La Corte di Cassazione sez. penale con la sentenza n. 32463 del 25 luglio 2013 depositata il 6 settembre 2013 intervenendo in tema di violenza privata ha confermato che “I diritti del datore di lavoro alle prestazioni consistenti in un facere non sono coercibili sotto alcun profilo: né sul piano naturalistico, trattandosi di comportamenti personali volontari, né sul piano del diritto positivo, che prevede l’esecuzione coattiva degli obblighi di fare solo per comportamenti surrogabili, che non discendano da intuitus personae, mentre la tutela verso gli inadempimenti di obblighi incoercibili resta essenzialmente risarcitoria”.
La vicenda ha visto protagonista il dirigente del Comune che ha imposto all’impiegata di riprendere la riunione interrotta è stato quindi condannato a quattro mesi di reclusione, nonché al risarcimento del danno alla vittima costituitasi parte civile. E ciò, nonostante l’imputato sia stato assolto in precedenza: non è necessario, avvisano i giudici, riaprire l’istruttoria, se alla riforma della sentenza precedentemente emessa si giunge lasciando inalterata la ricostruzione compiuta dal primo giudice, compresa la sostanziale ammissione dei fatti da parte dell’imputato. Il quale non aveva avuto remore nell’ammettere di aver inseguito la donna, ‘fuggita’ durante la riunione di lavoro che per lei si stava mettendo male, per costringerla a rimettersi a sedere alla scrivania, il tutto per ‘concludere il discorso’.
Il punto è che nel nostro ordinamento non vi è disposizione alcuna che autorizzi o tolleri una pretesa al corretto adempimento della prestazione lavorativa, soprattutto attraverso l’utilizzo della forza fisica.
Non rileva la circostanza che la destinataria del comportamento dell’agente sia un sottoposto, la cui condotta ribelle risulta peraltro giustificata dalla concitazione del momento: il dirigente avrebbe dovuto irrogare una sanzione disciplinare, ma non usare mezzi sproporzionati come invece ha fatto.
Gli Ermellini hanno esaminato anche un’altra doglianza del ricorrente evidenziando che “al risarcimento dei danni e al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile, secondo un consolidato e condivisibile orientamento interpretativo il giudice di appello, che su gravame del solo pubblico ministero, condanni l’imputato assolto nel giudizio di primo grado, deve provvedere anche sulla domanda della parte civile che non abbia impugnato la decisione assolutoria ( S. U. n. 30327 del 10.7.02, rv 222001, conf. sez. 5 ,n. 16961 del 12.2.2010,rv 246876).
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