La Corte di Cassazione, sezione penale, con la sentenza n. 37640 depositata il 14 ottobre 2024, intervenendo in tema di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater del d.lgs. n. 74/2000, ha statuito che il reato di indebita compensazione “è integrato solo in presenza dell’elemento soggettivo del dolo, caratteristica questa, peraltro, comune alla generalità dei delitti laddove non sia espressamente previsto che gli stessi siano perseguibili anche a titolo di colpa; esso si realizza allorché il soggetto tenuto al versamento delle imposte utilizzando il meccanismo di assolvimento del debito tributario tramite il modello di pagamento denominato F24 porta in compensazione crediti “non spettanti” ovvero crediti “inesistenti”.”
La vicenda ha riguardato una commercialista accusata di falsa indicazione di un credito IVA in realtà inesistente in sede dichiarativa e nell’utilizzazione di tale decettivo dato cartolare per la compensazione del debito tributario del cliente, oggetto di accollo da parte della commercialista, la quale curava la contabilità relativa alla attività professionale del predetto cliente; l’operazione sarebbe stata attuata mediante la condotta materiale di altro commercialista, collega dell’imputata cui la stessa si era rivolta, indagato per il fatto in parola in procedimento connesso al presente. Il Tribunale, pima e la Corte di Appello dopo hanno ritenuta l’imputata responsabile del reato di cui all’art. 10-quater, comma 2, del d.lgs. n. 74 del 2000. Avverso la decisione della Corte di appello, l’imputata proponeva ricorso per cassazione fondato su tre motivi.
I giudici di legittimità annullavano la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio.
Gli Ermellini, conformemente ai propri precedenti, hanno precisato che ” affinché sia riscontrabile, nelle ipotesi di concorso di persone nel reato, la sussistenza del necessario elemento soggettivo è necessario dimostrare che il soggetto in relazione al quale la questione è oggetto di verifica abbia dato un consapevole contributo alla condotta posta in essere da altri individui e del fatto che della materialità di tali condotte quello era consapevole (fra le tante: Corte di cassazione, Sez. II penale, 5 novembre 2019, n. 44859, rv 277773).
Nel caso che interessa la motivazione della Corte territoriale ha evidenziato elementi o sostanzialmente solo suggestivi (quali la esistenza di un interesse personale della F.E. alla definizione “indolore” della posizione del P.E., la cui scarsa valenza probatoria in danno della prevenuta è ricavabile dal non potere essere dimostrato un fatto sulla sola base della mera circostanza che l’imputato aveva interesse affinché quel tale fatto si verificasse: in tale senso, sia pure in diverso ambito penale, ma con analogo ragionamento: Corte di cassazione, Sezione VI penale, 10 aprile 2019, n. 15837, rv 275540), ovvero denotanti un atteggiamento, sì censurabile, ma non dimostrativo della esistenza di un accordo fra la donna ed il S.A. (tali elementi sono riconducibili al non aver quella riferito al proprio cliente di essersi rivolta ad un ulteriore commercialista affinché ne trattasse gli affari; al non essersi la medesima accertata di quali strumenti tale commercialista intendesse servirsi ed al non avere verificato a fronte della positiva (almeno in apparenza) definizione della posizione del P.E. “
Pertanto alla luce dei principi richiamati nella sentenza in commento per la configurazione del rearo di cui all’art. 10-quater del d.lgs. n. 74/2000 risulta indispensabile il dolo, che si concretizza quando il soggetto tenuto al versamento delle imposte utilizza la c.d. “compensazione” con crediti tributari “non spettanti” ovvero crediti “inesistenti”.
Diversamente il il concorso nel reato sussiste solo quando il soggetto ha dato un contributo consapevole alla condotta tenuta da un altro e non è sufficiente la superficialità e la negligenza del primo commercialista per ritenere che condivida l’utilizzo dello strumento frodatorio impiegato dal secondo.
Nel caso di specie per i giudici di piazza Cavour il commercialista che per rimediare all’errore, si accolla il debito dell’assistito, rivolgendosi a un collega esperto in materia contenziosa per cercare di far avere all’interessato «sgravi» non meglio precisati. Il tutto senza dirlo al cliente, che è un fatto «indubbiamente deprecabile dal punto di vista deontologico», ma non dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio l’esistenza del dolo nel concorso nell’indebita compensazione del collega.