentenza 15 maggio 2015 n. 85 la Corte costituzionale ha affermato che “se il credito per il saldo del conto corrente, nonostante sia stato alimentato da rimesse pensionistiche, non gode, allo stato della legislazione, della impignorabilità parziale relativa ai crediti da pensioni, ciò non può precludere in radice la tutela dei principali bisogni collegati alle esigenze di vita del soggetto pignorato, (…) In tale contesto, l’individuazione e le modalità di salvaguardia della parte di pensione necessaria ad assicurare al beneficiario mezzi adeguati alle sue esigenze di vita è riservata alla discrezionalità del legislatore, il quale non può sottrarsi al compito di razionalizzare il vigente quadro normativa in coerenza con i precetti dell’art. 38 Cost“, dichiarando formalmente inammissibile la questione di incostituzionalità, pur rilevando la sussistenza di un vuoto di tutela imputabile al legislatore, ed esortando quest’ultimo a porvi rimedio, senza ricorrere ai ben più incisivi strumenti dei quali dispone per garantire immediatamente il pieno rispetto della Costituzione;
considerato dunque che, riformando il comma VIII il legislatore ha inteso correggere tale stortura prevedendo un vincolo di impignorabilità assoluta (“il tripla dell’assegno sociale”) sia per gli stipendi che per le pensioni, ma è andato oltre prevedendo un regime di favore per le somme pervenute sul conto corrente a titolo di retribuzione dopo la data del pignoramento;
considerato che appare contrario al principio di eguaglianza di cui all’art. 3, Costituzione che il medesimo stipendio sia trattato in modo diverso qualora il creditore pignorante decida di procedere al pignoramento presso la fonte (il datore di lavoro) o presso la destinazione (il conto corrente) con un trattamento decisamente deteriore questa volta per la prima ipotesi;
considerato dunque che la questione si pone ora in termini diversi e con elementi di novità (quale il novellato testo dell’art. 545 c.p.c.) rispetto al quesito posto alla Corte costituzionale dal Tribunale di Lecce e pertanto la questione è da ritenersi non manifestamente infondata;
rilevato altresì che tale differenziazione, come detto ontologicamente priva di giustificazione, appare contraria al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., atteso che il prelievo è maggiore proprio nell’ipotesi in cui il pignoramento colpisce tutte le somme dovute al lavoratore in costanza del rapporto di lavoro subordinato (quindi con una maggior possibilità di soddisfare il proprio credito per il creditore procedente) rispetto a quella in cui il vincolo si estende sulle ben più ridotte mensilità pervenute sul conto corrente nell’intervallo temporale tra la data del pignoramento e la data dell’assegnazione operata dal giudice dell’esecuzione;
ritenuto che I’VIII comma dell’art. 545 c.p.c. violi il principio di eguaglianza non solo sotto il profilo del diverso trattamento riservato allo stesso stipendio se pignorato alla fonte o sul conto corrente, ma anche in relazione alla diversa prospettiva di un confronto tra stipendi diversi ma omologhi e tuttavia trattati in modo diseguale;
osservato che l’VIII comma dell’art. 545 c.p.c., prevede ora che “le somme dovute a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, … nel caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore, possono essere pignorate. … quando l’accredito ha luogo alla data del pignoramento o successivamente. nei limiti previsti dal terzo, quarto, quinto e settimo comma” e pertanto che, considerato che il VII comma è norma derogatoria rispetto al IV comma e pertanto su questo prevalente, alle somme versate in conto corrente dalla data del pignoramento in poi si devono applicare i limiti di pignorabilità di cui al comma VII (“non possono essere pignorate per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale, aumentato della metà”):
osservato che VIII comma dell’art. 545 c.p.c. parla genericamente di somme accreditate “successivamente, senza prevedere alcuna limitazione temporale e che quindi la norma si applica a tutte le somme accreditate sul conto corrente a far data dal pignoramento;
considerato che per pacifico orientamento giurisprudenziale di merito e di legittimità possono essere pignorate anche somme ancora non liquide ed esigibili e neppure allo stato esistenti in quanto somme future a condizione che la loro venuta ad esistenza appaia alquanto probabile come in presenza di un contratto, quale è il contratto generante un rapporto di lavoro subordinato;
considerato che l’art. 545 c.p.c. deve essere visto in un ottica sistemica rispetto all’insieme delle norme in vigore ed in particolare rispetto al decreto legge n. 201/2011 (cd, decreto “Salva-Italia” successivamente convertito in legge n. 214/2011) ed in particolare all’art. 12, comma II, lettera c);
ritenuto che quindi, allo stato, alla luce dell’obbligatorietà di tale modalità di corresponsione degli stipendi si è costituita una vera e propria presunzione legale per cui gli stipendi superiori a € 1.000,00 non possono che essere versati in conto corrente (bancario o postale);
ritenuto dunque, per il combinato disposto dei commi VII e VII dell’art. 545 c.p.c. e del art. 12 del cd. decreto – Salva-Italia che a tutte le retribuzioni a partire dall’importo di € 1.000,00 mensili siano da applicare i limiti di impignorabilità di cui al VII comma dell’art. 545 c.p.c. (“non possono essere pignorate per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale aumentato della metà”;
considerato che la predetta presunzione legale non opera per le retribuzioni di importo fino a € 1.000,00 le quali restano soggette ai limiti di cui al comma IV dell’art. 545 c.p.c.e sono quindi sottoposte ad un prelievo del quinto del totale, senza la previsione del minimo impignorabile;
considerato che dunque, in concreto, vengono penalizzati proprio le retribuzioni più basse a favore di quelle più elevate;
rilevato dunque che subiscono un trattamento deteriore proprio le retribuzioni più basse in violazione del principio di eguaglianza formale, di eguaglianza sostanziale, di ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione;
Osserva
Che sussistono seri dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art. 545, IV comma c.p.c., VIII comma c.p.c., nella parte in cui con riferimento alle “somme dovute dai privati a titolo di stipendio, di salario o altre indennità relative al rapporto di lavora o di impiego comprese quelle dovute a causa di licenziamento” indicate nel II comma, prevede che: “Tali somme possono essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato, alle province ed ai comuni, ed in eguale misura per ogni altro credito” e non prevede invece un minimo impignorabile necessario a garantire al lavoratore “mezzi adeguati alle sue esigenze di vita”, ed una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia una esistenza libera e dignitosa” con particolare riferimento alle esigenze di un reddito minimo che gli consenta di sostenere le sue spese minime necessarie al suo stesso sostentamento in vita ed in condizioni di vita adeguate a consentirgli la stessa produzione del reddito.
Detta disposizione si pone in contrasto con gli artt. 1, 2, 3 e 36, della Costituzione.
In relazione all’art. 1 della Corte costituzionale che afferma che la Repubblica è “fondata sul lavoro”, all’art. 2 che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, all’art. 3 che sancisce il principio di eguaglianza formale e sostanziale ed il principio di ragionevolezza, all’art. 36 che prevede che la retribuzione deve essere non solo commisurata alla quantità e qualità del lavoro prestato, ma anche che deve essere “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”.
Al cittadino lavoratore deve essere garantito che il frutto del suo lavoro, cioè il suo stipendio o salario, sia destinato almeno nei limiti del minimo indispensabile, al soddisfacimento delle esigenze primarie di sopravvivenza sue e della famiglia, diversamente ne risulterebbe violata sia la dignità del lavoro come fondamento stesso della Repubblica, sia il diritto al lavoro (in quanto lavorare può diventare economicamente non conveniente), sia il diritto a che la retribuzione percepita sia “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia una esistenza libera a dignitosa”.
Il principio di uguaglianza e di ragionevolezza (art. 3) risulta violato in relazione al diverso trattamento che riguarda il pensionato, il quale, non prestando più attività lavorativa riceve una tutela della propria pensione (che può essere vista anche come una retribuzione differita) diversa e maggiore di quella che riceve un lavoratore attivo, il quale ha ancora più necessità di vedere tutelato un limite vitale di sopravvivenza oltre il quale il suo stipendio non può essere assoggettato a pignoramento. Tale differenza, avuto riguardo ai cambiamenti intervenuti nel contesto normativa, nella giurisprudenza, nel tessuto sociale, nella economia, non appare più giustificata da alcun principio di ragionevolezza.
Il principio di uguaglianza risulta anche violato in relazione al diverso trattamento che riceve il debitore a seconda del credito per cui si procede. Se il credito è erariale, paradossalmente il debitore risulta maggiormente tutelato, quando invece le ragioni di interesse pubblico e di quadro normativo di riferimento dovrebbero giustificare, al contrario, un miglior trattamento dei crediti erariali rispetto a quelli comuni.
Questo remittente non ignora le precedenti pronunce (anche recenti) della Corte costituzionale ma ritiene che la sentenza 3 dicembre 2015 n. 248 abbia omesso di pronunciarsi in relazione alla questione principale, quale la contrarietà della norma all’art. 3 Cost. Ritiene altresì che la carenza di esame alla luce dell’art. 3 Cost. abbia indotto la Corte a esaminare la questione sollevata solo alla luce dell’art. 36 Cost., senza che questo venisse letto in relazione all’art. 3 Cost. Ritiene altresì che l’Ordinanza del Tribunale di Viterbo non sottoponesse all’esame della Corte costituzionale l’equiparazione effettuata dal comma VIII dell’art. 545 c.p.c. tra le pensioni e gli stipendi accreditati in conto corrente. Ritiene infine che nel complesso la sentenza non motivi passaggi essenziali del suo ragionamento giuridico.
La questione è rilevante nel giudizio in corso ai fini della decisione – adattabile anche ex officio – sulla quantificazione dell’importo che può essere assegnato al creditore.
Osserva altresì
Che sussistono seri dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art. 545, VIII comma c.p.c., nella parte in cui prevede che “Le somme dovute a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione, di assegni di quiescenza. nel caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore, possono essere pignorate, per l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale, quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento;
quando l’accredito ha luogo alla data del pignoramento o successivamente, le predette somme possono essere pignorate nei limiti previsti dal terzo, quarto, quinto e settimo comma, poiché dalle speciali disposizioni di legge” e non prevede invece tali limitazioni per le retribuzioni non versate in conto corrente che restano soggette alle limitazioni di cui all’art. 545 c.p.c. IV comma;
Detta disposizione si pone in contrasto con gli artt. 1, 3 e 36, della Costituzione.
In relazione all’art. 1 della Corte costituzionale che afferma che la Repubblica è “fondata sul lavoro”, all’art. 3 che sancisce il principio di eguaglianza formale e sostanziale ed il principio di ragionevolezza, all’art. 4 che riconosce e garantisce il diritto al lavoro e il dovere di ogni cittadino di svolgere una attività o funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società, all’art. 36 che prevede che la retribuzione deve essere non solo commisurata alla quantità e qualità del lavoro prestato, ma anche che deve essere “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”.
Il principio di uguaglianza e di ragionevolezza (art. 3) risulta violato in relazione al diverso trattamento da applicarsi al medesimo reddito qualora venga pignorato alla fonte (ove il IV comma dell’art. 545 c.p.c. consente la pignorabitità di un quinto calcolato sul totale) o una volta che è stato accreditato in conto corrente dopo il pignoramento (ove il combinato disposto dei commi VIII e VII dell’art. 545 c.p.c. limita la base di calcolo del quinto alla differenza tra quanto percepito e il minimo vitale stabilito dal VII comma. differenza di trattamento che non appare giustificata da alcun principio di ragionevolezza tenendo presente che si tratta del medesimo reddito.
Il principio di uguaglianza formale risulta anche violato in relazione al diverso trattamento che riceve il debitore percipiente un reddito superiore alla somma di € 1.000,00 mensili da quello riservato al debitore percipiente un reddito inferiore a tale soglia.
Per il per il combinato disposto dei commi VII e VII dell’art. 545 c.p.c. e dell’art. 12 del cd. decreto “Salva-Italia, infatti, tutte le retribuzioni a partire dall’importo di € 1.000,00 godono della presunzione legale che trattasi di retribuzioni pagate” con strumenti diversi dal denaro contante ovvero mediante l’utilizzo di strumenti di pagamento elettronici bancari o postale e cioè con accredito in conto corrente. Alle stesse si applica dunque indifferentemente il combinato disposto dei commi VIII e VII dell’art 545 c.p.c. l’addovestabilisce che “le somme dovute a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, … nel caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore. possono essere pignorate, … quando l’accredito ha luogo alla data del pignoramento o successivamente, nei limiti previsti dal terzo, quarto, quinto e settimo camino, e cioè per un quinto calcolato sull’eccedenza del minimo vitale pari ad “un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale, aumentato della metà”, atteso che il VII comma dell’art. 545 c.p.c. richiede esclusivamente che l’accredito avvenga “alla data del pignoramento o successivamente” senza altre limitazioni, il che consente di applicare la norma non solo agli accrediti in conto corrente sino all’ordinanza di assegnazione, ma ad ogni forma di pagamento in conto corrente della retribuzione successiva al pagamento. Non così è per il lavoratore che percepisca un reddito inferiore a € 1.000.00 mensili, per il quale il IV comma prevede che il calcolo del quinto pignorabile avvenga sull’intero ammontare della retribuzione;
Tale differenziazione viola altresì il principio di ragionevolezza, in quanto non sussiste che giustifichi un trattamento differenziato di due attribuzioni patrimoniali entrambe quali &abili come retribuzione;
Tale differenziazione viola infine il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, Cost. il quale recita che “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di nati i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” vincolando il legislatore ordinario a legiferare conferendo una particolare protezione ai soggetti economicamente più deboli mentre nella situazione illustrata avviene paradossalmente l’opposto atteso che sono le retribuzioni più basse (quelle sino a € 999,00) a subire il prelievo proporzionalmente maggiore;
E’ dunque paradossale che vengano colpiti più duramente i debitori che dovrebbero essere maggiormente tutelati.
La questione è anch’essa rilevante nel giudizio in corso ai fini della decisione – adottabile anche ex officio – sulla quantificazione dell’importo che può essere assegnato al creditore.
Si dispone che la cancelleria effettui le comunicazioni previste dalla legge.
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