La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 27822 depositata il 12 dicembre 2013 intervenendo in tema di accertamento induttivo ha statuito che è legittimo l’accertamento induttivo quando il risultato del calcolo dell’Ufficio non è il prodotto di dati velleitari costruiti dal nulla ma la risultanza della constatazione di una grave incongruenza tra ricavi e reddito dichiarati, indicati puntualmente con dati numerici prelevati dalla contabilità.
La vicenda ha riguardato una società a cui l’Amministrazione finanziaria notificava un avviso di accertamento, ai fini dell’IRPEG e dell’ILOR, con cui, in seguito all’esito del contraddittorio con la contribuente, veniva rideterminato il reddito d’impresa mediante rettifica con metodo analitico induttivo, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lettera d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 del 1973, applicato secondo il disposto dell’art. 62 sexies, comma 3, del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito nella legge 29 ottobre 1993, n. 427.
Avverso tale atto impositivo la contribuente ricorreva alla Commissione Tributaria Provinciale i cui giudici rigettavano le doglianze della ricorrente. La società impugnava la pronuncia del giudice di prime cure inanzi alla Commissione Tributaria Regionale che confermava la sentenza di primo grado ritenendo legittimo l’accertamento del Fisco.
La società contribuente per la cassazione della sentenza del giudice di appello proponeva ricorso, basato su quattro motivi di censura, alla Corte Suprema.
Gli Ermellini rigettano il ricorso del contribuente. I giudici di legittimità nella sentenza in commento hanno riaffermato (v. Cass., sentenza n. 8643 del 2007) il principio secondo cui nell’accertamento delle imposte sui redditi l’articolo 62 sexies del D.L. n. 331/93 (L. conv. n. 427/93) consente, pure in presenza di contabilità formalmente regolare e senza obbligo di ispezione dei luoghi, se non assolutamente necessaria, la rettifica induttiva del reddito d’impresa qualora emergano gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta o agli studi di settore, e quindi anche al di fuori delle ipotesi previste dell’articolo 39 primo comma lett. d) del D.P.R. n. 600/73 (metodo analitico – induttivo).
Si è così sostenuto (v. Cass., sentenza n. 16430 del 2011) che l’Amministrazione Finanziaria è abilitata a fondare il proprio accertamento sia sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili “dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio dell’attività svolta”, sia sugli studi di settore, nel quale ultimo caso l’Ufficio non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale di settore, potendosi basare anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente.
Nella sentenza i giudici evidenziano come “il risultato del calcolo dell’Ufficio non è il prodotto di dati velleitari costruiti dal nulla, ma, come dice la norma, la risultante della constatazione di una grave incongruenza tra ricavi e redditi dichiarati, che l’ufficio ha indicato puntualmente con dati numerici prelevati dai documenti contabili […]. In altri termini, i dati contabili utilizzati dall’organo investigativo per la ricostruzione dell’indice medio di ricarico sui costi, sono stati tutti o attinti dalle scritture e dai dati rilevati nel corso delle ispezioni, o ricostruiti ‘in contraddittorio’ con il rappresentante della società, sia nella fase di determinazione dei prezzi di vendita praticati, sia nella fase dell’applicazione del correttivo in diminuzione dell’indice di ricarico teorico risultato dall’applicazione della formula, dal 61,31 % al 50%…”.
Per quanto concerne il rapporto tra giudicato penale e tributario e giudicato esterno i giudici affermano che la doglianza e infondata in quanto il giudice di merito, premessa l’affermazione del principio generale di reciproca autonomia fra il processo penale e il processo tributario, anche in ragione della tutela degli interessi che ciascun procedimento persegue, ha rilevato, in concreto, che “gli elementi che la contribuente chiede di assumere dai verbali del processo penale, ai quali ovviamente non potrebbe attribuirsi altra valenza se non quella di elementi di valutazione aggiuntivi rimessi all’apprezzamento del giudice tributario, non conferiscono alcun dato ulteriore di rilievo rispetto a quelli già conosciuti in relazione alla metodologia di accertamento adottato e, pertanto, non rivestono valenza utile ai fini del decidere. Continuando i giudici della Corte puntualizzano che ai sensi dell’art. 654 del cod. proc. pen., che ha implicitamente abrogato l’art. 12 del d.l. n. 429 del 1982 (convertito nella legge n. 516 del 1982), poi espressamente abrogato dall’art. 25 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, l’efficacia vincolante del giudicato penale non opera automaticamente nel processo tributario, poiché in questo, da un lato, vigono limitazioni della prova (come il divieto della prova testimoniale) e, dall’altro, possono valere anche presunzioni inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna.
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