CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 giugno 2022, n. 20531
Licenziamento collettivo – Trasferimento di azienda – Violazione dei criteri di scelta – Mancata comparazione di posizioni fungibili – Illegittimità – Improcedibilità della domanda di risarcimento nei confronti di società sottoposta ad amministrazione straordinaria
Rilevato che
1. La Corte di appello di Roma, con sentenza del 18.12.2018, in parziale riforma della pronuncia di primo grado che, nell’ambito di un procedimento ex legge n. 92 del 2012 avente ad oggetto il licenziamento intimato all’odierna controricorrente in data 31.10.2014 dalla A.C.A.I. spa all’esito di una procedura di licenziamento collettivo, aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro inter partes con effetto dalla data del licenziamento e aveva condannato la C. al pagamento, in favore del lavoratore di una indennità risarcitoria onnicomprensiva pari a 14 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, ha, invece, previa declaratoria di illegittimità del recesso, condannato la datrice di lavoro (A. S. spa) alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro e condannato le società in solido al pagamento di una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori e regolarizzazione contributiva ed assistenziale.
2. In estrema sintesi e per quanto qui ancora interessa, la Corte territoriale ha ritenuto che: la censura di illegittimità del licenziamento per violazione dell’art. 2112 co. 4 del cod. civ., perché motivato dal trasferimento di azienda intervenuto tra C. e S. era infondata; l’onere probatorio di allegare e dimostrare che sarebbe prevalsa la lavoratrice nella comparazione con altri lavoratori della più ampia platea con i quali avrebbe dovuto essere comparata, era a carico del datore di lavoro; in ipotesi di violazione dei criteri di scelta, la tutela prevista era quella reintegratoria del comma 4 dell’art. 18 legge n. 300 del 1970; ha rilevato che gli effetti ripristinatori del rapporto nei confronti della cedente C.A.I., ricostituito ex tunc con l’impresa cedente, doveva trasferirsi all’impresa cessionaria A. S.A.I., “non essendo opponibile da parte di quest’ultima l’esclusione prevista dagli accordi sindacali conclusi nell’ambito della procedura di cessione di azienda per i lavoratori non facenti parte degli appositi elenchi”, pur in presenza di uno stato di crisi aziendale. In particolare, la Corte ha ritenuto di dover interpretare in senso conforme al diritto dell’Unione il comma 4 bis dell’art. 47 della legge n. 428 del 1990, così come successivamente modificato, nel senso che l’accordo sindacale ivi previsto non può prevedere limitazioni al diritto dei lavoratori di passare all’impresa cessionaria, ma semplicemente modifiche delle condizioni di lavoro al fine del mantenimento dei livelli occupazionali; non era invocabile la decadenza dell’impugnativa del licenziamento ex art. 32 legge n. 183 del 2010, avendo la C. tempestivamente impugnato il licenziamento (in data 19.11.2014) nei confronti della società (A. C. spa) che aveva intimato l’atto di recesso.
3. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto distinti ricorsi C.A.I. spa, con 3 motivi, e A. S. spa, con 4 motivi; ha resistito con controricorso la lavoratrice ad entrambi i ricorsi.
4. Le parti hanno depositato memorie.
Considerato che
1. I motivi possono essere così sintetizzati.
2. Con il primo motivo del ricorso C.A.I. spa denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cc, con riferimento all’art. 360 n. 3 cpc, per avere erroneamente la Corte territoriale rigettato le doglianze di essa società volte a ribadire la infungibilità della C. con le altre risorse appartenenti a settori diversi e per non avere considerato che era onere del lavoratore dimostrare di potere svolgere mansioni fungibili con quelle delle segretarie dell’AD.
3. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 legge n. 223 del 1991, con riferimento all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere la Corte territoriale completamente disatteso il contenuto dell’Accordo del 24 ottobre 2014 con il quale la C. e le organizzazioni sindacali avevano determinato negozialmente i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare.
4. Con il terzo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 5, co. 3,.1. n. 223 del 1991, con riferimento all’art. 18, commi 4 e 7, della legge n. 300 del 1970, in combinato disposto con gli articoli 414 e 416 c.p.c.”. Si contesta la tutela reintegratoria disposta dai giudici del merito, sostenendo che “incombe sul lavoratore che invochi una violazione dei criteri di scelta l’onere di indicare il risultato vantaggioso conseguibile all’esito del corretto procedimento di selezione, precisando il nominativo delle persone che avrebbero dovuto essere licenziate, specificando in virtù di quale criterio falsamente applicato ciò sarebbe dovuto avvenire e provando che effettivamente, in applicazione di tali criteri, certamente non sarebbe stato licenziato”.
5. I suddetti motivi, congiuntamente esaminabili per connessione, non possono trovare accoglimento sulla scorta di quanto già statuito da questa Corte in Cass. n. 10414 del 2020 (nonché dalle successive conf.: Cass. nn. 10415, 17193, 17194, 17195, 17198, 17199, 17201, 17202 del 2020), qui da intendersi richiamate, anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c., e ai cui princìpi il Collegio ritiene di dare continuità, non ravvisando ragioni per discostarsene.
6. In ordine al licenziamento intimato da C.A.I. (evento logicamente precedente rispetto alla fattispecie di passaggio, ex art. 2112, alle dipendente di S.A.I.), va sottolineata, in particolare, l’inammissibilità del primo e del secondo motivo, nella parte in cui si insiste sulla violazione delle disposizioni di legge denunciate, perché la Corte territoriale, sulla base della istruttoria espletata in primo grado, con un accertamento in fatto adeguatamente motivato, ha rilevato la fungibilità delle mansioni proprie della posizione di lavoro “segretaria di azienda” (rivestita dalla Covello) rispetto a quelle di “segretaria CEO”, desumendone, quindi, la mancata comparazione e, pertanto, la non corretta applicazione del criterio sub D) (anzianità di servizio) degli accordi sindacali del 12.7.2014 e del 24.10.2014, con la precisazione appunto che la “parità di posizioni di lavoro” ivi indicata avrebbe dovuto valutarsi anche alla stregua della fungibilità delle singole posizioni.
7. Non è esatto, quindi, sostenere che la Corte distrettuale abbia disatteso il contenuto dell’Accordo del 24,10.2014, perché lo stesso è stato valutato ed è stato considerato non correttamente applicato per la M., né che sia stato violato l’art. 2697 cc, in tema di onere della prova, in quanto giustamente è stato precisato che, in caso di contestazione dei criteri di scelta, da parte del lavoratore, grava sul datore di lavoro l’onere di allegare i criteri applicati e di provare la loro piena applicazione individuale (per tutte Cass. n. 12711/2000).
8. In punto di diritto, va richiamato il principio affermato da questa Corte per cui, in tema di licenziamenti collettivi, ai fini dell’applicazione dei criteri di scelta dettati dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, la comparazione dei lavoratori da avviare alla mobilità deve avvenire nell’ambito dell’intero complesso organizzativo e produttivo ed in modo che concorrano lavoratori di analoghe professionalità (ai fini della loro fungibilità) e di similare livello, rimanendo possibile una deroga a tale principio solo in riferimento a casi specifici ove sussista una diversa e motivata esigenza aziendale; in caso contrario sarebbe possibile finalizzare i criteri di scelta (eventualmente in collegamento con preventivi spostamenti del personale) ad esigenze imprenditoriali non esclusivamente tecnico produttive e all’espulsione di elementi non graditi al datore di lavoro, senza concrete possibilità di difesa da parte degli interessati (in termini: Cas:s. n. 10832 del 1997; conf. Cass. n. 9856 del 2001, Cass. n. 7169 del 2003).
La comparazione delle diverse posizioni dei lavoratori deve essere effettuata nel rispetto dei principio di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a un reparto se detti lavoratori sono idonei – per pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell’azienda – ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative (in termini Cass. n. 203 del 2015, che richiama in motivazione Cass. n. 13783 del 2006, n. 22824 del 2009, n. 22825 del 2009, n. 9711 del 2011; successiva conf. n. 19105 del 2017).
9. Infine, anche la censura di cui al terzo motivo della società C.A.I. non merita accoglimento in quanto, come detto, la sentenza impugnata ha argomentato che, in base ai criteri stipulati per accordo collettivo, la C. non avrebbe dovuto essere licenziata perché la sua posizione avrebbe dovuta essere comparata con altre ritenute fungibili; il motivo evoca la c.d. prova di resistenza, che riguarda il caso in cui il datore di lavoro abbia predisposto una graduatoria di lavoratori indicando posizioni comparabili, per cui la corretta applicazione del criterio controverso condurrebbe il lavoratore individuato come da licenziare ad essere collocato fuori dell’ambito numerico delle eccedenze.
Si tratta dell’ipotesi in cui l’individuazione del dipendente destinatario del provvedimento espulsivo costituisce l’esito di una comparazione con altri lavoratori (cfr. Cass. n. 24558 del 2016 nonché, negli stessi termini, Cass. n. 13803 del 2017).
La sentenza impugnata ha però precisato che, nel caso in esame, la C. era stata licenziata in quanto collocata in posizione in esubero senza concorrenza di altri lavoratori, non comparabile per un’asserita, ma smentita, peculiarità delle mansioni svolte. Il criterio della comparazione con altri lavoratori in ipotesi fungibili con la posizione effettivamente ricoperta dalla dipendente, cui allude il motivo di ricorso, non si confronta con le ragioni effettive poste a fondamento della decisione impugnata e per tale assorbente ragione è inammissibile.
10. Passando al primo motivo del ricorso di A. S. spa, con esso si denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 47, l. n. 92/2012” per avere i giudici d’appello ritenuto applicabile il rito cd. “Fornero” anche ad una controversia in cui occorreva accertare anche la continuità del rapporto di lavoro con una cessionaria d’azienda.
11. Il motivo non può trovare accoglimento atteso che l’error in procedendo rileva nei limiti in cui determini la nullità della sentenza o del procedimento, a mente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per cui, secondo giurisprudenza costante di questa Corte, “l’inesattezza del rito non determina di per sé la nullità della sentenza” (Cass. n. 12094 del 2016).
La violazione della disciplina sul rito assume rilevanza invalidante soltanto nell’ipotesi in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (Cass. n. 19942 del 2008; Cass. SS.UU. n. 3758 del 2009; Cass. n. 22325 del 2014; Cass. n. 1448 del 2015) e parte ricorrente non specifica il pregiudizio processuale conseguito dall’adozione del rito ordinario rispetto a quello dettato dalla legge n. 92 del 2012.
12. Con il secondo mezzo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc, “Violazione e falsa applicazione dell’art. 47, comma 4 bis, l. n. 428/1990 nonché degli accordi collettivi” intervenuti nell’ambito di una situazione di crisi aziendale in deroga all’art. 2112 c.c., criticando diffusamente l’interpretazione offerta dai giudici del merito della disposizione innanzi richiamata. Il motivo investe l’interpretazione e la portata applicativa dell’art. 47, comma 4-bis, I. 29 dicembre 1990, n. 428, introdotto dall’art. 19-quater del dl. 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione degli obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), conv. in I. 20 novembre 2009, n. 166, “al fine di dare esecuzione alla sentenza di condanna emessa dalla Corte di giustizia delle Comunità europee 1 1 11 giugno 2009 nella causa C561/07”, la quale aveva affermato che, con i commi 5 e 6 dell’art. 47 della legge n. 428 del 1990, la “Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva” 2001/23/CE.
13. La censura è infondata perché va condiviso il seguente principio di diritto: “In caso di trasferimento che riguardi aziende delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi della L. 12 agosto 1977, n. 675, art. 2, comma 5, lett. c), ovvero per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività, ai sensi del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, l’accordo sindacale di cui alla L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 47, comma 4-bis, inserito dal D.L. n. 135 del 2009, conv. in L. n. 166 del 2009, può prevedere deroghe all’art. 2112 c.c. concernenti le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti di lavoro al cessionario“.
14. Invero, la Corte di Giustizia (sent. 11.6.2009, C-561/07), all’esito della procedura di infrazione, ha affermato che, mantenendo in vigore le disposizioni di cui alla L. n. 428 del 1990, art. 47, commi 5 e 6, in caso di “crisi aziendale” a norma dell’art. 2, comima 5, lett. c), della L. n. 675 del 1977, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi si di essa incombenti in forza della Direttiva 2001/23/CE posto che lo stato di crisi aziendale non costituisce in sé motivo economico per riduzione dell’occupazione, né costituisce in sé ragione di deroga al principio generale secondo cui il trasferimento di un’impresa o di parte di essa non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario, dovendo i licenziamenti essere giustificati da motivi economici, tecnici o d’organizzazione.
La Corte di giustizia ha chiaramente distinto, agli effetti dell’interpretazione delle deroghe alle garanzie previste dagli artt. 3 e 4 della Direttiva, “la situazione dell’impresa di cui sia stato accertato lo stato di crisi” (il cui procedimento mira a favorire la prosecuzione dell’attività dell’impresa nella prospettiva di una futura ripresa) rispetto alla situazione di imprese nei cui confronti siano in atto procedure concorsuali liquidative (rispetto alle quali la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata).
Per la prima categoria di imprese – alveo in cui è riconducibile la vicenda oggetto del presente giudizio, come è pacifico in giudizio e neppure controverso tra le parti – l’art. 5, paragrafo 2, lettera b), così come richiamato dal paragrafo 3 della Direttiva 2001/23, autorizza gli Stati membri a prevedere che possano essere modificate “le condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa”, ma – secondo la Corte di Giustizia – “senza tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro garantiti dagli artt. 3 e 4 della direttiva 2001/23”.
15. In base alla statuizione della Corte di Giustizia UE va condotta la lettura delle modifiche apportate alla L. n. 428 del 1990, art. 47 dal D.L. n. 135 del 2009, conv. in L. n. 166 del 2009, che, con l’art. 19-quater, ha inserito, dopo il comma 4, il seguente comma 4-bis, proprio “al fine di dare esecuzione alla sentenza di condanna emessa dalla Corte di giustizia delle Comunità Europee”. In particolare, il comma 4-bis appare destinato alle procedure non liquidative a differenza del comma 5 che invece presuppone la cessazione dell’attività d’impresa o, comunque, la sua non continuazione, in simmetria con le deroghe consentite rispettivamente dal paragrafo 2 e dal paragrafo 1 dell’art. 5 della Direttiva 2001/23/CE e le regole generali previste negli artt. 3 e 4.
16. Dunque, l’unica lettura coerente dell’art. 47 risulta quella che si coordina con le indicazioni offerte dalla Corte di Giustizia: nel contesto del comma 5 dell’art. 47, in caso di trasferimento di imprese o parti di imprese il cui cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso, il principio generale è (per i lavoratori trasferiti alle dipendenze del cessionario) l’esclusione delle tutele di cui all’art. 2112 c.c., salvo che l’accordo preveda condizioni di miglior favore; la regola è dunque l’inapplicabilità, salvo deroghe; al contrario, nel comma 4-bis la regola è di ordine positivo (“trova applicazione”), per cui la specificazione “nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo” non può avere un significato sostanzialmente equivalente – con sovrapposizione di effetti – rispetto al comma 5, se non contraddicendo la ratio sotitesa alla diversità testuale delle previsioni. Insomma, il comma 4-bis dell’art 47 ammette solo modifiche, eventualmente anche in peius„ all’assetto economico-normativo in precedenza acquisito dai singoli lavoratori, ma non autorizza una lettura che consenta anche la deroga al passaggio automatico dei lavoratori all’impresa cessionaria.
17. Da ultimo va notato che il D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (“Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza in attuazione della L. 19 ottobre 2017, n. 155”; G.U. n. 38 del 14.2.2019, di prossima entrata in vigore) all’art. 368, comma 4, lett. b), ha disposto la sostituzione dei commi 4-bis e 5, ed ha così più esplicitamente inteso recepire – meglio conformando il futuro dettato normativo – l’unica lettura del comma 4-bis che questa Corte ritiene già percorribile in via ermeneutica anche per il passato, quale unica “interpretazione conforme” al diritto dell’Unione.
18. La Corte di appello con la sentenza impugnata ha adottato una soluzione in linea con l’interpretazione qui accolta e quindi resta immune dalle censure che le sono state mosse.
19. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 52 R.D. n. 267 del 1942, in combinato disposto con gli artt. 409 e 433 c.p.c., per avere la Corte territoriale disposto le pronunce di condanna al pagamento di somme di denaro anche nei confronti di A. S.A.I. nonostante fosse “pacifico” che la stessa fosse sottoposta alla procedura di amministrazione straordinaria, per cui tali domande di risarcimento economico erano da ritenere “improcedibili”.
20. Esso è, invece, fondato.
21. In via preliminare, deve essere esclusa la dedotta inammissibilità per novità della questione, posto che essa riguarda l’improcedibilità di una domanda di condanna al pagamento di un credito (nel caso di specie: risarcitorio) nei confronti di una procedura concorsuale, quale l’amministrazione straordinaria, che regolamenta (pur nella sua modulazione specifica per le imprese operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali ovvero che gestiscono stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale, tra le quali le imprese del Gruppo A.),
l’accertamento del passivo con il richiamo puntuale (art. 53 d.Ig. 270/1999) delle disposizioni regolanti lo stesso accertamento nel fallimento (artt. 93 ss. I. fall.), comportante la devoluzione cognitoria della domanda in via esclusiva al giudice delegato del fallimento (o comunque della procedura concorsuale); sicché, essa è rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado, anche nel giudizio di cassazione, con l’unico limite preclusivo dell’intervenuto giudicato interno (laddove la questione sia stata sottoposta od esaminata dal giudice e questi abbia inteso egualmente pronunciare sulla domanda di condanna rivolta nei confronti del fallimento) e del giudicato implicito (se l’eventuale nullità derivante da detto vizio procedimentale non sia stata dedotta come mezzo di gravame avverso la sentenza che abbia deciso sulla domanda), in ragione del principio di conversione delle nullità in motivi di impugnazione ed in armonia con il principio della ragionevole durata del processo (Cass. 4 ottobre 2018, n. 24156; Cass. 22 maggio 2020, n. 9461): ipotesi qui non ricorrenti, per essere stata pronunciata la condanna (anche) risarcitoria nei confronti di A. S. s.p..a. in a.s. dalla Corte d’appello in accoglimento del reclamo incidentale del lavoratore.
22. Nel riparto di competenza tra il giudice del lavoro e quello del fallimento il discrimine va individuato nelle rispettive speciali prerogative, spettando al primo, quale giudice del rapporto, le controversie riguardanti lo status del lavoratore, in riferimento ai diritti di corretta instaurazione, vigenza e cessazione del rapporto, della sua qualificazione e qualità, volte ad ottenere pronunce di mero accertamento oppure costitutive, come quelle di annullamento del licenziamento e di reintegrazione nel posto di lavoro;
rientrano, viceversa, nella cognizione del giudice del fallimento, al fine di garantire la parità tra i creditori, le controversie relative all’accertamento ed alla qualificazione dei diritti di credito dipendenti dal rapporto di lavoro in funzione della partecipazione al concorso e con effetti esclusivamente endoconcorsuali, ovvero destinate comunque ad incidere nella procedura concorsuale (Cass. 30 marzo 2018, n. 7990; Cass. 28 ottobre 2021, n. 30512); salva l’ipotesi dell’accertamento (e di esso solo) dell’entità dell’indennità risarcitoria da parte del giudice del lavoro, anziché fallimentare, per il riflesso del “radicale mutamento del regime selettivo e di commisurazione delle tutele … anche sulla ripartizione cognitoria qui in esame” (Cass. 21 giugno 2018, n. 16443; Cass. 21 febbraio 2019, n. 5188; Cass. 8 febbraio 2021, n. 2964).
23. Nel caso, tuttavia, di una domanda di condanna risarcitoria, come quello di specie, essa spetta al giudice concorsuale, con la sua conseguente improcedibilità nell’odierno giudizio.
24. Con il quarto motivo si eccepisce la nullità assoluta ed insanabile della sentenza, ai sensi dell’art. 360 n. 4 cpc, per violazione dell’art. 112 cpc, per omissione di pronuncia, da parte della Corte territoriale, in ordine alla eccezione di decadenza dell’impugnazione ex art. 32 co. 4 lett. d) della legge n. 183 del 2010.
25. Il motivo non merita accoglimento.
26. La Corte territoriale ha accertato che il licenziamento era stato impugnato con raccomandata del 19.11.2014 nei confronti della società che aveva intimato il trasferimento.
27. Questa Corte ha affermato che, nell’ipotesi di trasferimento d’azienda, la domanda del lavoratore volta all’accertamento del passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario non è soggetta a termini di decadenza, perché non vi è alcun onere di far accertare formalmente, nei confronti del cessionario, l’avvenuta prosecuzione del rapporto di lavoro, in particolare applicandosi la L. n. 183 del 2010, art. 32, cornma 4, lett. c), ai soli provvedimenti datoriali che il lavoratore intenda impugnare, al fine di contestarne la legittimità o la validità (cfr. Cass. n. 9469 del 2019; Cass. n. 13648 del 2019).
A fortiori non risulta applicabile la L. n. :183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. d), la quale comunque postula l’invocazione della illegittimità o invalidità di atti posti in essere da un datore di lavoro solo formale in fenomeni dal carattere propriamente interpositorio e trattandosi di norma di chiusura di carattere eccezionale, non suscettibile, pertanto, di disciplinare la fattispecie di cui all’art. 2112 c.c. già contemplata dalla lettera precedente (Cass. n. 28750 del 2019; v. pure Cass. n. 13179 del 2017; conf. Cass. n. 4883 del 2020).
28. Alla stregua di quanto esposto il ricorso della C.A.I. spa deve essere rigettato.
29. Al rigetto segue la condanna della suddetta ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo, con distrazione.
30. Deve, invece, accogliersi il terzo motivo del ricorso di A. – C.A.I.- spa in amministrazione straordinaria- mentre vanno rigettati gli altri.
31. La impugnata sentenza deve essere cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, dichiarando improcedibile la domanda della lavoratrice di condanna risarcitoria nei confronti di A. S. in a.s.
32. La società, avendo riguardo al criterio della soccombenza complessiva, va condannata al pagamento delle spese di giudizio dei gradi di merito, che si liquidano così come determinate dal Tribunale e dalla Corte di appello, nonché alla rifusione di quelle del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 e agli accessori di legge, con distrazione.
33. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo, limitatamente alla C.A.I. spa.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso di C.A.I. spa e condanna la società al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dei Difensori della controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto; accoglie il terzo motivo del ricorso dì A. -C.A.I. spa in amministrazione straordinaria, rigettati gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara improcedibile la domanda della lavoratrice di condanna risarcitoria nei confronti di A. S. spa in amministrazione straordinaria; condanna quest’ultima società al pagamento delle spese dei gradi di merito, che liquida così come determinate dal Tribunale e dalla Corte di appello, e del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 e agli accessori di legge, con distrazione in favore dei Difensori della controricorrente.
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