La Corte di Cassazione in più occasioni ha avuto modo di pronunciarsi sul licenziamento di dipendente licenziati a seguito di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti confermando costantemente che il comportamento extralavorativo tenuto dal dipendente, di gravità tale da eccedere gli standards conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale, in quanto contrario alle norme dell’etica e del vivere comune e, pertanto ripugnante alla coscienza sociale, integra senza dubbio la giusta causa del licenziamento.
I principi di diritto statuiti dalla Corte Suprema nelle varie sentenze hanno comunque confermato la legittimità del licenziamento di dipendenti condannati per detenzione e spaccio di droga, fermo il principio della proporzionalità.
Analizziamo alcuni dei principi di diritto stabilito.
I giudici della legittimità con la sentenza n. 24023 del 24 novembre 2016, chiamati a decidere sulla legittimità del licenziamento, hanno affermato che “il fatto, accompagnato da grande clamore mediatico, è certamente idoneo (…) alla rottura irrimediabile del vincolo fiduciario fra le parti così da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto, pure in riferimento alla rilevanza pubblica dell’attività creditizia, che esige la massima affidabilità di tutti i dipendenti (ed in particolare di coloro, come il lavoratore licenziato in quanto addetto all’attività di sportello, a diretto contatto con la clientela)”.
Alla luce di un orientamento ormai consolidato della Cassazione, il concetto di giusta causa non è limitato all’inadempimento tanto grave da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, ma si estende anche a condotte extralavorative che, tenute al di fuori dell’azienda e dell’orario di lavoro, e non direttamente riguardanti l’esecuzione della prestazione lavorativa, nondimeno possano essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti (per tutte cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., n. 17166/2016).
Pertanto la sussistenza della giusta causa di licenziamento va accertata in relazione sia alla gravità dei fatti addebitati al lavoratore, sia alla proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, per la quale rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa “scuotere la fiducia del datore di lavoro e far rientrare la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza” (Per tutte cfr, Cass. Civ., Sez. Lav., n. 21017/2015; sen. 24023/2016).
Per cui anche condotte riguardanti la sfera privata del prestatore di lavoro possono risultare concretamente idonee a ledere il vincolo fiduciario allorquando abbiano un riflesso, pur soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative di un futuro e puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività.
I Giudici del palazzaccio hanno affermato, inoltre, che il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario (V. Cass. Civ., Sez. Lav., n. 16268/2015). Tali comportamenti, inoltre, devono necessariamente essere idonei, per le concrete modalità con cui si manifestano “ad arrecare un pregiudizio, anche non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali (Cass. Civ., Sez. Lav., n. 15654/2012): in particolare, quando siano contrari alle norme dell’etica comune e del comune vivere civile” (sul punto, v. Cass. Civ., Sez. Lav., n. 25380/2014).
Con la sentenza n. 16524/2015 viene definitivamente stabilito un’interpretazione estensiva della giusta causa di recesso, nella cui nozione devono includersi “anche condotte che, pur se concernenti la vita privata del lavoratore, tuttavia possono risultare idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario che connota il rapporto di subordinazione, nel senso che abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale, sulla funzionalità del rapporto, compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa” (v. tra le altre, le pronunce della Cassazione nn. 1519/93 e 1355/87). Per cui si concretizzala lesione del vincolo fiduciario non solo in quanto il dipendente è stato rinviato a giudizio per il reato di detenzione di sostanze stupefacenti, ma soprattutto per la particolare natura delle mansioni lavorative dello chef, che presupponevano rapporti diretti con la clientela. A ciò doveva aggiungersi che lo chef aveva acquistato l’hashish da un collega (anche lui dipendente della medesima società), “avvalendosi dell’ambiente lavorativo per condurre traffici illeciti”.
Con altra sentenza la Corte Suprema ha statuito che la condotta illecita extra-lavorativa ha sempre rilevanza sul piano disciplinare in quanto il lavoratore subordinato è tenuto non solo a fornire la prestazione oggetto del contratto, ma anche a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da “ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario” (v. Cass. Civ. Sez. Lav. n. 776 del 2015).
Con la sentenza n. 24566 del 1° dicembre 2016 viene riconfermato che la detenzione da parte di un lavoratore dipendente di sostanza stupefacente a fine di spaccio, sebbene avvenga in ambito extra lavorativo, integra la giusta causa di licenziamento dello stesso. In quanto il dipendente è tenuto non solo a fornire la prestazione lavorativa contrattualmente richiesta, ma anche a non porre assolutamente in essere comportamenti che ledano gli interessi morali e materiali del datore di lavoro, compromettendone così il rapporto fiduciario.
Il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore si basa sulla fiducia che deve sempre sussistere per tutta la durata del medesimo, anche se non esiste una specifica norma giuridica che lo affermi espressamente.
In caso contrario, già la stessa Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 15004 del 21 novembre 2000 aveva stabilito che l’effetto, per così dire naturale, del venir meno della fiducia era la negazione del rapporto di lavoro. Tale fiducia è definibile come l’affidamento riposto dal datore di lavoro nell’esatta esecuzione della prestazione dedotta nel singolo contratto lavorativo. Affidamento che in detto ambito assume il massimo rilievo non solo per il fatto che si tratta di un rapporto di durata, ma anche perché in questo legame vi è necessariamente l’immissione di una parte (il lavoratore) nella sfera di interessi della propria controparte (quella datoriale) così forte che la scelta del datore di lavoro di assumere il tale dipendente piuttosto che un altro è in larga parte determinata dal particolare apprezzamento delle qualità personali del primo: il cosiddetto intuitu personae.
L’articolo 2119 del cod. civ. contiene la nozione di giusta causa di recesso dal contratto individuale a tempo indeterminato di lavoro subordinato, il quale prevede che le parti possano recedervi senza necessità alcuna di preavviso qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto medesimo.
La Corte di cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 20158 del 3 settembre 2013 sul punto ha precisato che l’elencazione, contenuta nell’articolo 41 del contratto collettivo nazionale di lavoro, delle condotte legittimanti l’irrogazione del licenziamento per giusta causa ha valore puramente indicativo e non tassativo “… laddove il fondamento del recesso possa essere individuato nella nozione legale di giusta causa e cioè in un comportamento di gravità tale da comportare la lesione del vincolo fiduciario tra le parti”.
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