La vicenda ha origine dall’emissione di un avviso di accertamento che procedeva a rettificare il contenuto della dichiarazione dei redditi di una società in accomandita semplice. Il predetto avviso di accertamento il quale diviene definitivo per mancata impugnazione nei termini previsti per la sua impugnazione. L’avviso di accertamento comportava anche conseguenze per i soci, in quanto l’Agenzia delle Entrate imputava per trasparenze il maggior reddito ai soci ai sensi dell’articolo 5 del TUIR ed irrogazione delle relative sanzioni.
Il socio ricorre avverso l’atto impositivo, per richiedere la non applicazione delle sanzioni, alla Commissione Tributaria Provinciale. I giudici di primo grado accolgono le doglianze della ricorrente. La sentenza del giudice di prime cure viene confermata, a seguito di ricorso dell’Agenzia delle Entrate, anche dalla Commissione Tributaria Regionale. I giudici di appello hanno ritenuto che al contribuente “non fosse imputabile alcun coefficiente di dolo o colpa per il maggior reddito accertato in capo alla società, con la conseguenza che non gli potevano essere addebitate le sanzioni previste.” In particolare, per i giudici meneghini, “l’omesso controllo non era dipeso da negligenza o complicità ma nella comprensibile fiducia nell’agire dei familiari, anch’essi soci, i quali esercitavano il potere gestionale, cui il ricorrente era estraneo, anche per formazione professionale.”
L’Amministrazione finanziaria impugna la decisione della CTR con ricorso in cassazione fondato su un unico motivo.
Gli Ermellini accolgono il ricorso del Fisco cassando, senza rinvio, la sentenza d’appello.
La Corte Suprema precisano che la qualità di socio accomandante del contribuente non fa venir meno l’imputabilità al socio del maggior reddito accertato, di cui ha beneficiato per l’incremento di ricchezza della società. La mancanza di una formazione estranea alla materia societaria non rileva, in quanto i diritti amministrativi avrebbero potuto essere esercitati con l’ausilio di soggetti reputati competenti. Per cui rivestire la qualità di socio accomandante significa inevitabilmente assumere i relativi diritti, obblighi e responsabilità.
I giudici di legittimità, nella sentenza in commento, hanno dato continuità al principio di diritto secondo cui: “il maggior reddito risultante dalla rettifica operata nei confronti di una società di persone – reddito che, a norma del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 579, art. 5, va imputato al socio (come proprio di questo) ai fini dell’IRPEF (non essendo la società di persona soggetto passivo dell’imposta sul reddito), in proporzione della relativa quota di partecipazione – comporta anche l’applicazione allo stesso socio della sanzione per infedele dichiarazione prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 46. Ciò vale anche per il socio accomandante di società in accomandita semplice, essendo irrilevante l’estraneità di tali soci all’amministrazione della società, in quanto ad essi è sempre consentito di verificare l’effettivo ammontare degli utili conseguiti: la sanzione, quindi, non viene irrogata all’accomandante sulla base della mera volontarietà, in contrasto con l’elemento della colpevolezza introdotto dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 5 in quanto, nel suo caso, la colpa consiste nell’omesso od insufficiente esercizio del potere di controllo sull’esattezza dei bilanci della società, ai sensi dell’art. 2320 cod. civ., u.c. (Cass., 19456/2009: ); ove il socio di società di persone non abbia dichiarato, per la parte di sua spettanza, il reddito societario risultante dalla rettifica operata dall’amministrazione a carico della società risponde delle sanzioni per l’infedele dichiarazione, atteso che la loro applicazione trova causa nella dichiarazione di un reddito inferiore a quello imponibile e che il socio non può farsi scudo della società, attribuendo esclusivamente ad essa la violazione fiscale, atteso che la sua posizione nell’ambito della compagine sociale, tanto nel caso in cui non rivesta la carica di amministratore, quanto, a maggior ragione, qualora la rivesta, gli consente il controllo dell’attività della società e della sua contabilità e quindi di verificare l’effettivo ammontare del suo reddito e, pertanto, degli utili conseguiti in proporzione alla propria quota di partecipazione.” (da ultimo Cass. n. 10501/14, Cass. n. 22122/10).
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