La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 245 depositata il 9 gennaio 2014 intervenendo in tema di accertamento induttivo ha statuito che è legittimo il recupero delle maggiori imposte a carico dell’imprenditore che ha venduto un immobile alla moglie ed il contratto si presume simulato se non si supera la presunzione di corrispondenza tra il valore di mercato e il prezzo incassato.
La vicenda ha riguardato un imprenditore che aveva venduto un immobile al proprio coniuge e che in seguito ad una verifica fiscale e dei conseguente p.v. di constatazione gli veniva emesso un avviso di accertamento per maggiore imposte, basato anche sulla perizio dell’Agenzia del territorio, con cui venivano rettificato il reddito di impresa per la differenza tra il valore di vendita dichiarato e quanto accertato di un immobile, venduto al coniuge poi adibito a residenza della famiglia, ed in particolare veniva ritenuto parzialmente simulato il contratto di vendita con il coniuge. Il contribuente avverso tale atto impositivo proponeva ricorso inanzi alla Commissione Tributaria Provinciale i cui giudici rigettarono le doglianze dell’ imprenditore. Il contribuente impugnava la decisione del giudice di prime cure dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale che, però, confermava la sentenza di primo grado. I giudici di appello hanno sostenuto la legittimità dell’avviso di accertamento sulla base della documentazione agli atti sufficientemente supportato da “presunzioni gravi, precise e concordanti, ai sensi dell’art.39, comma 1, DPR 600/1973”.
Per la cassazione della decisione del giudice di seconde cure, il contribuente, proponeva ricorso, basato su un unico motivo, alla Corte Suprema. Il contribuente contestando in particolare la qualificazione del maggior prezzo stimato come “ricavi”, ai sensi dell’articolo 53 primo comma lett. a) del TUIR. Sul punto il ricorrente ha sostenuto che si era trattato, al più, di un contratto di compravendita tra coniugi, misto a donazione, tanto da rappresentare una forma di “autoconsumo” (essendo l’unità adibita a dimora familiare), ai sensi dell’articolo 53 secondo comma del TUIR.
Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso del contribuente. I giudici di legittimità hanno riconfermato il principio secondo cui in tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora sia contestata una plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione a titolo oneroso di un’unità immobiliare, l’onere di provare che l’operazione è parzialmente (quanto al prezzo di vendita) simulata incombe all’Amministrazione Finanziaria, la quale adduca l’esistenza di maggiori ricavi. Tale onere probatorio può essere adempiuto anche sulla scorta di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, non ostandovi il divieto della doppia presunzione, il quale attiene esclusivamente alla correlazione tra una presunzione semplice con altra presunzione semplice, e non può quindi ritenersi violato nel caso in cui da un fatto noto si risalga a un fatto ignorato, che a sua volta costituisce la base di una presunzione legale (cfr. Cass. 10517/2010). Rimane a carico del contribuente l’onere di superare la presunzione di corrispondenza tra il valore di mercato e il prezzo incassato (cfr. Cass. 4057/2007).
I giudici della Corte continuando nelle motivazioni evidenziano che nel caso di specie “non può desumersi il difetto di altri elementi, oltre all’accertamento del valore venale, proposti dall’Ufficio, idonei (per gravità, precisione e concordanza) a far fondatamente ritenere, prima, che la contabilità della ditta, formalmente regolare, in realtà fosse inattendibile e, poi, che il corrispettivo ricavato fosse, diverso da quello denunziato, ma pari a quello del valore venale”.
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