La Corte di Cassazione sez. lavoro con la sentenza n. 22611 depositata il 03 ottobre 2013 intervendendo in tema di qualificazione del rapporto di lavoro ha statuito che non vi è l’esistenza del vincolo di subordinazione nel caso in cui un dirigente non risponda al consiglio di amministrazione nell’esecuzione della sua attività. Per cui il lavoratore deve essere considerato un manager e non un lavoratore subordinato.
Gli Ermellini hanno precisato che l’esistenza del vincolo di subordinazione presuppone l’assoggettamento al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro con conseguente limitazione dell’autonomia del soggetto, che non sono provate dal lavoratore. Altri elementi, come la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario di lavoro e la retribuzione, nel caso in esame sono considerati elementi sussidiari e non decisivi per la valutazione.
La vicenda ha riguardato la richiesta di Z.M. nei confronti dell’Associazione inoltrata al Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, volta ad ottenere l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la qualifica dirigenziale di direttore generale con ogni consequenziale condanna, per differenze retributive e regolarizzazione contributiva.
Il Tribunale adito rigettava la domanda di Z.M. , tale decisione veniva confermata anche dalla Corte di Appello che evidenziava come dalle risultanze della istruttoria espletata non era emerso l’assoggettamento dell’appellante al potere gerarchico e (potenzialmente) disciplinare del consiglio di amministrazione, come rilevato anche dal giudice di prime cure.
Avverso la decisione del giudice di secondo grado veniva proposta, da Z.M., ricorso alla Suprema Corte basandolo su un unico motivo di censura.
I giudici di legittimità hanno ritenuto il motivo inammissibile oltre che infondato. Infatti la Corte di Cassazione rileva, tra gli altri, che “gli specifici dati della controversia, dedotti per invalidare la motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante o determini, al suo interno, radicali incompatibilità sì da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (v., tra le varie, Cass. 24744/2006, Cass. 17076/2007).”
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