Per cui l’Amministrazione finanziaria conferma la correttezza del comportamento del contribuente. Precisando, inoltre, che in detti casi il contribuente può procedere alternativamente per sanare l’errore procedendo:
- ad emettere note di variazione in aumento, ai sensi dell’articolo 26, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972, ad integrazione delle fatture originarie;
- stornare, ai sensi dell’articolo 26, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, le fatture originarie con l’emissione di note di variazione in diminuzione ed emettendo nuove fatture.
L’Agenzia stigmatiza il comportamento del committente precisando che il rifiuto delle fatture e delle note di variazione non sembra trovare una giustificazione nella normativa tributaria.
L’Agenzia delle Entrate chiarisce che “l’Iva addebitata a titolo di rivalsa, il soggetto passivo che effettua una cessione di beni o una prestazione di servizi imponibile e versa l’imposta all’erario in base all’articolo 17, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972, ha l’obbligo di addebitare la relativa imposta a titolo di rivalsa al proprio cessionario/committente, come previsto dall’articolo 18, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972.
L’esercizio della rivalsa trova concreta applicazione attraverso l’addebito dell’Iva nella fattura.
In base all’articolo 19, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972, l’addebito dell’imposta in fattura, a titolo di rivalsa, consente all’acquirente del bene o al committente del servizio – se soggetto passivo d’imposta – di esercitare la detrazione dell’Iva corrisposta. Si realizza quindi la piena corrispondenza tra la somma dovuta all’erario dal fornitore e quella ammessa in detrazione in capo al soggetto acquirente.”
L’Agenzia puntualizza che la rivalsa verso il committente è di natura privatistica. Per cui come affermato dalla Corte di cassazione (c.f.r. sentenze n. 17174 del 26 agosto 2015 e n. 24794 del 24 novembre 2005) la rivalsa si effettua sulla base di un rapporto di natura non tributaria, ma privatistica, autonomo rispetto al rapporto tributario che lega il cedente/prestatore e l’Amministrazione finanziaria.
Conseguentemente, la possibilità di recuperare l’Iva, correttamente versata all’erario dall’istante in seguito ad emissione delle nuove fatture ed addebitata a titolo di rivalsa, ma non versata dal committente, non trova soluzione nel sistema fiscale,salvo che non si proceda con una procedura esecutiva individuale rimasta infruttuosa.In tal caso trova applicazione l’articolo 26, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972.
Ritenuta d’acconto
L’Agenzia delle Entrate, con la risposta n. 499 del 26 novembre 2019, interviene in tema dell’obbligo di effettuare la ritenuta. Nel caso di specie come si ricorda non è stata applicata per erronea applicazione dei requisiti del regime forfettario.
L’istante chiede all’Agenzia delle Entrate se può scomputare dalle imposte dovute in base alla dichiarazione dei redditi le ritenute subite dal committente, nell’ipotesi in cui quest’ultimo non proceda al relativo versamento.
L’Amministrazione finanziaria evidenziando che il committente abbia rifiutato le note di variazione e le fatture elettroniche non ha operato alcuna ritenuta a titolo di acconto per cui l’istante non può vantare alcun credito ai fini dell’imposta sul reddito.
Nella risposta in commento si preme sottolineare che l’Agenzia ha fatto proprio il principio di diritto statuito dalla Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 10738 depositata il 12 aprile 2019 secondo cui Nel caso in cui il sostituto ometta di versare le somme, per le quali ha però operato le ritenute d’acconto, il sostituito non è tenuto in solido in sede di riscossione, atteso che la responsabilità solidale prevista dall’articolo 35 d.p.r. n. 602 cit. è espressamente condizionata alla circostanza che non siano state effettuate le ritenute”
Alla luce di tale principio, recepito anche dall’Agenzia delle Entrate, il sostituito che ha subito la ritenuta può scomputare il predetto importo nella dichiarazione dei redditi della imposte dovute, anche senza essere in possesso della relativa certificazione.