La sentenza n. 17237 del 12 luglio 2013 della Corte di Cassazione sancisce che la fidejussione bancaria non sconta l’IVA ma l’imposta di registro in misura proporzionale.
Secondo i giudici “la natura accessoria del contratto di fidejussione in campo civilistico non può essere riportata nell’ambito tributario, e segnatamente nell’ambito della disciplina dell’imposta di registro, per la quale, ai sensi dell’art. 22 DPR n. 131/86, vale invece il principio dell’autonomia dei singoli negozi; la relativa tassazione non resta, quindi, attratta nella disciplina tributaria dell’IVA per il solo fatto che il creditore sia un soggetto IVA”.
Nel caso di specie un istituto di credito ottiene due decreti ingiuntivi mossi nei confronti di società suoi clienti e dei suoi fidjussori per scoperti di conto corrente: in particolare l’istituto di credito, ritenendo di dover versare l’IVA, chiedeva ai garanti il rimborso dell’imposta di registro versata e presentava ricorso contro l’Agenzia delle Entrate che aveva adottato il silenzio rifiuto.
Avverso la formazione del silenzio-rifiuto dell’amministrazione finanziaria, il contribuente proponeva ricorso innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale. Il giudice di prime cure adito accoglieva il ricorso; l’Agenzia delle Entrate promuoveva e depositava ricorso avverso la sentenza di primo grado alla Commissione Tributaria Regionale che respingeva l’appello presentato. I giudici di appello richiamato il principio di alternatività dell’imposta di registro e dell’Iva, di cui all’art. 40 del d.p.r. n. 131 del 1986, riteneva che la fideiussione, in quanto obbligazione accessoria, dovesse essere considerata alla stregua di operazione soggetta a Iva secondo quanto disposto dall’art. 5, 2° co., e 40, 1° co. , del d.p.r. citato, essendo il soggetto creditore un istituto bancario.
L’Amministrazione finanziaria, avverso la sentenza di appello, proponeva ricorso alla Corte di Cassazione basato su tre motivi.
Gli Ermellini, dopo aver ritenuto infondato la prima motivazione, hanno accolto le altre due affermando che il giudice di appello è incorso in un evidente errore di diritto, che prescinde finanche dalla complessiva questione afferente il non considerato rapporto dei richiamati artt. 3 e 10 del d.p.r. n. 633 del 197 2, da un lato, e 5 e 40 del d.p.r. n. 131 del 198 6, dall’altro. per cui per i giudici della Corte Suprema l’art. 22, 1° co., del d.p.r. (….) stabilisce che se in un atto sono enunciate disposizioni contenute in atti scritti o contratti verbali non registrati e posti in essere fra le stesse parti intervenute nell’atto che contiene la enunciazione, l’ imposta si applica anche alle disposizioni enunciate.
Infine per gli Ermellini la natura accessoria della fideiussione “ha una valenza civilistica (artt. 1939 e 1941 ce), mentre – come già da questa corte affermato (v. Sez. 5″ n. 17899-05) – in ambito tributario, e segnatamente nell’ambito della imposta di registro, in cui viene colpita la singola manifestazione di ricchezza e la connessa capacità contributiva, viene in questione il principio dell’autonomia dei singoli negozi (v. Sez. 5A n. 658 5-08; nonché, per analoga premessa, Sez. 6, n. 409612), come d’altronde in modo inequivoco si desume proprio dalla previsione dell’artt. 22 del d.p.r. 131 del 1986. Sicché resta inficiato da errore di diritto il convincimento espresso dal giudice d’appello, a misura del fatto che dalla affermata natura accessoria della fideiussione è stata desunta la conseguenza che la relativa disciplina tributaria doveva ritenersi attratta in quella dell’Iva, per essere l’ente creditore (la banca) un soggetto d’Iva. Mentre semmai una verifica circa la qualità di soggetto passivo dell’Iva avrebbe avuto senso, nell’ottica dell’alternativa d’imposta unicamente alla fideiussione correlata, se riferita al prestatore della garanzia.”
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