CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 settembre 2013, n. 22321
Lavoro – Licenziamento – Appropriazione indebita del rimborso spese del collega – Lesione del vincolo fiduciario – Non sussiste.
Svolgimento del processo
Con sentenza del 13/3 – 18/12/08 la Corte d’appello di Roma ha rigettato l’impugnazione proposta da R.G. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Roma che gli aveva respinto la domanda diretta all’annullamento del licenziamento intimatogli il 27/11/03 dalla M.I. Cash And Carry S.p.A per indebita percezione di somme richieste a titolo di rimborso spese di viaggio sostenute da altro dipendente e a questi rimborsate dalla società per la stessa causale.
Nel pervenire a tale convincimento la Corte ha spiegato che il fatto era grave a causa della intenzionalità del comportamento illecito tenuto dal ricorrente, per cui la non rilevante entità del danno procurato di soli € 249,28 non elideva la valenza negativa dell’azione che aveva finito per ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso il G., il quale affida l’impugnazione a due motivi di censura.
Resiste con controricorso la M.I. Cash And Carry S.p.A. che deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Col primo motivo il ricorrente denunzia l’insufficienza della motivazione con specifico riferimento alla valutazione dell’intensità del dolo nei termini recepiti dai giudici d’appello attraverso il loro convincimento sulla gravità della condotta addebitatagli, così come posta a base de! convalidato provvedimento di licenziamento, mentre col secondo motivo il G. si duole dell’insufficienza e contraddittorietà della motivazione in ordine al profilo della ravvisata proporzionalità della sanzione espulsiva.
In effetti i due motivi vertono sostanzialmente sulla contestazione della ravvisata intenzionalità della condotta posta a base del convincimento sulla sussistenza di una giusta causa del licenziamento, intenzionalità che secondo l’assunto difensivo del ricorrente non sarebbe, invece, evincibile dagli atti, nonché sulla denunziata sproporzione della sanzione applicata, facendosi rilevare che i giudici d’appello avrebbero dovuto tener conto non solo della natura lieve del danno oggetto del provvedimento di risoluzione, ma anche della trentennale condotta irreprensibile osservata dal dipendente fino alla soglia del pensionamento e dell’offerta di riparazione del danno, per cui la decisione impugnata poggerebbe, secondo il ricorrente, solo sulla riconducibilità del fatto all’ipotesi astratta dell’appropriazione di beni aziendali sul luogo di lavoro prevista dalla norma collettiva come causa di licenziamento.
Il ricorso è fondato.
Invero, la contraddittorietà di fondo insuperabile che si coglie dalla motivazione della sentenza impugnata risiede nel fatto che i giudici d’appello, pur dando atto che le testimonianze dell’A. e del M. non erano risultate tra loro concordi sulla circostanza rappresentata dall’iniziativa del G. di offrire in restituzione la somma liquidatagli solo dopo essere stato reso edotto da terzi dell’imminenza della contestazione disciplinare, la qual cosa non contribuiva a dirimere i dubbi sulla fondatezza dell’assunto difensivo basato sulla spontaneità del gesto ingenerata dal successivo apprendimento dell’erroneità della richiesta di rimborso, tanto da indurli alla conclusione che in ordine al supposto tentativo del dipendente di porre tardivamente rimedio all’indebita appropriazione delle spese di viaggio non si era raggiunta la prova piena, hanno, però, ritenuto che l’appellante si era appropriato della somma nella consapevolezza che non gli spettasse, per cui una tale gravità della condotta giustificava l’irrogazione del licenziamento. Non può, quindi, sfuggire che la nota della dolosità del comportamento, ravvisata dai giudici d’appello nell’appropriazione indebita di somma di denaro già erogata allo stesso titolo di rimborso spese di viaggio ad altro collega di lavoro del G., viene dai medesimi ritenuta sussistente ad onta della presa d’atto che non si era raggiunta la piena prova sul tentativo di quest’ultimo di porre rimedio ad un fatto illecito inizialmente preordinato in danno della datrice di lavoro e nonostante che la difesa del ricorrente avesse insistito, al contrario, sulla spontaneità della restituzione a sostegno della invocata buona fede ricondotta alla erroneità della richiesta di rimborso.
Orbene, tale evidente contraddizione motivazionale incide sia sulla valutazione dell’elemento soggettivo della gravità del comportamento addebitato al lavoratore, sia sul giudizio di proporzionalità della sanzione inflitta, posto che a tal fine viene in considerazione ogni condotta che sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto possa risolversi in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti in maniera tale da conformare il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.
In definitiva, la Corte territoriale non ha dimostrato, essendo incorsa nella suddetta contraddizione logica, di aver tenuto adeguatamente conto dell’intensità dell’elemento intenzionale, aspetto, questo, che unitamente al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla sua durata, all’assenza di precedenti sanzioni ed alla sua particolare natura e tipologia, concorre nel giudizio di valutazione della gravità del comportamento addebitato e della conseguente verifica di proporzionalità della sanzione espulsiva.
Pertanto, il ricorso va accolto, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e con rinvio del procedimento alla Corte d’appello di Roma che, in diversa composizione, riesaminerà il merito della vicenda e provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia il procedimento, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.
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