La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 14051 depositata il 7 luglio 2020 intervenendo in tema di fruttuosità di un finanziamento erogato a favore di una società dai propri soci ha ribadito che “nessuna presunzione di fruttuosità può operare laddove risulti da apposita documentazione che le parti hanno convenuto la natura non fruttifera del finanziamento erogato dall’impresa; ciò comporta che la formalizzazione scritta, idonea ad escludere il calcolo degli interessi al tasso legale, sia necessaria non solo con riguardo alle ipotesi di pattuizione di un saggio diverso da quello legale, ma anche in relazione alla ipotesi in cui le parti abbiano inteso convenire che il tasso di interesse sia pari a zero.”
La vicenda ha riguardato di una società a responsabilità che in seguito ad una verifica emergeva che la società contribuente aveva erogato alla propria controllante un prestito a titolo gratuito. A seguito di tale verifica veniva emesso un avviso di accertamento per l’omessa contabilizzazione di interessi attivi. Avverso tale atto impositivo la società proponeva ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale. I giudici di prime cure accolsero le doglianze della contribuente. L’Agenzia delle Entrate impugnava la decisione della CTP con ricorso alla Commissione Tributaria Regionale. I giudici di appello confermavano la sentenza impugnata ritenendo che dal comportamento concludente era possibile evincere sia l’erogazione del mutuo sia la accettazione della clausola di infruttuosità del finanziamento stesso, in quanto i documenti prodotti (richiesta di finanziamento infruttifero e ricevute dei bonifici) integravano accordo scritto di mutuo. L’Agenzia delle Entrate ricorre, avverso la sentenza della CTR, con ricorso in cassazione fondato su due motivi.
Gli Ermellini premettendo che il contratto di mutuo non necessiti di forma scritta, e ciò anche quando debba superarsi la presunzione di onerosità, la disposizione civilistica (art. 1815 cod. civ.) prevede una presunzione legale di onerosità dello stesso contratto, che può essere superata soltanto con una prova particolarmente rigorosa, non evincibile dalla erogazione delle somme, che, seppure rilevante ai fini della conclusione del contratto, non può certamente dimostrare anche che il prestito avesse il carattere della gratuità. Nella sentenza in commento evidenziano che il disposto del comma 5 dell’art. 89 del t.u.i.r., ai sensi del quale «se la misura non è determinata per iscritto, gli interessi si computano al saggio legale».
Inoltre i giudici di legittimità precisano che la presunzione di onerosità del mutuo – affermata anche dall’art. 42 del vecchio d.P.R. n. 597 del 1973 – ha valenza applicativa «generale» e lo stesso comma 2 dell’art. 45 ammette, comunque, la possibilità per il contribuente di fornire prova contraria alla presunzione legale relativa di onerosità del negozio, offrendo riscontri rigorosi della pattuizione di gratuità del finanziamento.
Viene quindi ribadito che «in tema di imposte sui redditi, i versamenti fatti dai soci, se non formalmente deliberati in conto capitale ed infruttiferi, si presumono fruttiferi, salvo la prova contraria gravante sul contribuente», con conseguente obbligo per la società di effettuare la ritenuta d’acconto sugli interessi «indipendentemente dalla materiale erogazione degli stessi agli aventi diritto»
La traditio della somma chiesta a mutuo sicuramente comprova l’erogazione del finanziamento, ma non la gratuità dello stesso, non avendo la società contribuente dimostrato la restituzione, da parte della controllata, dell’importo esattamente ricevuto senza maggiorazioni.
Pertanto alla luce di quanto chiarito dalla Corte Suprema la presenza di richiesta scritta di un finanziamento infruttifero inviata dalla controllata alla controllante e la successiva erogazione del prestito, senza altra documentazione che attesti la gratuità del finanziamento, non sono elementi idonei a sostenere la gratuità dell’elargizione.
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