La Corte di Cassazione sezione I, con l’ordinanza n. 25407 depositata il 23 settembre 2024, intervenendo in tema di opposizione allo stato passivo, ha riaffermato il principio, derivante dall’art. 66 della l. fall., secondo cui “La disposizione, lì dove compie un rinvio alla norme civilistiche in materia di azione revocatoria, attesta la natura derivata dell’azione (o dell’eccezione) proposta dal curatore ai sensi della richiamata norma, la quale, pur nella peculiarità del suo esercizio nell’ambito di una procedura concorsuale, rimane comunque retta dai requisiti sostanziali previsti dall’art. 2901 c.c., con la conseguenza che l’esercizio dell’azione (o, come nel caso in esame, dell’eccezione) pauliana ad opera del curatore del fallimento comporta una deviazione dallo schema comune unicamente quanto a effetti, legittimazione e competenza, in ragione del contesto concorsuale da cui trae origine, ma non modifica i presupposti a cui è correlato l’accoglimento della stessa e la sua natura di mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale (Cass. n. 36033 del 2021).”
La vicenda ha riguardato la richiesta di insinuazione al passivo di una società fallita da parte di tre legali di essere ammessi per il credito maturato quale residuo compenso dell’attività di assistenza e consulenza legale stragiudiziale dagli stessi svolta in esecuzione dei contratti di conferimento dell’incarico professionale stipulati con la società poi fallita. La loro richiesta veniva respinta sul rilievo che gli atti di conferimento dell’incarico ai professionisti comportavano a carico della società poi divenuta insolvente “un debito di rilevantissima entità” perché la parcella emessa dai legali risulta “di gran lunga esorbitante” rispetto agli stessi parametri forensi previsti per l’attività stragiudiziale, per cui gli stessi proponevano opposizione. Avverso la decisione del Giudice Delegato veniva proposta opposizione. Il Tribunale, con il decreto in epigrafe, ha rigettato l’opposizione in ragione della ritenuta fondatezza dell’eccezione di revocatoria ordinaria proposta dal Fallimento. I tre legali, avverso la decisione del Tribunale, proponevano ricorso in cassazione fondato su quattro motivi.
I giudici di legittimità accolsero il ricorso e, per l’effetto, cassarono il decreto impugnato con rinvio, per un nuovo esame.
Gli Ermellini precisavano che ” L’art. 95, comma 1°, fall., com’è noto, consente al curatore di eccepire i fatti estintivi, modificativi o impeditivi, del diritto fatto valere con la domanda di ammissione al passivo nonché l’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito azionato o la prelazione invocata
(…) In forza di tale norma, il curatore, per impedire l’accoglimento in tutto o in parte della domanda, può, tra l’altro, dedurre, a norma degli 66 ss. l.fall., la revocabilità del titolo negoziale sul quale il creditore abbia fondato la domanda di ammissione al passivo del credito vantato o, come nel caso in esame, della garanzia ipotecaria concessa dalla società debitrice poi fallita (Cass. n. 4694 del 2021, in motiv.). “
Inoltre, evidenziano i giudici di piazza Cavour che ” L’“atto dispositivo” cui allude l’art. 2901 c.c. è, infatti, “qualunque atto che determini o semplicemente aggravi il pericolo della sua insufficienza”, per cui possono essere “oggetto di revocatoria … non solo gli atti di alienazione (che di per sé ovviamente importano una diminuzione attuale del patrimonio del debitore), ma anche quelli che possono in ogni modo comprometterne la consistenza nel futuro”, come, appunto, “le assunzioni di debiti” (Cass. n. 3462 del 2024, in motiv.).
2.12 Il presupposto oggettivo (che il curatore ha l’onere di dimostrare in giudizio) dell’azione (o, come nel caso in esame, dell’eccezione) di revoca ordinaria, tuttavia, è costituito, anche in caso di atto dispositivo che si è concretizzato nell’assunzione di un debito, dal pregiudizio che tale atto abbia arrecato alle “ragioni”, e cioè alle pretese vantate da uno o più creditori nei confronti del debitore che ha compiuto l’atto dispositivo: che si verifica quando, a seguito del compimento dello stesso da parte del debitore (e salvo il caso, nella specie neppure prospettato, della dolosa preordinazione dell’atto a danneggiare i crediti non ancora sorti nei confronti del suo autore), il patrimonio di quest’ultimo sia, in conseguenza, diventato, sul piano quantitativo e/o qualitativo, di consistenza o composizione tali da rendere impossibile o, comunque, più incerta o difficile la completa soddisfazione dei diritti di credito già vantati nei confronti del suo titolare (Cass. n. 20232 del 2023), determinando ovvero aggravando il pericolo della sua insufficienza (Cass. 3462 del 2024), a fronte, evidentemente, del fatto che, prima dell’atto di disposizione compiuto dal debitore, la soddisfazione dei predetti crediti era, almeno in parte, concretamente possibile o, comunque, meno difficile o incerta. “
Pertatno, per il Supremo consesso ” Il curatore del fallimento che intenda promuovere (o, come nel caso in esame, eccepire) la revoca ordinaria di un atto dispositivo compiuto dal debitore poi fallito, a norma degli artt. 66 l.fall. e 2901 c.c., per dimostrare in giudizio l’eventus damni, ha, dunque, l’onere di provare, per un verso, la sussistenza di preesistenti ragioni creditorie rispetto al compimento dell’atto pregiudizievole (rimaste, naturalmente, insoddisfatte e, come tali, poi ammesse al passivo del fallimento del debitore che ne è stato l’autore), e, per altro verso, il mutamento qualitativo e/o quantitativo che il patrimonio del debitore ha subito per effetto di tale atto, a condizione che dalla valutazione complessiva e rigorosa di questi elementi dovesse emergere, in fatto, che, in conseguenza dell’atto impugnato, sia divenuta, in ragione del valore o della natura del residui beni (Cass. n. 9565 del 2018), oggettivamente più incerta o difficoltosa la soddisfazione dei crediti anteriori al suo compimento ed ammessi al passivo (cfr. Cass. n. 26331 del 2008; n. 19515 del 2019; Cass. n. 524 del 2023, in motiv.; Cass. n. 7201 del 2024).”