La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 5318 depositata il 28 febbraio 2025, intervenendo in tema di qualificazione e deducibilità della retribuzione di lavoro dipendente e la carica di Presidente del Consiglio di amministratore, ha affermato il seguente principio di diritto in tema di imposte sui redditi, sussiste l’assoluta incompatibilità tra la qualità di lavoratore dipendente di una società di capitali e la carica di presidenza del consiglio di amministrazione o di amministratore unico della stessa, in quanto il cumulo nella stessa persona dei poteri di rappresentanza dell’ente sociale, di direzione, di controllo e di disciplina rende impossibile quella diversificazione delle parti del rapporto di lavoro e delle relative distinte attribuzioni che è necessaria perché sia riscontrabile l’essenziale ed indefettibile elemento della subordinazione, con conseguente indeducibilità dal reddito della società del relativo costo da lavoro dipendente. La compatibilità della qualità di socio amministratore, membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali, con quella di lavoratore dipendente della stessa società, ai fini della deducibilità del relativo costo dal reddito di impresa, non deve essere verificata solo in via formale, con riferimento esclusivo allo statuto e alle delibere societarie, occorrendo invece accertare in concreto la sussistenza o meno del vincolo di subordinazione gerarchica, del potere direttivo e di quello disciplinare e, in particolare, lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita

La vicenda ha riguardato un società a responsabilità limitata a cui l’Agenzia delle entrate notificava un avviso di accertamento, con il quale procedeva alla ricostruzione induttiva del reddito della società ai fini IRES ed IVA, disconoscendo quattro categorie di costi: a) per migliorie su beni di terzi; b) per manutenzione autoveicoli; c) per ricambi ed accessori; d) per compensi degli amministratori. La società contribuente impugnava l’atto impositivo. I giudici tributari di primo grado accoglievano parzialmente il ricorso proposto dalla società, confermando l’avviso di accertamento solo con riferimento ai compensi dell’amministratore. La contribuente impugnava la sentenza. I giudici di appello accoglievano totalmente l’appello principale ed in parte quello incidentale, ritenendo la deducibilità del costo relativo ai compensi degli amministratori della società. L’Agenza delle entrate, avverso la sentenza di secondo grado proponeva ricorso per cassazione fondato su unico motivo con cui contesta la deducibilità del costo per i compensi degli amministratori. 

I giudici di legittimità accoglievano il ricorso, cassavano la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado.

Gli Ermellini premetto che ” è del tutto compatibile la posizione di socio di società di capitali con quella di amministratore della stessa, tranne le ipotesi di amministratore unico, presidente del consiglio di amministratore o di socio “sovrano” (Cass., 28/04/2021, n. 11161), la qualità di socio ed amministratore di una società di capitali composta da due soli soci, entrambi amministratori, è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato, anche a livello dirigenziale, ove il vincolo della subordinazione risulti da un concreto assoggettamento del socio – dirigente alle direttive ed al controllo dell’organo collegiale amministrativo formato dai medesimi due soci (Cass., 21/05/2002, n. 7465; Cass., 21/01/1993, n. 706; Cass., 25/05/1991, n. 5944).

La qualità di amministratore di una società di capitali è, dunque, compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della stessa, ove sia accertato in concreto lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita, con l’assoggettamento ad effettivo potere di supremazia gerarchica e disciplinare (Cass., 26/10/1996, n. 9368; Cass., 25/05/1991, n. 5944; Cass., 11/11/1993, n. 11119; anche Cass., 28/04/2021, n. 11161). Pertanto, potendo in astratto coesistere nella stessa persona la posizione di socio di una società e quella di lavoratore subordinato della medesima, pure un socio, componente del consiglio di amministrazione di una società, può essere legato a quest’ultima da un rapporto di lavoro subordinato, purché appunto risulti in concreto assoggettato ad un potere disciplinare e di controllo esercitato dagli altri componenti dell’organo cui egli appartiene; mentre, in mancanza di siffatto assoggettamento, l’osservanza di un determinato orario di lavoro e la percezione di una regolare retribuzione non sono sufficienti da sole a far ritenere la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato (Cass., 15/02/1985, n. 1316).

Il rapporto organico che lega il socio o l’amministratore ad una società di capitali non esclude la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato a contenuto dirigenziale tra il primo e la seconda (Cass., 3/12/1998, n. 12283). Solo, quindi, nel caso di amministratore unico di società di capitali datrice di lavoro non è configurabile il vincolo di subordinazione perché mancherebbe la soggezione del prestatore ad un potere sovraordinato di controllo e disciplina, escluso dalla immedesimazione in unico soggetto della veste di esecutore della volontà sociale e di quella di unico organo competente ad esprimerla (Cass., 29/05/1998, n. 5352; Cass., 05/04/1990, n. 2823; anche Cass., n. 11161/2021 cit.). “

Le medesime considerazione, per i giudici di piazza Cavour, valgono anche in caso di pagamento dei contributi previdenziali, in quanto si è affermato che, qualora il socio amministratore di una società a responsabilità limitata partecipi al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza, ha l’obbligo di iscrizione alla gestione commercianti, mentre, qualora si limiti ad esercitare l’attività di amministratore, deve essere iscritto alla sola gestione separata, operando le due attività su piani giuridici differenti; ciò in quanto la prima è diretta alla concreta realizzazione dello scopo sociale, attraverso il concorso dell’opera prestata dai soci e dagli altri lavoratori, e la seconda alla esecuzione del contratto di società sulla base di una relazione di immedesimazione organica volta, a seconda della concreta delega, alla partecipazione alle attività di gestione, di impulso e di rappresentanza (Cass., 02/05/2018, n. 10426; con richiamo a Cass., Sez. U., n. 17076/2011; Cass., 03/04/2017, n. 8613).”

Inoltre, per il il Supremo consesso ” in tema di imposte sui redditi e con riferimento alla determinazione del reddito d’impresa, l’art. 62 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (vigente fino al 31 dicembre 2003, ora art. 60 del Tuir), il quale esclude l’ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro prestato o l’opera svolta dall’imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per lavoro dipendente e per compensi spettanti agli amministratori di società di persone, non consente di dedurre dall’imponibile il compenso per il lavoro prestato e l’opera svolta dall’amministratore unico di società di capitali; la posizione di quest’ultimo è infatti equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell’imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi l’assoggettamento all’altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione (Cass., 13/11/2006, n. 24188).

Si è anche chiarito che, in tema di rapporto di lavoro alle dipendenze di una società di capitali, come non sussiste alcuna incompatibilità di principio tra la qualità di componente (non unico) dell’organo di gestione e quella di lavoratore subordinato alle dipendenze della società, allo stesso modo non vi sono ostacoli alla configurabilità di un siffatto rapporto fra la società e il socio titolare della maggioranza del capitale sociale, neppure quando la percentuale del capitale detenuto corrisponda a quella minima prevista per la validità delle deliberazioni dell’assemblea, attesa la sostanziale estraneità dell’organo assembleare all’esercizio del potere gestorio; ferma restando, comunque, la non configurabilità di un rapporto di lavoro con la società quando il socio (a prescindere dalla percentuale di capitale posseduto e dalla formale investitura a componente dell’organo amministrativo) abbia di fatto assunto, nell’ambito della società, l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione (Cass., 17/11/2004, n. 21759). La qualità di socio, anche “maggioritario”, di una società di capitali, non è, allora, di per sé di ostacolo alla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra socio e società, allorché possa in concreto ravvisarsi il vincolo di subordinazione, almeno potenziale, tra il socio medesimo e l’organo societario preposto all’amministrazione, vincolo che in generale è da escludere unicamente nelle ipotesi di socio “amministratore unico”, o di socio “unico azionista” o di “socio sovrano” (Cass., 19/05/1987, n. 4586).

(…) Nell’ipotesi in cui la suddetta diversità non sussista e si verifichi l’attribuzione soltanto delle funzioni proprie del rapporto organico la nullità del rapporto di lavoro avente ad oggetto tali funzioni non esclude il diritto al compenso eventualmente pattuito in favore degli amministratori della società (Cass., 12/01/2002, n. 329), con la ulteriore precisazione che, in caso di svolgimento di mansioni identiche, quindi quelle proprie della carica di amministratore, non vi è alcuna possibilità di deducibilità dei costi da attività di lavoro subordinato (Cass., n. 11119/1993 cit.). Il giudice del rinvio, dunque, dovrà anche accertare se le prestazioni lavorative espletate da Co.Ge. siano, in primo luogo, diverse o meno dall’attività svolta quale componente del consiglio di amministrazione e se, in caso positivo, esse siano caratterizzate dalla subordinazione, condicio sine qua non della deducibilità del relativo compenso (in tali termini cfr. Cass. 23/11/2021, n. 36362 e Cass. 28/04/2021, n. 11161). “