La Corte di Cassazione sez. lavoro con la sentenza n. 22321 depositata il 30 settembre 2013 intervenendo in tema di licenziamenti ha statuito che il comportamento decennale ineccepibile e la volontà di porre riparo al danno rende sproporzionato il provvedimento di licenziamento per il dipendente che intasca il rimborso di un viaggio che non ha fatto.
La vicenda ha visto protagonista un dipendente di una società che aveva intascato un rimborso spese inesistente il datore di lavoro accortosi di questa circostanza procedeva, previa espletamento della procedura disciplinare, a comunicare il provvedimento di licenziamento.
Il lavoratore impugnava il provvedimento inanzi al Tribunale in veste di giudice del lavoro. Il Tribunale rigettava la richiesta del dipendente ritenendo legittimo il licenziamento intimatogli il 27/11/03 dalla M.I. S.p.A per indebita percezione di somme richieste a titolo di rimborso spese di viaggio sostenute da altro dipendente e a questi rimborsate dalla società per la stessa causale. Il dipendente ricorre avverso la decisione di primo grado alla Corte di Appello che conferma la sentenza impugnata. I giudici della Corte Territoriale considerando meritata la massima sanzione applicata al lavoratore.
La gravità del fatto, ad avviso dei giudici di merito, stava nell’intenzionalità di un’azione che era tale da ledere irrimediabilmente il vincolo di fiducia, a prescindere dalla scarsa entità del danno dal punto di vista economico: la somma indebitamente percepita era di 249 euro. A scongiurare il licenziamento non era valsa neppure l’intenzione di riparare restituendo i soldi ingiustamente incassati, né la dichiarazione di aver agito in buona fede, commettendo un errore nel compilare la nota spese. Svista che si chiedeva di perdonare anche in considerazione di una specchiata carriera trentennale nel corso della quale al dipendente non era mai stato fatto alcun richiamo disciplinare.
Il dipendente per la cassazione della sentenza dei giudici di merito ricorre alla Corte Suprema bando il ricorso su due motivi di censura.
Gli Ermellini ritengono fondato il ricorso ed evidenziano la contraddizione della sentenza impugnata. Poichè, a dire della Cassazione, i giudici di merito non avevano dato il giusto rilievo alle discordanze contenute nelle dichiarazioni dei testimoni che affermavano che il ricorrente si era risolto a restituire i soldi solo dopo aver saputo che era in arrivo una contestazione nei suoi confronti.
Sia il tribunale di prima istanza sia la Corte d’Appello pur consapevoli dell’assenza di una prova piena sulla malafede, avevano deciso che il lavoratore si era appropriato della somma nella consapevolezza che non gli spettasse. «Tale evidente contraddizione motivazionale – si legge nella sentenza della Corte – incide sia sulla valutazione dell’elemento soggettivo della gravità del comportamento addebitato al lavoratore, sia sul giudizio di proporzionalità della sanzione inflitta».
Per i giudici di legittimità valutare l’intenzionalità del comportamento era fondamentale per capire se la decisione di lasciare in piedi il rapporto poteva danneggiare l’azienda che, per raggiungere i suoi obiettivi, deve poter contare sulla correttezza dei dipendenti e sulla loro volontà di svolgere con diligenza gli obblighi assunti. Tale elemento, per gli Ermellini, è stato sottovalutato nei precedenti gradi di giudizio che non avevano dato alcun peso alla buona condotta tenuta nel corso degli anni. Infatti il dipendente era giunto alle soglie della pensione senza aver alcuna macchia nel suo curriculum.
Alla luce di quanto sopra la Corte Suprema nel rinviare la controversia ad altra sezione della Corte Territoriale invita i giudici di merito a valutare il comportamento del dipendente alla luce dei principi stabiliti dalla sentenza in esame.
La sentenza che abbiamo esaminato risulta in controtendenza rispetto all’indirizzo prevalente della Cassazione che è per la tolleranza zero nel caso di furti commessi all’interno dell’azienda, anche quando il valore della cosa sottratta è del tutto irrilevante.
Con la sentenza 1814 del 2013, la stessa sezione lavoro ha giudicato legittimo il licenziamento di un dipendente che aveva rubato lo zainetto, dato in dotazione dall’impresa, a un collega. Inutile il tentativo di minimizzare il gesto con la giustificazione che lo zainetto era vuoto. Fatti del genere – secondo i giudici- turbano la serenità dell’ambiente di lavoro, oltre a incrinare la fiducia del datore.
Per la Suprema corte (sentenza 20722/2010) il furto commesso dal dipendente giustifica anche l’utilizzo delle riprese che lo inchiodano, facendo rientrare i filmati nel sistema dei controlli difensivi.
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